Pragmatica del linguaggio
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Pragmatica del linguaggio

Claudia Bianchi

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Pragmatica del linguaggio

Claudia Bianchi

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Comprendere i meccanismi della comunicazione e indagare il fitto intreccio di rapporti tra parole e parlanti. Uno studio che investe linguistica e logica, diritto e psicologia, sociologia e antropologia.

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Informations

Éditeur
Editori Laterza
Année
2011
ISBN
9788858101414

Fare cose con le parole

Chose Ă©trange que ces mots “deux ou trois fois”, rien que des mots, des mots prononcĂ©s dans l’air, Ă  distance, puissent ainsi dĂ©chirer le coeur comme s’ils le touchaient vĂ©ritablement, puissent rendre malade, comme un poison qu’on absorberait. (Marcel Proust)

1. Parole come atti: la dimensione sociale del linguaggio

Nel primo capitolo abbiamo distinto due dimensioni di pragmatica, corrispondenti alle due direzioni che assume la relazione fra linguaggio e mondo. Da un lato, in pragmatica ci si occupa dell’influenza che il mondo (o il contesto) esercita sul linguaggio, e si mira a determinare il contenuto proposizionale delle frasi in quanto utilizzate in contesto. D’altro lato, una volta determinato il contenuto proposizionale di un enunciato, ci si interessa dell’influenza che questo puĂČ esercitare sul mondo (sul contesto), della sua capacitĂ  di modificare stati di cose, ma anche l’ambiente cognitivo degli interlocutori, di cambiare, rafforzare, o eliminare certe credenze, desideri, conoscenze. È della pragmatica in questo secondo senso che tratta questo capitolo.
Ad essere sottolineata Ăš ora la dimensione sociale del linguaggio, e in particolare la varietĂ  degli usi discorsivi delle frasi del linguaggio naturale: affermazioni, ordini, domande, minacce ecc. In questa prospettiva parlare significa agire: ogni enunciato serve a compiere un atto, regolato da norme, convenzioni o consuetudini; il linguaggio come tale viene concepito al pari di un’istituzione sociale. La stessa frase – meglio, lo stesso contenuto proposizionale – puĂČ avere interpretazioni sorprendentemente differenti a seconda delle intenzioni con cui viene usata, e delle circostanze in cui viene proferita. Per fare un esempio, la frase
(1) Esci da questa stanza!
puĂČ essere usata come ordine o come supplica, come sfida, come consiglio o come invito, a seconda di chi proferisce (1), rivolto a chi, con che tono, in che circostanze, con quali pensieri, scopi e intenzioni. Allo stesso modo una frase apparentemente descrittiva come
(2) Sono cintura nera di karatĂš
suona come una minaccia se siete un potenziale aggressore di chi la proferisce, ma come una rassicurazione se chi la proferisce vi sta accompagnando in un quartiere malfamato. E ancora la frase
(3) Bea Ăš una vera amica
verrĂ  interpretata letteralmente se Bea vi ha appena aiutato in un momento difficile; un’interpretazione ironica sarĂ  piĂč appropriata se l’avete appena scoperta nelle braccia della vostra dolce metĂ . Ancora una volta la semplice interpretazione semantica, da sola, non permette di determinare che tipo di atto Ăš stato compiuto proferendo (1), (2) o (3): in quel che segue vedremo che solo se si tiene conto delle regole che i parlanti seguono nelle loro interazioni verbali, assieme alla conoscenza del contesto in cui gli enunciati sono stati proferiti, Ăš possibile dare di questi ultimi un’interpretazione completa.

2. Atti linguistici

La prima tragedia della vita sono le azioni, la seconda le parole. E forse le parole sono peggio. Le parole sono spietate. (Oscar Wilde)

2.1. Enunciati constativi ed enunciati performativi

Abbiamo giĂ  avuto modo di sottolineare come la riflessione filosofica contemporanea sul linguaggio sia nata con lo scopo di costruire uno strumento affidabile di comunicazione scientifica. Ne Ăš scaturita, come inevitabile conseguenza, l’idea che la funzione principale del linguaggio sia quella di descrivere la realtĂ , di rappresentare stati di cose, idea legata alla tesi che il significato di una frase sia dato dalle sue condizioni di veritĂ , dalle condizioni che il mondo deve soddisfare perchĂ© la frase ne costituisca una descrizione appropriata, e perchĂ© sia vera. Eppure Ăš evidente che non tutte le frasi che proferiamo sono usate per fare asserzioni sulla realtĂ , per descrivere stati del mondo. Si pensi a
(4) SĂŹ, lo voglio
proferita dagli sposi durante la celebrazione di un matrimonio; o ancora a
(5) Battezzo questa nave “Queen Elisabeth”
proferita al momento di varare una nave; oppure a
(6) Mi scuso
detto quando urtiamo inavvertitamente qualcuno; o infine a
(7) Scommetto 500 euro che domani pioverĂ .
Quando usiamo gli enunciati (4) e (5) non stiamo descrivendo, rispettivamente, la cerimonia di un matrimonio o il varo di una nave, non stiamo informando qualcuno di un fatto, ma lo stiamo compiendo. In altri termini, pronunciando certi enunciati creiamo fatti nuovi, modifichiamo la realtà, contraiamo impegni che possono avere un certo peso: con (5) diamo un nome a una nave e con (4) ci leghiamo per la vita a un’altra persona. In modo analogo, con (6) o (7) non descriviamo l’atto di scusarci o di scommettere, ma compiamo l’atto di scusarci o di scommettere: usando (6) abbiamo porto le nostre scuse (e null’altro ci ù richiesto, se la colpa era lieve), e proferendo (7) ci siamo impegnati a pagare 500 euro se l’indomani non piove (e a nulla varrebbe protestare “Oh, ma facevo così per dire”).
Sembra allora possibile tracciare una distinzione fra la classe di enunciati il cui scopo ù descrivere stati del mondo – gli enunciati constativi come
(8) Il gatto ù sul letto –
e la classe di enunciati che servono a fare cose, a compiere atti regolati da norme e istituzioni (come sposarsi e battezzare) o da semplici consuetudini sociali (come scusarsi o scommettere) – gli enunciati performativi (Austin 1962b). A differenza di (8), i performativi non caratterizzano stati di cose, non hanno contenuto informativo, non dicono nulla sul mondo e non hanno dunque condizioni di verità: mentre (8) ù vero se il gatto ù effettivamente sul letto, e falso altrimenti, rispetto a un enunciato performativo come (6) non ha senso chiedersi se esso sia vero o falso.
Se osserviamo gli enunciati (4)-(7), sembra che la classe dei performativi possa venir isolata seguendo criteri grammaticali e lessicali: negli enunciati considerati compaiono verbi particolari (come “scusarsi”, “promettere”, “ordinare”, “scommettere”, “complimentarsi”, e così via), alla prima persona dell’indicativo presente. (6), infatti, cessa di essere un enunciato performativo se il verbo “scusarsi” compare al tempo passato o futuro, o al presente, ma non alla prima persona, come negli enunciati
(9) Mi sono scusato
(10) Mi scuserĂČ
(11) Bea si scusa.
(9)-(11), infatti, sono descrizioni di stati di cose, in particolare descrizioni di atti (e, piĂč in particolare ancora, di atti di scusarsi) che sono stati compiuti o verranno compiuti tramite (6): non ci si scusa annunciando che ci si scuserĂ , o che ci si Ăš scusati. Naturalmente non tutti gli enunciati alla prima persona dell’indicativo presente sono dei performativi; ad esempio
(12) Lavo i piatti
malauguratamente non compie l’atto di lavare i piatti, ma lo descrive. E si noti che mentre non ha senso ribattere “No, non ù vero”...

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