Fausto aveva quarantâanni quando si rifugiĂČ a Fontana Fredda, cercando un posto da cui ricominciare. Conosceva quelle montagne fin da ragazzino, e la sua infelicitĂ quando ne stava lontano era stata tra le cause, o forse la causa dei problemi con la donna che era quasi diventata sua moglie. Dopo la separazione aveva affittato un alloggio lassĂș e trascorso un settembre, un ottobre e un novembre a scarpinare per i sentieri, raccogliere legna nei boschi e cenare davanti alla stufa, assaporando il sale della libertĂ e masticando lâamaro della solitudine. Scriveva, anche, o perlomeno ci provava: nel corso dellâautunno vide le mandrie lasciare gli alpeggi, gli aghi dei larici ingiallire e cadere, finchĂ© con le prime nevi, per quanto avesse ridotto allâosso le sue necessitĂ , finirono anche i soldi che aveva da parte. Lâinverno gli presentava il conto di un anno difficile. Qualcuno a cui chiedere un lavoro a Milano lo aveva, ma si trattava di scendere, attaccarsi al telefono, risolvere con la sua ex gli aspetti lasciati in sospeso, e una sera, poco prima di rassegnarsi a farlo, gli capitĂČ di confidarsi davanti a un bicchiere di vino, nellâunico luogo di ritrovo di Fontana Fredda.
Da dietro il suo bancone Babette lo capĂ perfettamente. Era arrivata anche lei dalla cittĂ , ne conservava lâaccento e una certa eleganza, ma chissĂ in quale epoca e per quali vie. A un certo punto aveva rilevato un ristorante in un posto che, nelle mezze stagioni, non offriva altra clientela che muratori e allevatori di bestiame, e lâaveva battezzato Il pranzo di Babette. Da allora tutti la chiamavano cosĂ, nessuno ricordava il suo nome di prima. Fausto ci aveva fatto amicizia per aver letto Karen Blixen e intuito un sottinteso: la Babette del racconto era una rivoluzionaria che, fallita la Comune di Parigi, era finita a fare la cuoca in un paesello di bifolchi in Norvegia. Questâaltra Babette non serviva brodi di tartaruga, ma tendeva ad adottare gli orfani e a cercare soluzioni pratiche a problemi esistenziali. Dopo aver ascoltato i suoi gli chiese: Sai cucinare?
CosĂ a Natale lui era ancora lĂ, a maneggiare pentoloni e padelle tra i fumi della cucina. Câera anche una pista da sci a Fontana Fredda, ogni estate si parlava di chiuderla e ogni inverno in qualche modo riapriva. Con un cartello giĂș al bivio e un poâ di neve artificiale sparata in mezzo ai pascoli attirava famigliole di sciatori e per tre mesi lâanno trasformava i montanari in macchinisti di seggiovia, addetti allâinnevamento, gattisti e soccorritori, in un travestimento collettivo di cui adesso faceva parte anche lui. Lâaltra cuoca era una veterana che in pochi giorni gli insegnĂČ a sgrassare chili di salsiccia, interrompere la cottura della pasta con lâacqua fredda, allungare lâolio nella friggitrice, e che girare la polenta per ore era fatica sprecata, bastava lasciarla lĂ a fuoco basso e si cuoceva da sola.
A Fausto stare in cucina piaceva, ma qualcosâaltro cominciĂČ ad attrarre la sua attenzione. Aveva una finestrella da cui passava i piatti in sala e osservava Silvia, la nuova cameriera, ritirare le ordinazioni e servire ai tavoli. ChissĂ dove lâaveva pescata Babette. Non era il tipo di ragazza che ti aspettavi di trovare tra i montanari: giovane, allegra, aria da giramondo, a vederla portare polenta e salsicce sembrava un segno dei tempi pure lei come le fioriture fuori stagione, o i lupi che si diceva fossero tornati nei boschi. Tra Natale e lâEpifania lavorarono senza sosta, dodici ore al giorno per sette giorni la settimana, e si corteggiarono cosĂ, lei appendendogli bigliettini sulla lavagna di sughero, lui suonando il campanello quando i piatti erano pronti. Si prendevano in giro: Due paste in bianco dello chef, diceva lei. La pasta in bianco Ăš fuori menu, diceva lui. I piatti e gli sciatori andavano e venivano a una tale velocitĂ che Fausto era lĂ a grattare le pentole quando si accorgeva che fuori era buio. Allora per un momento si fermava, gli tornavano in mente le montagne: si chiedeva se in alto avesse tirato vento o nevicato e come fosse stata la luce lassĂș, sui grandi pianori assolati oltre la quota dei boschi, e se i laghi ora assomigliassero a lastre di ghiaccio o a morbide conche innevate. A 1800 metri era uno strano inizio dâinverno in cui pioveva e nevicava, e di mattina la pioggia scioglieva il nevischio della notte.
Poi una sera, passate le feste, con i pavimenti umidi e le stoviglie asciugate e impilate, si slacciĂČ il grembiule da cuoco e andĂČ di lĂ per un bicchiere. Il bar a quellâora entrava in una tranquilla, pacifica autogestione. Babette metteva un poâ di musica, lasciava una bottiglia di grappa sul banco e i gattisti venivano a cercar compagnia tra un giro di pista e lâaltro, mentre livellavano le buche e i dossi prodotti dagli sciatori, riportavano in alto la neve che era stata spinta in basso, la fresavano dovâera ghiacciata perchĂ© tornasse granulosa, su e giĂș sui loro cingolati per lunghe ore buie. Silvia aveva una stanzetta sopra la cucina: verso le undici, dal bar Fausto la vide scendere con un asciugamano in testa, trascinare una sedia accanto alla stufa e mettersi lĂ al caldo a leggere un librone. Lo colpĂ il pensiero che fosse appena uscita dalla doccia.
Intanto ascoltava le chiacchiere di questo gattista che chiamavano Santorso, come il santo e la distilleria. Santorso gli stava raccontando della caccia ai galli di montagna e della neve. Della neve che quellâanno tardava, della neve cosĂ preziosa per proteggere le tane dal gelo, dei problemi che dava alle pernici e ai forcelli un inverno senza neve, e a Fausto piaceva imparare tante cose che non sapeva, ma non ci pensava nemmeno a perdere di vista la sua cameriera. A un certo punto Silvia si tolse lâasciugamano dalla testa e cominciĂČ a pettinarsi i capelli con le dita, avvicinandoli alla stufa. Erano neri, lunghi e lisci come quelli di una donna asiatica, e câera molta intimitĂ nel modo in cui li pettinava. FinchĂ© non si sentĂ osservata, alzĂČ gli occhi dal libro e, con le dita nei capelli, gli sorrise. A Fausto la grappa bruciĂČ nella gola come un ragazzo alle prime bevute. Poco dopo i gattisti tornarono al lavoro e Babette salutĂČ quei due, ricordĂČ allâuno o allâaltra di infornare le brioche la mattina presto, portĂČ via i sacchi dellâimmondizia e se ne andĂČ a casa. Era contenta di lasciare lĂ le chiavi, i liquori, la musica, e che il suo ristorante favorisse le amicizie anche mentre lei non câera, una piccola Comune di Parigi tra i ghiacci della Norvegia.
Quella sera fu lei a portarselo su, fosse stato per lui sarebbe arrivato prima il disgelo. Nella stanzetta di Silvia il solo calore era quello che saliva dalla cucina, cosĂ il rito dello spogliarsi risultĂČ un poâ sbrigativo, ma per Fausto entrare nudo in un letto, vicino a una ragazza altrettanto nuda e tremante, ebbe qualcosa di commovente e meraviglioso. Era stato per dieci anni con la stessa donna, e per sei mesi con lâinsipida compagnia di sĂ©. Fu come avere finalmente un ospite, esplorare quel corpo: scoprĂ che sotto era un corpo forte, solido, cosce robuste, una pelle liscia e tesa; sopra era spigoloso di ossa, poco seno e tutto costole, clavicole, gomiti, e poi zigomi e denti con cui entrĂČ in collisione quando il sesso di Silvia divenne un poâ violento. Non ricordava piĂș la pazienza che ci vuole per capire i gusti di unâaltra persona e farle capire i propri. In compenso aveva le mani piene di ustioni, tagli, abrasioni da detersivo, buchi della maledetta affettatrice, e trovĂČ una certa corrispondenza nellâaccarezzarla con quelle, alla fine.
Che buon profumo che hai, disse. Sai di stufa.
Tu sai di grappa.
Ti dĂ fastidio?
No, mi piace. Grappa e resina. Che cosâĂš?
Sono le pigne che mettiamo nella grappa.
Mettete le pigne nella grappa?
SĂ, di pino cembro. Si raccolgono in luglio.
Allora sai di luglio.
Fausto si rallegrĂČ per quellâidea, era il suo mese preferito. I boschi folti e ombrosi, lâodore del fieno nei campi, i torrenti gorgoglianti e lâultima neve su in alto, oltre le pietraie: le diede un bacio di luglio su quella bella clavicola che sporgeva.
Mi piacciono le tue ossa.
Sono contenta. Ă da ventisette anni che me le porto dietro.
Ventisette? Hanno viaggiato parecchio.
Qualche giro lo abbiamo fatto, sĂ.
Sentiamo: dovâerano le tue ossa, vediamo un poâ, a diciannove anni.
A diciannove ero a Bologna, studiavo arte.
Sei unâartista?
No. Almeno questo lâho capito. Di non essere unâartista, voglio dire. Ero piĂș brava a far festa.
A Bologna, lo credo bene. Hai fame?
Un poâ.
Vado a prendere qualcosa?
SĂ ma solo se fai veloce, ho giĂ freddo.
Volo.
Fausto scese in cucina, cercĂČ nei frigoriferi, passĂČ davanti alla finestrella sul retro e vide che i cannoni sparavano neve lungo la pista. Ogni cannone aveva un faro che lo illuminava, cosĂ il pendio sopra Fontana Fredda era tutto punteggiato da questi fuochi dâartificio, getti dâacqua nebulizzata che ghiacciavano a contatto con lâaria. PensĂČ a Santorso che nel buio della notte spianava i mucchi di neve artificiale. TornĂČ in camera con pane, formaggio, pĂątĂ© dâolive, sâinfilĂČ sotto le coperte e subito Silvia gli si strinse addosso, aveva i piedi gelati.
Lui disse: Proviamo ancora. Silvia a ventidue anni.
A ventidue lavoravo in libreria.
A Bologna?
No, a Trento. Ho unâamica di lĂ, Lilli. Dopo Bologna se nâera tornata a casa per aprire un posto suo, a me i libri sono sempre piaciuti e con lâuniversitĂ ormai avevo chiuso. Quando mi ha invitata non ci ho pensato due volte.
CosĂ hai fatto la libraia.
SĂ, finchĂ© Ăš durata. PerĂČ Ăš stato un bel periodo, sai? Ă lĂ che ho scoperto la montagna. Dolomiti di Brenta.
Fausto tagliĂČ una fetta di pane, ci spalmĂČ sopra il pĂątĂ© dâolive e aggiunse un pezzo di toma. Si chiese come doveva essere, scoprire la montagna. AvvicinĂČ il boccone alle labbra di lei ma si fermĂČ a mezzâaria.
Allora dimmi, cosa ci fai qui sotto il Monte Rosa?
Sto cercando un rifugio.
Anche tu?
Mi piacerebbe lavorare in un rifugio sul ghiacciaio. Per lâestate, dico. Tu ne conosci?
SĂ, qualcuno sĂ.
Posso avere quel formaggio?
Fausto le porse la fetta di pane e toma, Silvia aprĂ la bocca e lâaddentĂČ. Lui respirĂČ dentro i suoi capelli.
Un rifugio sul ghiacciaio, disse.
Secondo te lo trovo?
PerchĂ© no. Si puĂČ provare.
La smetti di annusarmi?
Sai di gennaio.
Silvia rise. E di cosa sa gennaio?
Di cosa sapeva gennaio? Fumo di stufa. Prati secchi e gelati in attesa della neve. Il corpo nudo di una ragazza dopo una lunga solitudine. Sapeva di miracolo.