La felicità della democrazia
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La felicità della democrazia

Un dialogo

Gustavo Zagrebelsky, Ezio Mauro

  1. 256 pages
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La felicità della democrazia

Un dialogo

Gustavo Zagrebelsky, Ezio Mauro

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Il raffinato dialogo Zagrebelsky-Mauro come ogni vero dialogo mette a confronto due sistemi di pensiero, non pretende di approdare alla vittoria dell'uno sull'altro. Ha invece un grande merito: aiuta a pensare al riparo, una volta tanto, dalla retorica.Luciano Canfora, "Corriere della Sera"Un dialogo che ingenera molti dubbi ma definisce anche molte certezze: per esempio quella secondo cui è alla democrazia, a questa forma di governo e di Stato che va affidato nel bene e nel male, nell'adesione sincera come nella critica spietata, il destino delle presenti e delle future generazioni, almeno fin quando il nostro sguardo è in grado di spingersi.Alberto Asor Rosa, "il manifesto"Una riflessione sul nesso fra democrazia e felicità rinvia, è inevitabile, alla formula dei padri costituenti americani. A quel tempo la ricerca della felicità era l'obiettivo degli oppressi; mentre al contrario, negli anni in cui viviamo, un certo grado di giustizia sociale sarebbe il modo migliore per accedere alla felicità possibile. In realtà tutto si tiene e proprio questo libro ne è la migliore conferma. Libertà e giustizia sono i due termini di un binomio che nessuno ha saputo finora sostituire.Stefano Folli, "Il Sole 24 Ore" C'è vita nella democrazia, dunque è giusto e possibile cercarvi anche la felicità. Che viene dalla nostra normale condizione di cittadini fedeli e infedeli, uomini e donne, persone liberamente associate. Proprio qui sta la possibilità vera della felicità: nella condizione di libertà personale e civile che nasce dalla democrazia, nella consapevolezza che tutti non io soltanto esercitano quella libertà e ne riconoscono il limite.La democrazia non mantiene le sue promesse, la democrazia può deludere quando non produce buona politica e buon governo, quando non risponde alle mie esigenze biografiche. E tuttavia, come si fa il saldo della partita democratica? Scrivi pure quelle poste al passivo, e concludi che viviamo in una fase di bassa qualità della democrazia. Ma tra gli attivi io scrivo la mia (e la tua) libertà, intatta, i miei diritti, i principi d'uguaglianza alla base del nostro ordinamento, la possibilità di informarmi e d'informare, di pregare o di non credere, di studiare e di lavorare, di intraprendere, di governare e di dissentire, in un sistema in cui questo vale per tutti. È difficile, molto difficile, ma l'avvenire contiene molte cose, molte. Queste cose sono atti e fatti. La democrazia chiede che dipendano da noi coscientemente, responsabilmente, attivamente, perfino felicemente quanto è possibile.

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Informations

Année
2012
ISBN
9788858104606

1. Il tempo della democrazia

EZIO MAURO Per rassicurarci, potremmo cominciare col dire che la «cosa-democrazia» diventa rilevante quando la «parola-democrazia» non è più in discussione. Siamo una democrazia giovane ma ormai consolidata e non revocabile. Non si può ragionevolmente credere che oggi qui, in mezzo all’Europa, qualcuno sia capace di attentare al sistema democratico. Dunque si può ragionare senza rischi e senza ambiguità sul funzionamento delle nostre istituzioni e del meccanismo democratico. Potremmo dire che finalmente la società non si accontenta più di avere la democrazia, non le basta contemplarla, come un orizzonte statico di riferimento immutabile: pretende di misurarla nel suo divenire. C’è per fortuna un’autonomia della società anche rispetto alle regole di funzionamento del sistema che, nel momento in cui vengono riconosciute, sono anche valutate e giudicate. E c’è per fortuna una vitalità della democrazia che si muove e muta insieme con la società che le dà forma. Non si tratta di una fede immobile o, peggio, di un’ideologia. Altrimenti sarebbe inutile misurarla nel tempo.
GUSTAVO ZAGREBELSKY Da queste tue prime considerazioni, mi pare di capire che, tra noi due, spetterà a me il ruolo dello scettico, per non dire della Cassandra o dell’uccello del malaugurio.
EM Perché? Che cosa te lo fa pensare?
GZ Il fatto che tu abbia iniziato le tue considerazioni con un «per rassicurarci». Queste parole, mi pare tradiscano un’inquietudine. Se non ci fossero ragioni per essere allarmati, non avresti detto così. Almeno, così penso io che forse, rispetto a te, sono un poco meno incline all’ottimismo sul fatto che la democrazia come forma politica sia irrevocabilmente accettata. Capisco che la tua premessa – la democrazia è acquisita – è utile per sgombrare il campo dalle prospettive catastrofiche e, per ragionare pacatamente, senza dal passato evocare fantasmi e alimentare scontri di fedi politiche, e senza contrapporre, in modo manicheo, amici e nemici della democrazia. Ma io sono meno propenso di te, su questo punto, a fare affermazioni categoriche, affermazioni che potrebbero rivelarsi, poi, più che constatazioni consolazioni, più che previsioni speranze. Anche perché parliamo di democrazia, ma che cosa sia precisamente ciò di cui stiamo parlando è tutt’altro che evidente. In ogni caso, proprio il nesso di reciproca dipendenza, che tu giustamente sottolinei, tra valore e sua traduzione pratica mi induce a una certa cautela.
EM Pensi davvero che ci sia da temere per la democrazia, anche solo come forma politica? Non ti pare che ormai, nel mondo occidentale, nessuno oserebbe proclamarsi antidemocratico? Tra le due guerre, in Europa, si sono affermate ideologie apertamente antidemocratiche, costruite sul rovesciamento di tutti i principi-base della democrazia, a incominciare dall’uguaglianza e dalla libertà, sostituite dalla gerarchia e dall’obbedienza, per finire con l’affermazione di miti terribili come l’identità razziale e lo «spazio vitale» dei popoli superiori o il dominio di una classe. Oppressione, guerre, milioni di morti, genocidi si sono alimentati in questo crogiolo di idee mortifere. Ma dove sono, oggi, queste idee? Nessuno oserebbe proclamarle, chiedere consensi, immaginare politiche e alleanze su questi presupposti. Se lo facesse, sarebbe immediatamente collocato fuori dal consesso civile. Farebbe, prima di tutto, il suo male.
GZ Sì. Credo che tu abbia ragione. La democrazia è l’ideale del nostro tempo. Perfino i dittatori, quando prendono il potere, sciolgono il Parlamento, sospendono i diritti, dicono di farlo per restaurare la «vera democrazia», appena possibile. La tua osservazione, tuttavia, forse non considera che la democrazia è un sistema di governo molto compiacente. Può ospitare tante cose, senza abbandonare il suo nome. La classe politica, proprio per la ragione che tu hai indicato, non rinuncerebbe a dirsi democratica. I cittadini comuni, a loro volta, spesso sono, per così dire, di bocca buona e si lasciano persuadere facilmente d’essere loro a tenere in mano le carte del gioco democratico. Ma, se consideriamo i risultati della riflessione critica sulle forme politiche del nostro tempo, siamo sorpresi nel constatare che alla massima estensione spaziale della democrazia corrisponde un’insicurezza, anzi uno scetticismo crescente, diffuso e diffusivo. Solo vent’anni fa le democrazie si distinguevano in relazione al rapporto con la loro base sociale: democrazie liberali, proletarie, sociali, socialiste, per esempio. Erano formulazioni di teoria politica che denotavano, in modo neutro, specie diverse di forme politiche.
Ora le democrazie si connotano, in generale, con specificazioni tutte negative. Nella meno impegnativa delle ipotesi, si parla di «post-democrazia»: meno impegnativa perché ci dice che siamo «oltre» la democrazia, senza però chiarire dove siamo andati a finire. Con oscuri presagi e con allusione a processi degenerativi, si parla di «democrazie mature» o «tardo-democrazie»: ancora democrazie, ma al tramonto. Altri parlano di democrazie «di poca o senza qualità». Alludendo poi alla crescita di fattori autoritari dentro le forme della democrazia, si è parlato di «democrazie tenute a bada» (managed democracies), si è coniato il neologismo «democratura», sul cui significato non c’è da spendere parola, e si è giunti infine alle «democrazie senza democrazia». Il «dispotismo democratico» sembra a qualcuno il destino della democrazia di massa preconizzato da Tocqueville. È diventato espressione d’uso comune, che non fa (più) sobbalzare nessuno. Dobbiamo tenere conto che non si tratta di spericolate formule che vogliono colpire l’immaginazione di menti semplici. Sono il risultato di documentati e ragionati esami delle condizioni attuali delle società che si auto-definiscono democratiche, condotti da distinti studiosi per mezzo di misurazioni empiriche secondo parametri dettati dall’evidenza (elezioni e loro regolarità, associazionismo politico, pluripartitismo, libertà d’informazione, diritti fondamentali, diritto al dissenso, ecc.). Una volta si misuravano i progressi della democrazia, oggi i regressi. Non è cosa da poco. Non credi che sia un dato su cui lanciare un «allarme democratico»?
EM Una volta, come dici tu, uscivamo dal buio delle dittature, da una guerra che aveva sconfitto l’ipoteca hitleriana sull’Europa e da due decenni di fascismo in Italia. Il secolo europeo – ad Ovest, non a Est – ritrovava insieme libertà e democrazia, le sperimentava come indispensabili l’una all’altra, e i popoli che avevano vissuto nel totalitarismo potevano percepire direttamente, concretamente, il valore della democrazia per differenza. Oggi quegli stessi popoli, direbbe Bobbio, vivono la democrazia se non per convinzione almeno per abitudine o assuefazione. Ne percepiscono meno il valore, probabilmente: ma non potrebbero farne a meno, è diventata una sorta di loro condizione naturale. Stai per dirmi che così la democrazia non li appassiona? Può darsi, ed è certo un problema quando l’unica religione civile superstite è una religione stanca. Ma francamente io non credo che ci sia oggi ragione di allarmarsi per la democrazia, se si intende la sua sorte, la dichiarazione di fallimento anche di quel dio, dopo gli altri dei-impostori del Novecento. C’è motivo di preoccuparsi per la sua salute, se mai, cioè per la sua efficacia, che è poi la sua capacità di mantenere le promesse. Questo giustifica il tuo pessimismo?
GZ Tu dici pessimismo. Può darsi che sia così. Lo sapremo solo a posteriori, a giochi fatti. Allora ci potremo chiedere se abbiamo visto rosa quando le cose erano nere, o nero quando erano rosa. Per continuare sulla strada delle preoccupazioni, ho altre due osservazioni da sottoporre alla tua attenzione.
EM Iniziamo con una. Andiamo piano e non mescoliamo gli argomenti.
GZ A me pare di notare un fatto sorprendente che ha a che vedere con la storia della democrazia. Si tratta di qualcosa di profondo, di uno «scollamento», di un distacco, forse addirittura di un rovesciamento. Sì, forse bisogna parlare proprio di rovesciamento. La democrazia è sempre stata, finora, la rivendicazione degli inermi, degli esclusi. Di quelli che contano poco o nulla e vogliono contare di più, vogliono farsi valere in società che li tengono ai margini. Intuitivamente, significa contestazione delle concentrazioni di potere oligarchico attraverso diffusione e uguaglianza di partecipazione politica. La democrazia dovrebbe stare dalla parte, dovrebbe essere la parola d’ordine dei senza-potere, contro coloro che dispongono di troppo-potere. Dovrebbero essere i primi, non i secondi a esserle amici. Lasciamoci andare, per una volta soltanto, a una frase retorica: la democrazia vuole dare potere a chi non ne ha, vuole potenti gli inermi (i «tapini») e inermi i potenti: «Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles» (Lc 1, 52: «kathéilen dynástas apò thrónon kaí ýpsosen tapeinoús»), dice una lode del Signore che dovrebbe essere il motto d’ogni spirito democratico. Oggi, è così? Mi pare si debba constatare il contrario. Sono i detentori del potere (i dynástai) a fare della democrazia – della parola democrazia – il proprio orpello, a invocarla per rendere indiscutibile il proprio potere sugli inermi. Quanti abusi di potere si giustificano «democraticamente»! La democrazia, intesa come ideologia dei governanti, è una sorta di assoluzione preventiva dell’arbitrio sui deboli, sugli esclusi, sui senza speranza, in nome della forza del numero.
EM In realtà la democrazia liberale dovrebbe tutelare il cittadino proprio dall’arbitrio e dall’abuso di potere. Anzi, lo Stato di diritto dà una cornice istituzionale, costituzionale ai diritti naturali degli individui. In questo modo li garantisce giuridicamente nei confronti degli altri, e anche nei confronti del potere, che è finalmente sottoposto alle leggi umane e non solo a quelle divine come accadeva per i sovrani. Per questo noi chiamiamo democratico il potere che riconosce i suoi limiti nei controlli costituzionali, negli equilibri tra le istituzioni, nell’indipendenza della magistratura, nei diritti indisponibili dei cittadini. Ma tu avverti un rischio, mi pare: la coscienza del limite, tipica della democrazia e del liberalismo, cozza contro alcune concezioni correnti del potere come potestà sovraordinata, come comando, come investitura. Come vedi, le parole ci portano vicini alla meta-politica, fuori dal disegno classico dello Stato costituzionale moderno come lo conosciamo. Ma questa è una concezione strumentale della democrazia, un abuso democratico, non è la democrazia che degenera per un suo processo autonomo di decadimento. Scopriamo, piuttosto, che la democrazia è fragile, è delicata, è manipolabile. E mentre lo scopriamo, prendiamo atto che questo è inevitabile, perché per definizione la democrazia è disarmata, o meglio armata solo del diritto, della regolarità istituzionale, della trasparenza davanti al cittadino.
GZ Certo, è così. Ma qui non sto parlando di buona o cattiva democrazia, ma semplicemente di un dato di fatto, molto sospetto, cioè che la democrazia come icona politica sta cambiando partito, sta mostrando un volto minaccioso proprio nei confronti di coloro ch’essa è nata per proteggere. Non sto parlando delle guerre per «esportare» democrazie. Sto parlando dell’uso interno, quello diretto a giustificare prepotenze, illegalità, discriminazioni, indecenze d’ogni tipo, fosse anche rivestite dalla forma della legge, in nome del «consenso». Non c’è da stupirsi, allora, per il «disincanto democratico» (chiamiamolo così) che si sta diffondendo sempre di più, e non tra chi appartiene ai giri del potere, ma proprio tra chi ne è escluso. L’astensionismo elettorale (in Italia quasi il 30% alle «politiche» del 2008, molto di più alle «amministrative», per non parlare di quel che accade in altri Paesi) non pone solo ai partiti un problema di «recupero». È il segno che la democrazia, come ideale politico, si sta appannando, anzi sta facendo una semi-rotazione: dal basso all’alto. E aggiungo: c’è una regola alla quale obbediscono le parole della politica come democrazia, «libertà», «giustizia», «equità», «progresso», «sviluppo», «legge», «costituzione», ecc. Il loro significato cambia a seconda che chi le pronuncia stia in alto o in basso nella scala del potere sociale. Anzi, dico di più: ciò che esse indicano può apparire bello, buono e giusto, dunque desiderabile, agli uni, ma brutto, cattivo e iniquo, dunque odioso, agli altri.
EM Ma il disincanto democratico – che è una sorta di solitudine repubblicana, e può diventare secessione silenziosa, separatezza, in una parola perdita o vero e proprio smarrimento di cittadinanza –, io non sono sicuro che lo si debba imputare alla democrazia e non piuttosto alla politica. Il confine è incerto. Se i canali di partecipazione sono ostruiti, se la legge elettorale impedisce agli elettori di scegliere i propri rappresentanti ma delega la scelta ai capipartito, se la rappresentanza è debole e incerta, è la politica che deve essere chiamata in causa: la cattiva politica, naturalmente. La cattiva politica, possiamo domandarci, è colpa di una democrazia difettosa, e il difetto si rivela proprio nel principio dell’inclusione? Qui, mi sembra, tu introduci in sostanza un dubbio, che riassumerei così: se da regime di tutti, o almeno dei molti, la democrazia non sia diventata un regime di pochi, dunque una forma di oligarchia.
GZ Questa è un’osservazione preziosa che propongo di lasciare per ora da parte. La riprenderei più avanti perché credo ci permetterà di portare ad unità una serie di considerazioni che andremo facendo. Intanto, vorrei restare ancora un momento sul destino del significato delle parole citando un passo di Marco Revelli: «In tempi di trasformazione (o di transizione?), come questi, anche il linguaggio come il terreno sociale che ci sta sotto i piedi, trema. Si liquefa. E le parole tendono a separarsi dal loro senso consueto. A cambiare, come le cose, ‘destinazione d’uso’. A disseccarsi, alcune, e a uscire fuori corso. O a svuotarsi, e diventare involucri buoni a tutti gli impieghi. O ancora [questo è il caso nostro] a rovesciarsi, e ad assumere un significato opposto a quello originario. Nel sociale, la parola democrazia non si pronuncia più. Sembra che ci si accorga di un inganno, poiché sono gli altri che pronunciano (collocatori di discariche e inceneritori, tav, spianatori di collettività – i Rom –, licenziatori) [...] Se si esce dal circolo chiuso della comunicazione mediatico-politica [...] e si scala d’un piano, le pieghe della quotidianità vissuta [...] ci si accorgerà con orrore, per quanto mi riguarda, ma con altrettanta evidenza – che essa è diventata un termine quasi impronunciabile. Comunque, sempre meno pronunciato...»[1].
Impressionante, non è vero?
EM Soprattutto realistico, concreto, basato sui fatti. Dobbiamo però tener sempre presente che la maggioranza ha il diritto di imporre le sue decisioni: un diritto che è anche un dovere, perché chi ha scelto con il voto una parte politica e un programma si attende legittimamente che quella parte, vincendo, attui quel programma su cui si è raccolto il consenso. La democrazia deve produrre effetti; per non essere un vuoto sistema di credenze, deve avere una sua concretezza, un’effettualità, anche perché non è semplice cornice né galateo istituzionale. D’altra parte questo diritto-dovere di decidere governando è – se ci pensi – l’esercizio della responsabilità, una parola fortemente presente nello spirito pubblico americano, e non a caso al centro del discorso d’investitura del presidente Obama. Direi che responsabilità è il dovere di far fronte ai propri compiti nel rispetto del limite e nella coscienza del rendiconto. Anche quest’ultimo concetto è parte ordinaria della cultura democratica anglosassone; molto meno della nostra: eppure è ciò che lega il «noi» dei cittadini al «voi» dei dirigenti eletti nelle cariche pubbliche e fa della rappresentanza un circuito attivo perché continuo, trasmettendo l’idea concreta del mandato e persino l’immagine dei vecchi partiti come animali politici vivi e vitali, orizzonte obbligatorio di riferimento anche per leader carismatici e decisionisti. Direi qualcosa di più. Il rendiconto è la base morale di qualsiasi posizione di potere, grande o piccola, privata e soprattutto pubblica; è in questo senso un fondamento della negoziazione democratica occidentale. Proprio per non aver fatto un rendiconto pubblico del comunismo prima della caduta del Muro, la sinistra italiana che viene da quel mondo sta ancora ripulendosi la giacca dai calcinacci di quel crollo che l’ha investita, sia pure nella sua diversità. Eppure tutti avevano letto le pagine finali del Maestro e Margherita di Bulgakov, quando Woland sta per lasciare Mosca e si ferma sui Monti dei Passeri per un ultimo sguardo alla città. «Ebbene – dice in quel momento supremo al Maestro dall’alto del suo cavallo – tutti i conti sono stati pagati? L’addio si è compiuto?». Poi c’è il volo nel buio. Ma solo dopo il rendiconto.
GZ Anche questa – il diritto di decidere per tutti e i suoi limiti – è una questione che dovremo necessariamente riprendere. Lasciami però prima arrivare alla seconda osservazione sulla democrazia. Per secoli, anzi millenni, la democrazia è stata considerata la forma di governo che più di tutte doveva essere evitata perché dava alla feccia della società, al gregge, al bruto numero, l’occasione di assumere funzioni pubbliche. La psicologia della massa che diventa governo e scalza la razionalità delle élites. La democrazia come «governo dei peggiori», e i peggiori si identificavano con le classi povere, incolte, passionali, irresponsabili. Erano gli «ottimati», cioè i ricchi, che si consideravano migliori della massa del popolo minuto. Una critica alla democrazia che si trasforma in una forma esplicita di classismo: ricchi contro poveri, plutocrazia («governo dei ricchi») contro democrazia (governo del popolo minuto). Lo esprime benissimo l’inizio lapidario dell’Anonimo cui si attribuisce la Costituzione degli Ateniesi (IV secolo a.C.), che contiene una requisitoria contro la democrazia di Atene, per avere aperto la strada al malgoverno della città e alla sopraffazione della gente per bene da parte dei farabutti. «A me non piace che gli Ateniesi abbiano scelto una costituzione che permette alla canaglia di star meglio della gente per bene». E più avanti: «Dovunque sulla faccia della terra i migliori sono nemici della democrazia; giacché nei migliori c’è il minimo di sfrenatezza e ingiustizia, e il massimo dell’inclinazione al bene. [...] Il popolo non vuol essere schiavo in una città retta dal buongoverno, ma essere l...

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  1. Prologo
  2. 1. Il tempo della democrazia
  3. 2. Democrazia della vita quotidiana
  4. 3. La politica e la democrazia
  5. 4. E poi?
  6. Epilogo
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APA 6 Citation

Zagrebelsky, G., & Mauro, E. (2012). La felicità della democrazia ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3459769/la-felicit-della-democrazia-un-dialogo-pdf (Original work published 2012)

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Zagrebelsky, Gustavo, and Ezio Mauro. (2012) 2012. La Felicità Della Democrazia. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3459769/la-felicit-della-democrazia-un-dialogo-pdf.

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Zagrebelsky, G. and Mauro, E. (2012) La felicità della democrazia. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3459769/la-felicit-della-democrazia-un-dialogo-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Zagrebelsky, Gustavo, and Ezio Mauro. La Felicità Della Democrazia. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2012. Web. 15 Oct. 2022.