La quarta guerra del Risorgimento italiano non pare debba avere per il Mezzogiorno conseguenze diverse da quelle delle altre tre. Lo ha fatto notare A. Labriola alla Camera durante la discussione della politica economica del gabinetto Salandra1, ma lâAgenzia Stefani ha trasmesso delle sue parole un riassunto generico e scolorito.
GiĂ nel 1911 in una pubblicazione semiufficiale posta sotto il patronato dellâAccademia dei Lincei, Francesco Coletti, un economista serio e poco amante dei paradossi, aveva fatto notare che lâunificazione delle regioni italiane sotto uno stesso regime accentratore aveva avuto per il Mezzogiorno conseguenze disastrose e che la cecitĂ dei governanti, dimentichi del programma economico cavouriano, aveva rincrudito lo stato di cose dal quale originava la annosa e ormai cronica questione meridionale2.
La nuova Italia aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si riunivano dopo piĂș di mille anni. Lâinvasione longobarda aveva spezzato definitivamente lâunitĂ creata da Roma, e nel Settentrione i Comuni avevano dato un impulso speciale alla storia, mentre nel Mezzogiorno il regno degli Svevi, degli AngiĂČ, di Spagna e dei Borboni ne avevano dato un altro. Da una parte la tradizione di una certa autonomia aveva creato una borghesia audace e piena di iniziative, ed esisteva una organizzazione economica simile a quella degli altri Stati dâEuropa, propizia allo svolgersi ulteriore del capitalismo e dellâIndustria. Nellâaltra le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, lâagricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale; non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale conformazione geologica, possedeva.
Lâunificazione pose in intimo contatto le due parti della penisola. Lâaccentramento bestiale ne confuse i bisogni e le necessitĂ , e lâeffetto fu lâemigrazione di ogni denaro liquido dal Mezzogiorno nel Settentrione per trovar maggiori e piĂș immediati utili nellâindustria, e lâemigrazione degli uomini allâestero per trovare quel lavoro che veniva a mancare nel proprio paese. Il protezionismo industriale rialzava il costo della vita al contadino calabrese, senza che il protezionismo agrario, inutile per lui che produceva, e non sempre neppure, solo quel poco che era necessario al suo consumo, riuscisse a ristabilire lâequilibrio. La politica estera degli ultimi trentâanni rese quasi sterili i benefici effetti dellâemigrazione. Le guerre eritree, quella di Libia, fecero emettere dei prestiti interni che assorbirono i risparmi degli emigranti. Si parla spesso di mancanza dâiniziativa nei meridionali. Ă unâaccusa ingiusta. Il fatto Ăš che il capitale va a trovare sempre le forme piĂș sicure e piĂș redditizie di impiego, e che il governo ha con troppa insistenza offerto quella dei buoni quinquennali. Dove esiste giĂ la fabbrica, questa continua a svilupparsi per il risparmio, ma dove ogni forma di capitalismo Ăš incerta e aleatoria, il risparmio sudato e racimolato con gli stenti non si fida, e va ad investirsi dove trova subito un utile tangibile. CosĂ il latifondo, che tendeva in qualche periodo a spezzettarsi naturalmente tra gli americani ritornati benestanti, rimarrĂ ancora per un pezzo la piaga dellâeconomia italiana, mentre le imprese industriali del Settentrione trovano nella guerra una fonte di profitti colossali, e tutta la potenzialitĂ produttiva nazionale rivolta allâindustria della guerra si circoscrive sempre piĂș nel Piemonte, nella Lombardia, nellâEmilia, nella Liguria e fa illanguidire quel poco di vita che esisteva nelle regioni del Sud.
Il Labriola Ăš stato lâunico che abbia prospettato alla Camera questo problema tremendo. Salandra gli ha risposto facendo delle promesse vaghe:
Il paese si va adattando, certo con sofferenza e con disagio, a quella che si chiama lâeconomia della guerra. Conseguenze gravi e dannose certamente ne deriveranno. Lâon. Labriola ha accennato allo spostamento territoriale della ricchezza che deriva dal fatto che una parte del nostro paese, per condizioni naturali e per precedenti storici, Ăš preparata allâesercizio dellâattivitĂ industriale, mentre lâaltra parte non lo Ăš. Egli aveva ragione, come aveva ragione nellâaccennare (ed io sottoscrivo al suo accenno) che bisognerĂ che si studino i compensi mediante una larga politica agraria, la quale pareggi, per quanto Ăš possibile, le regioni meno fortunate e quelle che dalla guerra subiscono danni ma anche traggono inestimabili vantaggi3.
Le promesse dellâon. Salandra saranno dimenticate, come le tante altre che furono fatte nel passato. E il parlare di una politica agraria non puĂČ che giustificare il piĂș crudo scetticismo. Il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali. Ha bisogno di una politica generale, estera ed interna, che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese, e non di particolari tendenze politiche o regionali. Non basta costruire una strada, o un bacino montano per compensare i danni che certe regioni hanno subito per causa della guerra. Bisogna, prima di tutto, che i futuri trattati commerciali non facciano chiudere i mercati ai prodotti di esse. E tutti i programmi anticipati che si fanno di guerre economiche agli Imperi centrali non sono rassicuranti da questo punto di vista. Bisogna che, come al solito, non siano i vasi di creta a spezzarsi tra i vasi di rame che la nave presa nella burrasca fa impazzire ed agitare. Bisogna impedire che la guerra per la cosĂ detta libertĂ politica abbia per risultato la tirannia economica aduggiatrice delle forze produttive, e che per punire la Germania, troppo forte e troppo bene organizzata industrialmente perchĂ© possa paventare alcuna iattura, si colpisca invece quella parte dâItalia che a parole si dice sempre di voler redimere e sollevare.
Firmato: A. G.; «Il Grido del Popolo», n. 610, 10 aprile 1916. Raccolto in SG, 30-32.
Sapete cosa ci hanno detto gli operai algerini nel loro rapporto al V Congresso del partito operaio socialista algerino, tenutosi a Costantina nel 1902? «Se voi vi dichiarate incapaci di fare questâopera (moralizzare, istruire, rendere cosciente la popolazione indigena), se voi smascherate la vostra impotenza, noi siamo in diritto di domandarvi che cosa siete venuti a fare in questo paese, e se voi vi siete installati semplicemente per rimpiazzare i collettori turchi con degli esattori francesi». Gli indigeni delle colonie francesi domandano inoltre il piĂș grande numero di scuole che sia possibile, primarie e professionali, perchĂ© possano mettersi su un piede di uguaglianza coi repubblicani francesi e affrancarsi cosĂ da ogni tutela⊠Che dei notabili siano poi venuti a Parigi a portare non piĂș gli omaggi servili dei Grandi Capi, ma bensĂ le rivendicazioni politiche di tutto un popolo Ăš un fatto che non Ăš passato sconosciuto alle masse. I musulmani di Egitto, benchĂ© fin dal 1883 [lâInghilterra] vi faccia funzionare il suffragio universale, chiedono nuove libertĂ politiche. In tutti i modi, insomma, gli indigeni delle colonie fanno sentire alle madri patrie la loro esistenza «organica». Sia nellâIndia, a Giava o sul Gonbanghi le vecchie razze addormite si risvegliano, le nuove vogliono salire verso la luce. Ă un movimento universale e sicuro. Qualunque siano le conseguenze politiche che ne debbano sortire, non bisogna tardare la liberazione degli indigeni da tutte le servitĂș. Se i politici dellâEuropa dâoggi si sentono impotenti a realizzare lâopera dâemancipazione che sâimpone, se essi si vedono incapaci a far opera di colonizzazione reale e profonda â e le statistiche lo rivelano â val meglio abdicare e rinunziare alle colonie.
Ă questo il nucleo centrale di un colloquio che il corrispondente da Parigi del «Resto del Carlino» ha avuto con Charles Dumas1, deputato socialista, capo-gabinetto del ministro Giulio Guesde e studioso dei problemi coloniali. La conclusione alla quale arriva il Dumas, del fallimento dellâopera coloniale europea, deriva da una logica implicita nelle sue affermazioni, logica per la quale «il materialismo storico, tanto maledetto e rinnegato, sarebbe la grande legge della formazione dei popoli».
Il colonialismo puĂČ avere una giustificazione morale. Esso puĂČ essere infatti la spinta storica necessaria perchĂ© degli agglomerati sociali in arretrato con la civiltĂ si modifichino, si disciplinino, acquistino la coscienza del loro essere nel mondo e del dovere di collaborare alla vita universale.
Per chi Ăš convinto che lâistruzione, lâeducazione, i perfezionamenti della tecnica produttrice sono la misura del grado di civiltĂ di un popolo, non vi Ăš dubbio che la messa in contatto di due popoli, uno a civiltĂ sviluppata e lâaltro solo a civiltĂ potenziale, sia un bene per lâeconomia generale. Ma vi Ăš modo e modo nei metodi coloniali, e dei tre che gli europei hanno prima usato: quello inglese, quello francese e quello tedesco, nessuno si Ăš posto uno scopo di educazione, ma solo di dominazione e di sfruttamento. Prendiamo come tipici i tre casi suddetti. La Francia e lâInghilterra sono le due nazioni coloniali per eccellenza, una protezionista, lâaltra liberale. Le loro colonie sono a dominio diretto, cioĂš esse non hanno voluto solo raggiungere la conquista dei mercati per le necessitĂ dei loro capitalismi, ma anche la conquista territoriale. La Germania, invece, scesa troppo tardi nellâarringo, si Ăš accontentata della semplice conquista dei mercati, perchĂ© il suo vero impero coloniale non Ăš costituito dai territori direttamente posseduti e di scarso rendimento, quanto dalle colonie inglesi o di altre nazioni in cui era possibile la penetrazione pacifica. Lâerrore Ăš consistito, secondo il Dumas, proprio in questo: gli europei non hanno acquistato le colonie per suscitare in esse forze produttive analoghe a quelle dei loro paesi, in modo che fosse possibile il formarsi di una spina dorsale economica che facesse sorgere una conseguente attivitĂ politica e sociale. Essi hanno obbedito a un impulso dei loro capitalismi e nelle colonie hanno creato delle imprese capitalistiche, ma non una societĂ capitalistica.
Il Dumas, come Ăš naturale, parla specialmente dellâopera esplicata dai francesi. La Francia non ha capito quanta fosse lâinsopprimibile brama degli indigeni di essere calcolati, considerati uomini nel gran concerto della civiltĂ europea. Ha predicato da per tutto i principĂź democratici dellâuguaglianza, della libertĂ , della fraternitĂ superiori alle razze e ai colori, ma questi principĂź non li ha trasportati dai confini della madre patria nelle colonie. LâAlgeria, per es., la piĂș importante di esse, ha unâamministrazione anarchica e arbitraria, un sistema di giustizia penale inqualificabile, arbitrĂź polizieschi enormi, torture medioevali. E fino a che lâAlgeria vivrĂ sotto il regime delle leggi di eccezione non vi sarĂ pel mondo indigeno nĂ© possibilitĂ di sviluppo economico, nĂ© possibilitĂ di sviluppo sociale. Non vi Ăš nĂ© commercio nĂ© industria possibili per colui la cui libertĂ Ăš alla mercĂ© di ogni arbitrio e di ogni bassa vendetta, e la cui proprietĂ deve pagare imposte enormemente superiori a quelle dei bianchi. In genere, in tutte le scuole miste dâeuropei e dâindigeni, i migliori allievi dâogni classe sono gli indigeni, eppure si dĂ nno dei casi come quello del comune di Mirabeau in cui 8000 indigeni contro 300 europei non hanno potuto ottenere una scuola pei loro bambini.
La benefica funzione del capitale Ăš resa nulla dal fatto che gli interessi industriali del sistema coloniale francese gravano enormemente sugli indigeni: lâeconomia interna delle colonie Ăš oppressa a beneficio di ristrette categorie dâindustriali della madre patria.
E tuttavia il contatto del mondo europeo cogli uomini di colore non Ăš stato senza conseguenze; anche indirettamente, il capitalismo Ăš riuscito a creare nuovi bisogni, nuove volontĂ , aspirazioni latenti che perĂČ potrebbero traboccare allâimprovviso in una azione violenta. Gli indigeni mal sopportano la schiavitĂș morale, tutti amano di elevarsi, emanciparsi dallâignoranza, dimostrare che essi pure sono degni di civiltĂ . E ciĂČ che si verifica nellâAlgeria, si verifica pure nellâIndocina, nellâIndia inglese, col movimento nazionalista hindĂș, a Goa dei portoghesi, a Giava degli olandesi col partito giovine giavanese, ed in pressochĂ© tutte le colonie degli europei, da per tutto dove la civiltĂ capitalistica ha gettato le sue sementi per la germinazione delle razze dei popoli attardatiâŠ
Abbiamo riportato in molti punti testualmente le parole del Dumas quali sono riferite nel colloquio col Girardon, perchĂ© esse ci sono parse straordinariamente suggestive ed interessanti. E riportiamo anche la conclusione poco confortante: noialtri europei, e soprattutto noialtri francesi, abbiamo la tendenza allâegocentrismo. Ci crediamo centro dellâuniverso e immaginiamo appena che fuori di noi, fuori della nostra vecchia sfera continentale, vi siano dei grandi movimenti dâattivitĂ umana, dove stanno elaborandosi giĂ degli avvenimenti che potranno avere delle ripercussioni decisive sui nostri destini. Alla guerra europea non potrĂ molto tardare la guerra delle colonie.
«Il Grido del Popolo», n. 612, 15 aprile 1916. Raccolto in Scritti 1921, 12-14.