Noi schiavisti
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Noi schiavisti

Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa

Valentina Furlanetto

  1. 216 pages
  2. Italian
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Noi schiavisti

Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa

Valentina Furlanetto

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L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Soprattutto sul lavoro dei para-schiavi, uomini e donne senza diritti che mandano avanti gran parte della nostra economia. Un libro inchiesta durissimo, che farà molto discutere.

Gli spaccapietre cinesi, i braccianti macedoni, le badanti ucraine, i rider africani, i bengalesi nei cantieri navali, gli allevatori sikh. Da una parte la necessità delle aziende di competere a livello globale sui mercati, dall'altra la rivoluzione digitale, da un'altra ancora la possibilità di usufruire di servizi e merci a prezzi bassi ci portano a nuove forme di schiavismo, più sottili, più opache, talvolta legalizzate. Attraverso le storie e le testimonianze di questi lavoratori emerge un paese che utilizza gli schiavi perché servono a tutti: ai padroni, ma anche ai consumatori che vogliono spendere meno, a chi si oppone agli sbarchi ? ma poi assume manovalanza in nero ?, a chi sostiene idee progressiste ? ma poi usufruisce di prodotti sottocosto grazie alla manodopera sottopagata. Nessuno può chiamarsi fuori: né la politica, né i grandi sindacati, né le istituzioni, né i cittadini consumatori, né le aziende. Neppure i migranti che spesso, una volta capito come funziona, diventano loro stessi sfruttatori dei propri connazionali. Siamo tutti ingranaggi di questo meccanismo che sembra stare bene a tutti, ma mette tutti in pericolo.

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Informations

Année
2021
ISBN
9788858145821

VI.
La spesa intelligente

Caterina e Kalu

Caterina, 72 anni, pensionata, spinge il suo carrello al supermercato e valuta le offerte. In borsa conserva, piegato, il volantino con le occasioni del giorno. Quella più interessante, al limite della realtà, è l’offerta dell’ananas a 1 centesimo. Il depliant che Caterina tiene in borsa recita così: 100 mila ananas al prezzo di 1 centesimo al pezzo, con peso minimo garantito di 1,3 chilogrammi, che significa 0,008 euro al chilogrammo. Pochi mesi prima era toccato all’anguria: 1 centesimo al chilogrammo. Un tempo Caterina andava al mercato, ma i prezzi sono più alti rispetto ai prezzi che trova nei supermercati, per non parlare dei discount. Si chiede come sia possibile vendere un ananas o una anguria a 1 centesimo, considerati i costi della materia prima, dell’imballaggio, del trasporto e della manodopera. Se lo chiede, certo. Poi però pensa che d’inverno non accende il riscaldamento, ma si veste più pesante, e che d’estate non va in vacanza da anni perché non se lo può permettere. “Sono vedova – spiega Caterina –, mio figlio maggiore aveva un negozio di piccoli elettrodomestici, lo gestiva con la moglie, ma poi la concorrenza delle grandi catene e delle vendite online lo ha messo in difficoltà e ha dovuto chiudere. Ho anche un nipotino e qualche volta, quando posso, cerco di dare loro un po’ di soldi. L’altro figlio ha fatto l’Università, si è laureato in Architettura con il massimo dei voti, ha subito trovato lavoro in uno studio di architettura, ma lui e la moglie, che lavora nello stesso studio guadagnano poco più di 2.000 euro in due. Perché così vengono pagati spesso gli architetti al giorno d’oggi. Hanno un mutuo, hanno due figli e il denaro non basta mai”. Spesso i nipoti e i figli sono a pranzo da lei, quindi Caterina, con la sua pensione da 800 euro al mese, guarda le offerte. E, anche se la frutta e la verdura al mercato sono più belle, anche se lei si chiede come fanno l’ananas e l’anguria del supermercato a costare 1 centesimo, ha il sospetto che per tenere i prezzi così bassi qualcuno sia sfruttato, anche se teme di essere anche lei dentro questo meccanismo di sfruttamento. Beh, Caterina fa la spesa intelligente.
Kalu Singh ha 28 anni, le mani callose, la pelle arsa dal sole, i capelli lunghi neri, la barba, il turbante in testa, il pugnale alla cintura. Si parla sempre dei braccianti africani che lavorano e vivono a Rosarno e San Ferdinando, in Calabria, oppure a Foggia, in Puglia, o ancora a Castel Volturno, in Campania. Ma si parla molto poco di altri braccianti, altrettanto sfruttati, ma quasi completamente invisibili. Kalu è un sikh indiano che proviene dal Punjab, la regione nord occidentale dell’India. Che sia invisibile nonostante turbante e pugnale è uno dei misteri di questo paese. È arrivato in Italia da quattro anni, passa giornate intere chinato a spargere fertilizzanti e veleni senza guanti e mascherine sulle piantine di fragole e zucchine nelle serre e nei campi dell’Agro Pontino, non lontano dalla bellezza trionfale di Roma. Kalu galleggia con la sua vita agra, tanto che per sopportare il dolore alla schiena e resistere alla fatica ingoia semi d’oppio. Negli ultimi tre anni in queste campagne si sono suicidati una decina di lavoratori sikh come Kalu. Non ne potevano più. Hanno le mani che fanno male a forza di ripetere certi movimenti meccanici un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’altro, hanno le schiene che fanno male perché stanno sempre piegati a raccogliere frutta e verdura, a caricare e spostare casse, a imbustare. Nella provincia di Latina pomodori, zucchine, melanzane vengono raccolti senza sosta da lavoratori come Kalu, irregolari oppure regolari, per modo di dire. A volte le loro buste paga, infatti, indicano un numero di ore lavorate nettamente inferiore a quelle fatte realmente. Contratti in grigio, così li chiamano. Secondo il IV Rapporto Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil del 2018 “sono 400.000-430.000 i lavoratori agricoli esposti al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale; di questi più di 132.000 sono in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale”. Kalu è uno dei motivi per cui la signora Caterina può acquistare l’anguria e l’ananas a 1 centesimo. Ma non è così semplice, in realtà, anche dove l’ananas al banco dell’ortofrutta costa il triplo a beneficiarne non è Kalu, né altri braccianti come lui.

Il sikh della porta accanto

È una giornata calda nell’Agro Pontino, ma Kalu non lavora, non andrà nelle serre e nei campi oggi perché arrivano gli ispettori mandati dall’Ispettorato del lavoro e quindi deve restare nascosto. “Ieri il padrone lo ha saputo e mi ha detto di restare dentro.” Kalu resta nel suo vecchio container grigio, di quelli usati per dare soccorso ai terremotati, che divide con altri tre connazionali. Fuori, le zolle di terra, il nylon delle serre. Dentro, il freddo. Il container non ha il riscaldamento, per lavarsi Kalu e i suoi compagni di lavoro usano un tubo di gomma, il bagno è alla turca e scarica direttamente in un canale. Il vetro della finestrella del container è cosparso di goccioline di condensa, perché l’umidità è alta. Dentro, su un fornelletto a gas, sta appoggiata una pentola che bolle. Kalu ha messo al suo interno del cavolfiore, del coriandolo, della curcuma, dello zenzero, alcune patate. “Sono vegetariano – dice – questo è un Aloo Gobi, un piatto che si fa spesso dalle mie parti”. Nel container l’odore speziato del piatto che sta cucinando si mescola al sudore e al gas rilasciato nell’aria dalla bombola. “Ciascuno di noi paga 250 euro al mese per dormire qui. In nero, certo. La paga è di 600 euro al mese, quindi me ne restano in tasca 350. Lavoriamo anche dieci ore al giorno, dalla mattina presto fino al pranzo, poi ci fermiamo un’ora e poi ricominciamo fino a che non tramonta il sole.” Il container si trova dietro le serre, gli sguardi degli ispettori potrebbero allungarsi fino a qui, sul perché non lo facciano si possono fare solo delle ipotesi. Come è curioso che “il padrone” sappia in anticipo che arrivano gli ispettori, così da avvisare il lavoratore di restare nascosto a cucinare il suo Aloo Gobi. Durante il lockdown, poi, le ispezioni non venivano nemmeno fatte. “Non è mai venuto nessuno. Noi però siamo andati avanti comunque a lavorare, perché la frutta e la verdura dovevano essere raccolte” dice Kalu. Il lavoro nero o grigio è la normalità da queste parti. Non è difficile capirlo, non serve neppure parlare con i lavoratori, basterebbe guardare i numeri: solo 16.827 lavoratori sono iscritti all’Inps nella provincia di Latina, mentre le aziende iscritte alla Camera di Commercio locale che hanno dipendenti stabili sono 3.400, in pratica ogni ditta ha una media di 5 braccianti69. Troppo pochi. Dove stanno gli altri? Nei container. Una massa di sfruttati nascosti in container. Ma lo sfruttamento non inizia e finisce nei campi: per capire la rete di complicità di cui gode il sistema bisogna spingersi a Latina città, negli uffici con l’aria condizionata delle palazzine intonacate a fresco dove lavorano avvocati, consulenti del lavoro, commercialisti. Senza di loro imprenditori e caporali non andrebbero da nessuna parte. Gli schiavisti chi sono? I caporali e gli imprenditori agricoli o anche questi colletti bianchi?
“È chiaro che qualcuno sa che lavoriamo qui in queste condizioni – dice Kalu – è impossibile che non lo sappiano. L’azienda agricola ha solo due dipendenti, come potrebbe raccogliere tutta la frutta e la verdura che produce con due persone? Ma tutti fanno finta di niente. Alcuni di noi lavorano in nero, altri invece hanno dei contratti grigi, in cui sono dichiarate molte meno ore di quante vengono fatte realmente. Per realizzare questo ci sono molte persone che collaborano. Esiste anche un tariffario: 200 euro per ogni busta paga finta, necessaria per rinnovare il permesso di soggiorno, e 1.000 per avere un contratto. Spesso dobbiamo pagarci da soli i contributi o firmare il nostro licenziamento. Ogni sei o sette mesi il padrone mi chiama e mi fa firmare un foglio. Io non so leggere in italiano, ma con lui c’è sempre un sindacalista. Io firmo e non faccio domande perché altrimenti mi mandano via. Ma non sono stupido, ho capito. Poi il padrone ha amici importanti: politici, un poliziotto che a volte viene in divisa e a volte con abiti normali. Chiacchierano, ridono, mangiano assieme. Il poliziotto ci vede lavorare senza mascherine, senza guanti, ci vede dalla mattina alla sera nei campi e nelle serre e non dice nulla”.
Scioperi e proteste li fanno finire direttamente nella lista dei non graditi. “Se denunci non lavori più – dice Kalu –, padroni e caporali hanno la lista di quelli che protestano. Io non me lo posso permettere. Devo mandare i soldi alla mia famiglia, mia sorella ha una malattia dalla nascita, per cui servono molte medicine, mia madre è rimasta sola e deve accudirla, non può lavorare. Per questo io sono venuto in Italia”. In questo meccanismo ci sono Caterina, pensionata 72enne che cerca il prezzo più basso al supermercato per desiderio di risparmio e per necessità, e c’è Kalu, schiavo sikh venuto dal Punjab per lavorare, ma ci sono anche molte altre persone: caporali e agricoltori certamente, ma anche colletti bianchi che favoriscono contratti, permessi di soggiorno e documenti, ispettori e forze dell’ordine distratti, sindacalisti che chiudono un occhio, norme che permettono le aste al doppio ribasso e infine la grande distribuzione organizzata. Kalu, quando è arrivato, pensava all’Italia come a un paese pieno di monumenti, di arte, di bellezza. Pensava a Roma, al Colosseo, a Piazza di Spagna. Invece vive a pochi chilometri dalla capitale, ma non l’ha mai vista. Si è ritrovato a vivere in un container freddo e squallido fra le zolle di terra. “Pensavo all’Italia e mi dicevo che avrei vissuto bene. Tutti conoscono l’Italia. Invece faccio una vita miserabile. Ma la cosa che mi dispiace di più è che vedo tante complicità e non so di chi mi posso fidare. Se neppure dei sindacalisti o dei poliziotti ci si può fidare, a chi dobbiamo rivolgerci?”

La seconda più grande comunità in Europa

Nessuno sa con precisione quanti siano i sikh in Italia. Secondo il “Corriere della Sera” sono 150 mila70, mentre altre fonti ridimensionano questo numero a 70 mila. Per la Fondazione Ismu, su dati Istat e Orim (Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità), sono 17 mila, ma questo dato appare fortemente sottostimato perché non include tutti i sikh che in questi anni hanno avuto la cittadinanza italiana e soprattutto tutti coloro che non hanno i documenti. Quella italiana è comunque riconosciuta come la seconda comunità sikh in Europa, dopo quella del Regno Unito.
È curioso come a una presenza così importante, con un aspetto esteriore così eccentrico e visibile (nessun sikh gira senza il suo turbante e il suo pugnale), corrisponda una percezione così bassa della loro presenza. Anche sui giornali si trovano spesso rappresentati gli afroitaliani, gli immigrati cinesi, ma raramente i sikh. Sono fantasmi, invisibili, e anche come comunità si fanno sentire poco, sono presenze discrete e tranquille, che protestano poco e malvolentieri. Uno dei tre pilastri della religione sikh, d’altra parte, è l’impegno sul lavoro. Qualcuno dice che proprio per questo sono “gli schiavi ideali”. I sikh presenti in Italia arrivano soprattutto dal Punjab indiano e i primi arrivi risalgono già agli anni ’80 e ’90, quando iniziarono a spopolarsi le campagne e gli italiani si spostavano verso i centri urbani, abbandonando il lavoro nei campi per lavorare nelle industrie o nei servizi. I gruppi più numerosi si sono insediati nell’Agro Pontino e nella Pianura Padana, dove hanno trovato lavoro soprattutto nel settore agroalimentare e zootecnico. Hanno salvato molte aziende dalla crisi e dalla mancanza di manodopera nostrana e sono fondamentali nella produzione di due eccellenze: il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano.
Che la loro presenza in Italia sia radicata si capisce anche dal fatto che gli edifici dedicati al loro culto ormai sono più di quaranta nel nostro paese: il più importante è a Novellara (Reggio Emilia), mentre il più grande, il secondo in Europa per dimensioni, è stato inaugurato nel 2011 a Pessina Cremonese ed è stato finanziato dalla Banca Agricola Mantovana oltre che dalle offerte dei fedeli sikh.
Tuttavia, mentre l’inserimento nella Pianura Padana è stato ben accettato e il loro lavoro è apprezzato e rispettato, nell’Agro Pontino si registrano continuamente fatti di cronaca e si aprono inchieste su caporalato e sfruttamento della manodopera sikh. Nel 2016 per la prima volta uno sciopero ha visto braccianti sikh protagonisti nelle manifestazioni e nelle rivendicazioni di orari, condizioni di lavoro, contratti, paga accettabile e regolare. Ad ogni modo, da quella protesta lo sfruttamento non si è interrotto, tanto che per resistere alle durissime condizioni di lavoro molti di questi braccianti arrivano ad assumere antidolorifici e capsule di oppio. Lo confessano loro stessi, come ci ha raccontato Kalu, e lo si legge nelle cronache: sono frequenti i sequestri di papaveri da oppio essiccati, che – dicono gli inquirenti – sono destinati alla numerosa comunità di braccianti indiani che risiede ormai da anni nell’Agro Pontino. I bulbi, masticati o utilizzati per fare degli infusi, sono usati per resistere alla fatica del lavoro nei campi. È stata l’associazione In Migrazione a denunciare più volte la diffusione di sostanze stupefacenti fra i lavoratori, spiegando in un dossier 71che l’assunzione di questo stupefacen...

Table des matières

  1. Introduzione. La trappola
  2. I. Carne da macello
  3. II. La cura
  4. III. C’è un pacco per te
  5. IV. Licenziare gli eroi
  6. V. Lo sporco degli altri
  7. VI. La spesa intelligente
  8. VII. Spaccapietre
  9. VIII. Bangla-Italia
  10. IX. Storia di un pranzo a domicilio
  11. Ringraziamenti
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Furlanetto, V. (2021). Noi schiavisti ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3459712/noi-schiavisti-come-siamo-diventati-complici-dello-sfruttamento-di-massa-pdf (Original work published 2021)

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Furlanetto, Valentina. (2021) 2021. Noi Schiavisti. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3459712/noi-schiavisti-come-siamo-diventati-complici-dello-sfruttamento-di-massa-pdf.

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Furlanetto, V. (2021) Noi schiavisti. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3459712/noi-schiavisti-come-siamo-diventati-complici-dello-sfruttamento-di-massa-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Furlanetto, Valentina. Noi Schiavisti. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2021. Web. 15 Oct. 2022.