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Lâuscita dalla democrazia
Questo libro ha lâintento di contribuire, partendo dallâAfrica dove vivo e lavoro (ma anche dal resto del mondo, per il quale non ho mai smesso di vagare), a una critica del tempo che Ăš il nostro: il tempo del ripopolamento e della globalizzazione del mondo sotto lâegida del militarismo e del capitale e, come ultima conseguenza, il tempo dellâuscita dalla democrazia (o del suo rovesciamento). Per portare a buon fine il progetto procederemo in modo trasversale, attenti ai tre temi dellâapertura, della traversata e della circolazione. Ă un procedimento che si rivela utile solo se lascia spazio a una lettura a ritroso del nostro presente.
Il procedimento parte dal presupposto che qualunque decostruzione autentica del nostro tempo debba partire dal pieno riconoscimento del ruolo inevitabilmente provinciale dei nostri discorsi e del carattere necessariamente regionale dei nostri concetti, e pertanto da una critica di qualsiasi forma di universalismo astratto. CosĂŹ facendo, il procedimento si sforza di rompere con lâatmosfera dominante della nostra epoca, che, come si sa, Ăš improntata alla chiusura e alle demarcazioni di ogni sorta, la frontiera tra qui e laggiĂč, vicino e lontano, dentro e fuori, linea Maginot per gran parte di quello che oggi passa per âpensiero globaleâ. Ma il âpensiero globaleâ puĂČ essere solo quello che, dando le spalle alla segregazione teorica, si fonda di fatto sugli archivi di ciĂČ che Ădouard Glissant chiamava il âTutto-mondoâ.
1. Capovolgimento, inversione e accelerazione
Per le esigenze della riflessione che qui cerchiamo di delineaÂre, meritano di essere messi in rilievo quattro tratti caratteristici del tempo che viviamo. Il primo Ăš il restringimento del mondo e il ripopolamento della Terra con il manifestarsi di uno squilibrio demografico a vantaggio dei mondi del Sud. Lo sradicamento geografico e culturale, e poi il trasferimento volontario o lâinsediamento forzato di intere popolazioni su vasti territori in precedenza abitati esclusivamente da popolazioni autoctone furono eventi decisivi del nostro avvento alla modernitĂ . Sul versante atlantico del pianeta scandirono quel processo di redistribuzione planetaria delle popolazioni due momenti significativi, legati allâespansione del capitalismo industriale.
Si tratta della colonizzazione (avviata allâinizio del Cinquecento con la conquista delle Americhe) e della tratta degli schiavi negri. Sia il commercio negriero sia la colonizzazione coincisero in gran parte con la formazione del pensiero mercantilista in Occidente, quando non ne furono puramente e semplicemente allâorigine. Il commercio negriero era funzionale allâemorragia e al prelievo delle braccia piĂč utili e delle energie piĂč vitali delle societĂ fornitrici di schiavi.
Nelle Americhe fu messa al lavoro la manodopera servile di origine africana, nel contesto di un vasto progetto di controllo dellâambiente ai fini di una sua valorizzazione razionale e proficua. Il sistema della piantagione fu prima di tutto, da molti punti di vista, il governo delle foreste e degli alberi da tagliare e bruciare regolarmente; del cotone e della canna da zucchero che dovevano rimpiazzare la flora preesistente, degli antichi paesaggi che occorreva rimodellare, delle precedenti formazioni vegetali che si dovevano distruggere e di un ecosistema che doveva essere sostituito da un agrosistema. La piantagione, tuttavia, non era soltanto un dispositivo economico. Per gli schiavi trapiantati nel Nuovo Mondo, era anche la scena in cui si svolgeva un nuovo inizio. Qui cominciava unâesistenza ormai vissuta secondo un principio essenzialmente razziale. Ma la razza cosĂŹ intesa, lungi dallâessere un puro e semplice significante biologico, rimandava a un corpo senza mondo e fuori territorio, un corpo di energia combustibile, una specie di doppio della natura, che mediante il lavoro era possibile trasformare in stock o fondi disponibili.
La colonizzazione, per parte sua, era funzionale allâescrezione di uomini e donne che per numerose ragioni erano giudicati superflui, in eccesso, nellâambito delle nazioni colonizzatrici. Era questo il caso, in particolare, dei poveri a carico della societĂ , dei vagabondi e dei delinquenti che si ritenevano nocivi per la nazione. La colonizzazione era una tecnica di regolazione dei movimenti migratori. Allâepoca molti pensavano che questa forma di migrazione sarebbe stata vantaggiosa, in ultima analisi, per i paesi di partenza. «Non solo numerosi uomini che qui vivono ora nellâozio e rappresentano un fardello, un peso, e nulla apportano a questo regno, saranno messi in tal modo al lavoro, ma anche i loro figli di dodici o quattordici anni o anche meno saranno distolti dallâozio, facendo mille cose di poco valore che potrebbero essere buone mercanzie per questo paese», scriveva, per esempio, Antoine de Montchrestien nel suo TraitĂ© dâĂ©conomie politique allâinizio del Seicento. Inoltre, aggiungeva, «le nostre donne inattive [...] saranno impiegate per strappare, tingere e separare le piume, per tirare, battere e lavorare la canapa, per raccogliere il cotone, e per varie cose nella tintura». Gli uomini, per parte loro, concludeva lâeconomista francese, potranno «impegnarsi nellâestrazione di minerali, nellâaratura e persino nella caccia alle balene [...] oltre alla pesca del merluzzo, del salmone, dellâaringa e nel taglio di alberi».
Dal secolo sedicesimo al diciannovesimo queste due forme di ripopolamento del pianeta tramite la predazione umana, lâestrazione delle ricchezze e la messa al lavoro di gruppi sociali subalterni rappresentarono le principali sfide economiche, politiche e, da molti punti di vista, filosofiche. La teoria economica e quella della democrazia furono in parte elaborate partendo dalla difesa o dalla critica di una o dellâaltra di queste due forme di redistribuzione geografica delle popolazioni. Queste, di converso, furono allâorigine di molteplici conflitti e guerre per la ripartizione e lâappropriazione. Lâesito di questo movimento di dimensioni planetarie fu una nuova spartizione della Terra con al centro le potenze occidentali e, allâesterno o ai margini, periferie dove dominava la lotta a oltranza, destinate allâoccupazione e al saccheggio.
Ă anche necessario prendere in considerazione la distinzione che si fa solitamente tra la colonizzazione commerciale â ovvero quella che puntava sulla strutturazione di empori â e la colonizzazione attuata con insediamenti veri e propri. Certo, in entrambi i casi si riteneva che lâarricchimento della colonia â di qualsiasi colonia â avesse senso solo se contribuiva ad arricchire anche la metropoli. La differenza, perĂČ, stava nel fatto che la colonia dâinsediamento era concepita come unâestensione della nazione, mentre quella degli empori o di sfruttamento era solo un mezzo per arricchire la metropoli mediante un commercio asimmetrico e iniquo, quasi in assenza di investimenti rilevanti in loco.
Dâaltra parte, il dominio sulle colonie di sfruttamento era teoricamente destinato a finire e la presenza degli Europei in quei luoghi era del tutto temporanea. Nel caso delle colonie di insediamento, lo scopo della politica migratoria era di mantenere nellâambito della nazione le persone che si sarebbero perse se fossero rimaste in patria. La colonia fungeva da valvola di sfogo per gli indesiderabili, appartenenti alle categorie della popolazione «i cui crimini e le cui dissolutezze» potevano diventare «in poco tempo devastanti», i cui bisogni li avrebbero spinti in prigione o costretti a mendicare, rendendoli cosĂŹ inutili per il paese. Questa divisione dellâumanitĂ in popolazioni âutiliâ e âinutiliâ â âeccedentiâ o âsuperflueâ â Ăš rimasta la regola, poichĂ© lâutilitĂ si misura sostanzialmente in base alla possibilitĂ di sfruttare la forza lavoro.
Peraltro il ripopolamento della Terra allâinizio dellâera moderna non passa solo attraverso la colonizzazione. Migrazioni e mobilitĂ si spiegano anche con fattori religiosi. Negli anni tra il 1685 e il 1730, allâindomani della revoca dellâeditto di Nantes, fuggirono dalla Francia circa 170.000-180.000 ugonotti. Lâemigrazione religiosa tocca anche molte altre comunitĂ . In realtĂ sâintrecciano forme diverse di circolazione tra le nazioni: ad esempio gli ebrei portoghesi, le cui reti commerciali si articolano intorno ai grandi porti europei di Amburgo, Amsterdam, Londra o Bordeaux; gli Italiani che invadono il mondo della finanza, del commercio o dei mestieri altamente specializzati del vetro e dei prodotti di lusso; per non parlare dei soldati, dei mercenari e degli ingegneri che, grazie ai molteplici conflitti di quegli anni, passano allegramente da un mercato della violenza allâaltro.
Allâalba del ventunesimo secolo la tratta degli schiavi e la colonizzazione di regioni remote non sono piĂč i mezzi con i quali si attua il ripopolamento della Terra. Il lavoro, nella sua tradizionale accezione, non Ăš piĂč il mezzo privilegiato di formazione del valore. Ă tuttavia una fase di incertezze, di grandi e piccoli spostamenti e trasferimenti, in sintesi di nuove figure dellâesodo. Le nuove dinamiche della circolazione e la formazione di comunitĂ sparse si esplicano in gran parte con le attivitĂ commerciali e di scambio, le guerre, i disastri ecologici e le catastrofi ambientali, e i trasferimenti culturali di ogni genere.
Lâinvecchiamento accelerato dei gruppi umani delle nazioni ricche del mondo, da questo punto di vista, Ăš un fatto di notevole rilevanza. Ă il contrario dei surplus demografici tipici del diciannovesimo secolo appena ricordati. La distanza geografica in quanto tale non costituisce piĂč un ostacolo alla mobilitĂ . Le grandi rotte migratorie si diversificano, e si attivano dispositivi sempre piĂč sofisticati di aggiramento delle frontiere. Se i flussi migratori centripeti si orientano simultaneamente in piĂč direzioni, lâEuropa e gli Stati Uniti in particolare restano ancora i principali punti di insediamento delle moltitudini in movimento, specialmente di quelle che provengono dalle zone di maggior povertĂ del pianeta. Sorgono qui nuovi agglomerati e si costruiscono, nonostante tutto, nuove metropoli multinazio...