Storia delle relazioni internazionali
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Storia delle relazioni internazionali

III. Dalla fine della guerra fredda a oggi

Ennio Di Nolfo

  1. 344 pages
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Storia delle relazioni internazionali

III. Dalla fine della guerra fredda a oggi

Ennio Di Nolfo

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Dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti sono apparsi come la sola potenza in grado di condizionare il sistema internazionale. Questa ipotesi è stata contraddetta dall'emergere di nuovi soggetti capaci di delimitarne la supremazia: la Cina, l'India e la Russia. In altre parti del mondo hanno avuto luogo mutamenti sostanziali. L'America Latina tende a sottrarsi al controllo statunitense, l'Africa e l'Asia si affacciano a una difficile modernizzazione; nel Medio Oriente le rivoluzioni del 2011 e il consolidarsi del fondamentalismo islamico fanno sorgere nuovi problemi. Uno strumento per comprendere le tappe fondamentali di una fase di transizione, iniziata con il 1989 e non ancora conclusa.

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Parte quinta.
L’emergere di nuovi soggetti internazionali

5.1. L’America Latina, da «cortile di casa» a «partner»

Per quasi due secoli, l’America Latina venne ironicamente definita «il cortile di casa» degli Stati Uniti, quasi fosse un’area nella quale gli Stati Uniti, specialmente dopo l’enunciazione della dottrina Monroe del 1823, potevano esercitare una dominazione incontrastata. L’invecchiamento di questa definizione (che già in passato aveva mostrato i segni dell’usura, senza mettere in discussione l’assunto predominante) affiorò verso la metà del XX secolo, con momenti di crisi come quelli vissuti nel 1946 con l’Argentina di Perón; nel 1954 con il Guatemala di Jacobo Arbenz Guzmán; nel 1959-1962 con Fidel Castro a Cuba; nel 1973 con Salvador Allende in Cile. Da parte statunitense, sin dagli anni di Eisenhower il rapporto con l’America Latina era stato considerato sempre più importante e tale da richiedere un fermo controllo, ma anche misure adatte a controllare l’emergere di forme di violenta ostilità. L’Alleanza per il progresso, voluta da Kennedy negli anni della sua breve presidenza, fu l’espressione della volontà di scegliere una via che conciliasse l’evoluzione del subcontinente americano con l’egemonia degli Stati Uniti.
Il vero e profondo distacco ebbe tuttavia inizio con gli anni Novanta del XX secolo, nel corso dei quali gli Stati Uniti si mossero in modo da alimentare ipotesi contraddittorie. In termini generali, ma anche generici, l’amministrazione di George Bush sr. e quella di Bill Clinton continuarono ad appoggiare l’evoluzione dei paesi latino-americani verso l’abbandono di regimi militari e a favore dell’adozione di forme di democrazia pluralistica. È sufficiente pensare in proposito al caso del Paraguay, dove nel 1954 era stato eletto presidente il generale Alfredo Stroessner, poi rieletto più volte e spodestato manu militari solo nel 1989. Del resto, fatta eccezione per il caso di Cuba, tutte le minacce di guerriglia d’ispirazione comunista vennero progressivamente estinte, salvo la sollevazione dell’esercito zapatista di liberazione nazionale (ispirato alla tradizione libertaria di Emiliano Zapata), iniziata nel gennaio 1994 nella regione messicana del Chiapas sotto la guida del «subcomandante» Marcos (il nome vero è Rafael Sebastián Guillén Vicente e lo pseudonimo sarebbe solo un acronimo) e ancora strisciante, ma con sempre minor seguito, nel 2015, nella regione e fuori di essa, come simbolo di sollevazione popolare. Le elezioni presidenziali e parlamentari, convocate anche da regimi militari al potere (Guatemala, Honduras, El Salvador) o da regimi di estrema sinistra (Nicaragua), riportarono questi paesi nell’ambito dell’esercizio della democrazia formale.
Tutti erano fortemente attratti dal promettente esordio del Nafta (North American Free Trade Association, costituito da Canada, Messico e Stati Uniti ed entrato in vigore il 1° gennaio 1994), che appariva allora come un poderoso punto di riferimento per la collaborazione economica fra i paesi dell’area e per il loro sviluppo. L’influenza degli Stati Uniti rimase in quel modo ancora per qualche tempo ineludibile, specialmente per i progetti di unione doganale (come l’accordo Mercosur, stipulato fra Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay nel 1991 e nel 2012 ampliato al Venezuela, mentre il Paraguay veniva sospeso dalla partecipazione), al punto che, dopo l’entrata in vigore del Nafta, si incominciò a discutere della creazione di un’«Area di libero commercio delle Americhe» (Alca). Essa avrebbe potuto ripetere il modello europeo per quanto riguardava la coerenza con le forme di governo democratico e per l’adozione di una politica economica tale da rendere compatibile la situazione dei singoli Stati, eventualmente in crisi, con l’intervento del Fondo monetario internazionale. Il progetto venne attuato ma rimase privo di efficacia. Nella prima metà degli anni Novanta del XX secolo i paesi del subcontinente americano apparivano così avviati verso un’integrazione più completa nel mercato internazionale, benché a ritmi meno celeri che in altre parti del mondo. Ma rispetto a questa situazione stavano rapidamente maturando le ragioni di una crisi e di una svolta radicale. La diminuzione degli investimenti esteri e degli aiuti internazionali a causa della crisi di credibilità che la situazione fiscale di quasi tutti i paesi interessati provocava, costrinse infatti i governi, come scrive Valerio Castronovo, «non solo a tagliare le spese correnti e quelle sociali, ma a ridurre all’osso anche quelle per le infrastrutture, al fine di riequilibrare i bilanci».
L’America Latina si trovò trascinata in un alternarsi di politiche produttivistiche e improvvise crisi che, verso la metà degli anni Novanta, misero in evidenza i problemi strutturali che assillavano queste economie, riducendo il tasso di crescita a circa l’uno per cento annuo e confermando la fragilità dei sistemi finanziari locali. «L’iperinflazione divenne il portato di entrambe queste anomalie» e in un tale clima i mali antichi dell’America Latina si intrecciarono in una spirale perversa che provocò profondi mutamenti nella vita interna di tutti i paesi del subcontinente e dell’America centrale, aprendo la via alla ricerca delle responsabilità della crisi, così da renderle fatalmente convergenti rispetto agli effetti dell’egemonia degli Stati Uniti. Populismo ed egemonia delle forze armate divennero gli elementi trainanti del cambiamento.
Nel 1993 il tenente colonnello dei paracadutisti venezuelani, Hugo Chávez, era stato solo uno dei protagonisti di un tentato colpo di Stato. Incarcerato per questa sua iniziativa, venne liberato nel marzo 1994, e fondò un partito che si proponeva di scacciare la vecchia classe dirigente, mobilitando le masse contro gli «oligarchi» e contro «l’imperialismo yankee». In una situazione sociale sempre più desolante, nel dicembre 1998 Chávez venne eletto presidente del Venezuela, con l’impegno di attuare un «socialismo patriottico e democratico». Dopo una modifica costituzionale, nel luglio 2000, venne rieletto per sei anni alla presidenza e ancora rieletto nel 2006. Dal momento del suo consolidamento al potere, e nonostante i tentativi per rovesciarlo con un colpo di Stato nel 2002, Chávez riuscì a prendere, nell’immaginario collettivo, il posto dell’anziano Fidel Castro, malato e prossimo alla rinuncia al potere. Passava così a Chávez la bandiera della lotta contro gli «yankee». Le promesse di riforme che egli enunciò, facendo leva sulle risorse petrolifere e minerarie del Venezuela, lo portarono a diventare il simbolo, molto imitato, del cambiamento e della ribellione alla superpotenza americana, ancorché i suoi programmi rimanessero nebulosi, eccezion fatta per il progetto di nazionalizzare le compagnie petrolifere e poi anche quelle elettriche e di telecomunicazioni. Del resto la crescita economica, costruita sulla premessa della creazione di una moneta nazionale, il bolívar, a cambio fisso con il dollaro, e la crescita del prezzo del petrolio sul mercato internazionale resero possibile un incremento annuo medio del Pil fra il 13 e il 17 per cento e fornirono al presidente venezuelano la carica necessaria per imporsi come quasi-dittatore nel proprio paese e dominatore del riscatto latino-americano.
In effetti, fino alla morte, avvenuta nel marzo 2013, egli apparve, se guardato dal punto di vista della democrazia occidentale, un populista eloquente e velleitario, nel suo tentativo di esportare il modello venezuelano; ma guardato dal punto di vista dei diseredati di tutta l’America Latina egli divenne un simbolo di speranza. Un simbolo appannato dai limiti del suo successore, Nicolás Maduro Moros, eletto di stretta misura nell’aprile 2013, privo del carisma di Chávez ma soprattutto condizionato dal brusco decremento dei prezzi del petrolio sul mercato internazionale e dalle accuse di malgoverno, che nell’insieme affievolirono il prestigio del Venezuela come modello per tutta l’America Latina. Del resto le basi del potere di Chávez (e di Maduro) erano troppo circoscritte e, in definitiva, fragili, essendo costituite in primo luogo dall’appoggio delle forze armate, perché il regime venezuelano, ancorché duraturo, potesse davvero diventare il paradigma del cambiamento. Se Chávez era stato in vita un vessillo dell’opposizone agli Stati Uniti, con Maduro questo vessillo smise rapidamente di sventolare.
Ben più grande il Brasile, e ben più efficace il modo adottato dal suo presidente per affrontare i problemi dell’economia. Fernando Henrique Cardoso, eletto alla presidenza nel 1995, dopo un faticoso lavoro per evitare che il Brasile fosse tagliato fuori dalle risorse del Fondo monetario internazionale, e dopo che ebbe superato anche lo scoglio della rielezione, nel 1998, per l’appunto grazie a un prestito di 41,5 miliardi di dollari ottenuto dal Fmi nello stesso anno, pose le basi perché l’inflazione, che condizionava le possibilità di crescita del gigante sudamericano, fosse superata. La sua azione di politica economica mirava a far uscire il Brasile dal declino pauperistico superando problemi come quello fondamentale della diffusa povertà (almeno un terzo della sua popolazione, cioè oltre 50 milioni di persone, viveva sotto la soglia della povertà). Il rigore di Cardoso favorì il buon esito dell’opera del suo successore. Nel 2002 le elezioni presidenziali diedero la vittoria a Luiz Inácio Lula da Silva, un uomo politico apparentemente simile a Chávez ma rivelatosi poi ben più abile e ben più attento a evitare che il Brasile, auto-escludendosi dall’integrazione nel mercato internazionale, finisse nel gorgo di una ingovernabilità inaffidabile.
Mentre gran parte della pubblica opinione si attendeva un’azione politica non dissimile da quella del presidente venezuelano, Lula, all’indomani del suo insediamento, nella chiara percezione del fatto «che il suo paese aveva ancora bisogno della fiducia dei mercati per poter accedere al credito internazionale» (il debito estero brasiliano ammontava allora a 230 miliardi di dollari), adottò un insieme di misure che se da un lato addolcivano le situazioni di maggiore povertà, dall’altro erano tali da rendere il Brasile ancora credibile sul piano della compatibilità finanziaria e, anzi, da proiettarlo verso un futuro di egemonia in tutto il subcontinente. Lula incrementò del 15 per cento i salari minimi, limitò le spese per i programmi sociali secondo parametri accettati dal Fmi e, in pari tempo, tagliò del 45 per cento tutti gli altri capitoli della spesa pubblica, compreso quello delle forze armate. Non, dunque, un populismo «massimalista e rumoroso», ma una «rivoluzione silenziosa» ispirata al concetto che «tutti dovessero diventare ricchi» più che alle tesi della lotta di classe. Una politica economica molto meditata e distribuita con accortezza impostò lo sforzo teso a far convergere la larga disponibilità di forza lavoro (remunerata in modo adeguato) con la scarsità dei capitali.
Rieletto alla presidenza nel dicembre 2006, Lula fu in pratica l’antagonista ideologico e politico di Chávez in tutto il continente. Anche per questo, il pur delicato rapporto con gli Stati Uniti restò solido, specialmente in vista della promessa, formulata da George Bush jr. nel 2007, di abolire i dazi sui prodotti agricoli dell’America meridionale. Nel 2009 l’economia brasiliana crebbe al punto che il paese diventò l’ottava economia mondiale. Le risorse naturali e quelle minerarie rendevano fruttuosa l’adozione di un sistema economico misto, nel quale il privato e il pubblico riuscivano a convergere verso obiettivi comuni. Nonostante le difficoltà cicliche, nel 2005 il governo brasiliano era in grado di restituire l’ultima rata (15,5 miliardi di dollari) del prestito del Fondo monetario internazionale e nel 2006 annunciava di aver raggiunto l’autosufficienza per quanto riguardava le forniture petrolifere. Così, alla fine del secondo e nell’ultimo mandato della sua presidenza, Lula lasciava un paese proiettato a collocarsi tra le maggiori economie mondiali. Nel 2010 la disoccupazione era scesa al 6,7 per cento (mentre negli Stati Uniti era ancora al 9 per cento). L’inflazione era bloccata al 4,9 per cento e il Brasile aveva così superato, per prodotto interno lordo, l’Italia, il Canada e la Russia.
Nelle elezioni del 2011 (così come in quelle dell’ottobre 2014) le forze politiche delle quali Lula era stato l’ispiratore candidavano alla presidenza una donna, Dilma Rousseff, affidandole il compito di continuare lungo la scia del suo predecessore. La Rousseff orientò la sua politica commerciale in modo da favorire la collaborazione con la Cina, più ancora di quella con gli Stati Uniti. Tuttavia la sua opera diede risultati meno consistenti, poiché il riaffacciarsi della disoccupazione e dell’inflazione, nel momento della crisi economica globale, resuscitavano l’opposizione e costringevano la Rousseff a subire un serrato ballottaggio per essere eletta la seconda volta come presidente. I clamori suscitati dal fatto che nell’estate del 2014 i Mondiali di calcio si svolsero in Brasile furono in parte offuscati dallo sbilancio tra le spese e i profitti ottenuti con una manifestazione che avrebbe dovuto lanciare il paese nel firmamento delle maggiori potenze economiche. La classe media brasiliana era stata soddisfatta dalle riforme di Lula e dall’azione della Rousseff, ma restava l’enorme problema dei ceti più poveri, che premevano per un miglioramento delle loro condizioni di vita. Alla fine del 2014 il faticoso successo elettorale della Rousseff gettava qualche consistente ombra sul futuro del paese e sulla sua capacità di diventare il modello di sviluppo e di influenza per tutta l’America Latina.
Chávez e Lula furono la fonte di ispirazione per la trasformazione della vita sudamericana nei paesi andini, come la Bolivia, che nel dicembre 2005 elesse alla presidenza Evo Morales, un politico di umile famiglia, di origine india, che rapidamente si accostò all’esempio del vicino venezuelano; e come il Perù (dopo la parentesi di Alberto Kenya Fujimori, 1990-2000), con l’elezione nel 2006 di Alan García, esponente del partito «Apra», dalle opinioni vicine a quelle di Chávez ma non disposto a seguirlo nella dichiarata ostilità verso l’azione di Lula, con il quale ebbe invece stretti rapporti di collaborazione, e nemmeno nello scontro con gli Stati Uniti, ai quali rimase legato. Del resto il successore di García, Ollanta Humala, eletto nel giugno 2011, non poteva dissociarsi molto da una linea che gli assicurava un appoggio contro la guerriglia sollevata nel paese dal gruppo castrista Sendero Luminoso e che gli consentiva di promuovere l’economia e soprattutto il turismo in un paese il cui peso nella politica andina era condizionato dalle controversie di confine con il Cile.
La Bolivia è priva di sbocco verso il mare ed è caratterizzata da una configurazione orografica che la vede divisa in due parti: un altipiano che supera talora i 4000 metri di altezza e occupa circa metà del territorio, e una pianura amazzonica – la parte orientale del paese – dal clima tropicale che favorisce la produzione agricola. Fino al 2002 la Bolivia fu dominata da governi militari, legati a doppio filo ad alcune multinazionali statunitensi, proprietarie delle ricchissime miniere di stagno. Solo dopo quella data ebbe inizio l’epoca delle elezioni presidenziali pluralistiche, vinte la prima volta da Gonzalo Sánchez de Lozada, uomo della grande proprietà, che sconfisse di misura l’emergente sinistra populista di Evo Morales. Il margine ridotto della vittoria di Sánchez non favorì la sua attività di governo; quasi subito dopo le elezioni si verificò un’ondata di agitazioni e di repressioni che nell’ottobre 2003 costrinse Sánchez alle dimissioni. Il vicepresidente Carlos Mesa cercò per quasi due anni di governare, finché fu costretto a indire nuove elezioni, nel dicembre 2005, nelle quali Morales conquistò la vittoria, agitando slogan vaghi e contraddittori in nome di un «socialismo del XXI secolo». In pratica ciò si tradusse in una politica di espansione della spesa pubblica, di incremento dei salari, di confisca e redistribuzione della proprietà agraria, accompagnata dalla confisca di gran parte dei beni appartenenti a compagnie straniere. Morales, con questa azione, urtava contro i progetti di investimenti in Bolivia, previsti dal Brasile, dall’Argentina e dalla Spagna, e ciò lo spingeva di conseguenza verso un’intesa sempre più stretta con Chávez e Fidel Castro, che egli seguì non solo sul piano del populismo ma anche su quello della restrizione delle libertà civili, secondo un metodo che non esitava nemmeno dinanzi all’uso della forza contro gli oppositori. Era un modo di fare politica che lo portava verso l’aperta rottura con gli Stati Uniti, divenuta clamorosa con l’invito a visitare la Bolivia rivolto al presidente iraniano Ahmadinejad, allora uno dei più noti e polemici avversari degli Stati Uniti, fino a giungere al progetto di mettere sotto accusa l’amministrazione Obama dinanzi alle Nazioni Unite, nel settembre 2013, con l’accusa di «crimini contro l’umanità».
In tal modo Morales si poneva alla sinistra di Chávez. Un uso così spregiudicato della propria popolarità politica favorì l’azione svolta per il superamento delle difficoltà socio-politiche interne e degli effetti della caduta dei proventi del gas, del quale la Bolivia è il secondo produttore latino-americano. Fu però la scoperta delle riserve di litio, nella più grande distesa di sale esistente al mondo, a Uyuni, che diede a Morales nuova forza interna e internazionale. La scoperta trasformava la Bolivia in una specie di Arabia Saudita del litio, un minerale necessario per la costruzione di batterie elettriche o ibride per automobili. Nasceva una sorta di quasi monopolio che consolidava tutti gli aspetti della politica boliviana e recuperava buona parte del credito finanziario (non di quello politico) perduto negli anni precedenti. Alle elezioni del 12 ottobre 2014 Morales venne rieletto per un terzo mandato. Visto il declino del Venezuela e la transizione in atto a Cuba, egli diventava il campione dell’anticolonialismo sudamericano e della trasformazione di un piccolo paese, già di fatto considerato una colonia, nel solo coerente avversario dell’influenza statunitense nel sud.
Fra l’esperienza venezuelana-boliviana e quella brasiliana si collocano quelle dell’Argentina e del Cile. Quando il peronista Néstor Kirchner, nel maggio 2003, si insediò alla Casa Rosada, sede della presidenza argentina, non poteva trovare una situazione più disastrosa di quella che i suoi predecessori (Menem e Duhalde) gli avevano lasciato. Il Pil era sceso del 14 per cento, la disoccupazione si avvicinava al 21 per cento, il tasso di inflazione al 40 per cento e il debito estero a 137 miliardi di dollari. Kirchner, che non aveva particolari esperienze in campo economico, intendeva seguire un programma analogo a quello di Lula. Più di Lula, egli fu condizionato sia dai potentati politici interni sia dalle obiettive difficoltà della situazione argentina, sulla quale gravava, proprio in quel periodo, la crisi provocata dall’impossibilità di rimborsare titoli di credito per un totale di 14 miliardi di dollari a coloro che li avevano acquistati dal governo di Buenos Aires (i bond argentini). Tuttavia Kirchner, nonostante le forti resistenze di parte dell’opinione pubblica, si allineò su posizioni di compromesso e cercò un accordo con gli Stati Uniti e con i paesi occidentali, «ben sapendo se non altro che in un mondo globalizzato nessun paese poteva agire da solo e tanto meno in rotta di collisione con quelli più avanzati». Tra le sue prime decisioni vi fu l’estromissione dal governo di un numero consistente di militari di alto grado. Il suo programma ottenne buoni risultati, con un risanamento che riportava il Pil a una crescita annuale del 9,2 per cento nel 2006 e riequilibrava gli altri conti, anche in virtù di un compromesso con il Fondo monetario internazionale per il ripianamento del debito argentino in tre anni, e con una politica estera che, nonostante le concessioni di facciata all’estremismo antiamericano, restava solidamente legata agli Stati Uniti, che scorgevano nella combinazione fra Argentina e Brasile una «terza via» rispetto a quella di Chávez.
Nell’ottobre 2007 il presidente argentino elaborò un progetto di continuità al potere di ispirazione mac...

Table des matières

  1. Introduzione
  2. Parte prima. Nuovi temi e nuovi soggetti delle relazioni internazionali
  3. Parte seconda. Dopo il bipolarismo, che cosa?
  4. Parte terza. Il mutamento geopolitico del sistema internazionale
  5. Parte quarta. L’Unione Europea e le intersezioni atlantiche
  6. Parte quinta. L’emergere di nuovi soggetti internazionali
  7. Parte sesta. Il disordine mediorientale
  8. Parte settima. Verso il policentrismo?
  9. Parte ottava. I limiti dello sviluppo
  10. Suggerimenti bibliografici
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Nolfo, Ennio di. (2016) 2016. Storia Delle Relazioni Internazionali. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3460123/storia-delle-relazioni-internazionali-iii-dalla-fine-della-guerra-fredda-a-oggi-pdf.

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di Nolfo, E. (2016) Storia delle relazioni internazionali. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3460123/storia-delle-relazioni-internazionali-iii-dalla-fine-della-guerra-fredda-a-oggi-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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di Nolfo, Ennio. Storia Delle Relazioni Internazionali. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2016. Web. 15 Oct. 2022.