La spirale del sottosviluppo
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La spirale del sottosviluppo

Perché (così) l'Italia non ha futuro

Stefano Allievi

  1. 224 pages
  2. Italian
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La spirale del sottosviluppo

Perché (così) l'Italia non ha futuro

Stefano Allievi

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L'epidemia di Covid-19 ha assestato un altro duro colpo al nostro paese. Bisogna affrontare con coraggio i problemi strutturali che affliggono l'Italia.

L'epidemia di Covid-19 ha assestato un altro duro colpo al nostro paese. Bisogna affrontare con coraggio i problemi strutturali che affliggono l'Italia. Un pamphlet che mette in evidenza l'inadeguatezza del nostro mercato del lavoro, i ritardi del sistema formativo, il paradosso di un paese che ignora le decine di migliaia di ragazzi costretti a emigrare ogni anno e continua a non gestire (e forse a non comprendere) l'immigrazione.

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Informations

Année
2020
ISBN
9788858142264

1.
Demografia.
Sempre di meno, sempre più vecchi:
l’inverno demografico italiano

1. Declinare senza consapevolezza

Siamo un paese che muore, ma lentamente, invecchiando, assopendosi, spegnendosi, consumandosi goccia a goccia come una candela. E che, in questo processo, perde progressivamente di energia, di vitalità. Quel che è peggio – come spesso accade ai vecchi – senza nemmeno accorgersene, senza consapevolezza di quel che sta accadendo al proprio corpo e al proprio spirito (perché, sì, le due cose sono collegate, ci piaccia o meno: anche quando parliamo di demografia).
I dati demografici, che vedremo tra poco (nati, morti, saldo naturale – tendenze e proiezioni), sono impietosi. Lo sono ancora di più i confronti internazionali, con gli altri paesi nostri simili, nostri partner e nostri concorrenti. È brutto guardarsi intorno e scoprire che stiamo invecchiando molto più di quelli che ci stanno accanto, che riescono a mantenersi più giovani di noi. Anche di coloro che credevamo avessero la nostra stessa età. Come la Germania, per esempio: fino a poco tempo fa – nel vicino 2015 – il paese più vecchio d’Europa insieme all’Italia, e da qualche tempo, a seguito di un’iniezione abbastanza brutale, rapida e massiccia di immigrati, in situazione notevolmente diversa e con prospettive divergenti. Ma vediamo, intanto, come siamo messi noi.
La relazione illustrata dall’attuale presidente dell’ISTAT, Gian Carlo Blangiardo, in occasione della presentazione del Rapporto annuale 2019, ci fornisce da sola sufficiente (e inquietante) materia di riflessione (ISTAT 2019a). L’Istituto nazionale di statistica, lo ricordiamo, è un’istituzione super partes, che ha il compito di “dare i numeri” su cui la politica deve poi confrontarsi e lavorare. In un paese normale non ci sarebbe bisogno di sottolinearlo; trattandosi del nostro, è utile accennare al fatto che il suo presidente – un serio demografo, che conosco sul campo da decenni: si occupava di migrazioni già da fine anni Ottanta – è stato nominato dal primo governo Conte, su indicazione della Lega. È, quindi, al di sopra di ogni sospetto di indulgenza “buonista” o a maggior ragione “immigrazionista”, anche per alcune sue prese di posizione passate: è, appunto, un tecnico. Vediamo che cosa dice.
La popolazione italiana è in calo, e continuerà a calare: se fino al 2030 il calo sarà modesto (da 60,4 a 60,3 milioni di abitanti), al 2050 il calo sarà di 2,2 milioni di abitanti, portando la popolazione a 58,2 milioni. Può sembrare poca cosa, e anzi una buona notizia: staremo più larghi. Ma il problema è – soprattutto – quello che accadrà all’interno di questa popolazione. In particolare: saremo consistentemente più vecchi. La popolazione complessiva, infatti, cala poco, perché si vive di più e si muore quindi più tardi; ma se guardiamo solo alle nascite, il calo è stato impressionante.
I baby boomers degli anni Sessanta sono infatti ormai usciti dall’età riproduttiva (convenzionalmente fissata, per le donne, tra i 15 e i 49 anni) e stanno entrando nella terza età. Nel 2017 le donne in questa classe di età sono calate di 900 mila unità rispetto a un decennio prima, nel 2008: un dato che, da solo, spiega i tre quarti del calo delle nascite nel decennio, e avrà effetti a cascata; il quarto restante è dovuto all’ulteriore calo di fecondità, sceso a 1,32 figli per donna, mentre era di 1,45 figli nel 2008 (ma è una tendenza ormai di lungo periodo: nel 1995 aveva raggiunto addirittura la soglia minima di 1,19 figli per donna, un contrappasso radicale rispetto al precedente baby
boom
, per poi stabilizzarsi a un tasso lievemente più alto ma, come visto, in calo tendenziale). E non solo diminuisce il numero di donne in età riproduttiva: il 45% di quelle tra 18 e 49 anni non ha ancora figli (anche se, tra di loro, solo meno del 5% dichiara di non includere la genitorialità nel proprio progetto di vita: e in questo scarto si misura la differenza tra desideri e realtà, l’italica drammatica sottovalutazione della questione femminile e familiare, del resto intrecciate).
Giusto per aggiungere qualche informazione: ci si sposa sempre meno e sempre più tardi, si alza l’età alla nascita del primo figlio (l’età media al parto sfiora i 32 anni) e diminuisce quindi il numero dei figli. Anzi, per essere precisi, quasi il 50% dei nati sono primi (e resteranno unici) figli: il che significa, a voler ragionare in prospettiva, che per la metà dei nati italiani la parola fratellanza, o fraternità (e sorellanza, o sororità), e il concetto che essa rappresenta saranno semplicemente incomprensibili, un’esperienza mai fatta. Effetto di queste dinamiche è l’aumento del numero di famiglie (contiamo tra queste, anche se al buon senso appare un non senso, anche quelle che l’ISTAT chiama “unipersonali”: un terzo esatto del totale – erano un quinto, il 21,5%, vent’anni fa), che diventano 25 milioni, e la contrazione delle loro dimensioni: il numero medio di componenti è sceso a 2,3 nel biennio 2017-2018.
Il tutto in un contesto di significativo invecchiamento della popolazione. Che di per sé, naturalmente, è una buona notizia: vuol dire che si vive più a lungo. Siamo infatti tra le popolazioni più longeve del mondo, non solo d’Europa: la speranza di vita è aumentata nel periodo 1974-2005 di 8,2 anni, quasi 3 anni guadagnati ogni 10, ma l’accelerazione sembra continuare (Società italiana di statistica 2007). Solo che, come nota il BES 2019 (ISTAT 2019b), a fronte dell’aumento della speranza di vita, gli anni in buona salute restano stabili.

2. Altro che “largo ai giovani”

I giovani tra i 20 e i 34 anni sono 9 milioni e 630 mila al 1° gennaio 2018: oggi rappresentano solo il 16% della popolazione – in un decennio sono calati di 1 milione e 230 mila unità e di tre punti percentuali. In totale gli under 35 sono il 33,8% della popolazione, mentre erano oltre la metà della popolazione nel periodo del miracolo economico, di cui il loro stesso numero è stato una precondizione (CENSIS 2019).
L’anomalia italiana della posticipazione dei tempi di uscita dalla famiglia d’origine si aggrava sempre più: l’età mediana di uscita era di circa 25 anni per i nati nel secondo dopoguerra, ed era salita a circa 28 anni per la generazione degli anni Settanta. Oggi il 56,7% dei giovani fra 20 e 34 anni (5,5 milioni) è tuttora celibe o nubile e vive con almeno un genitore. Ne possiamo immaginare facilmente le ragioni: inoccupazione o sotto-occupazione, che non consentono percorsi di autonomia economica (secondo le statistiche Eurostat, l’Italia ha la più alta percentuale europea di NEET, giovani Not in employment, education and training, come vedremo nei capitoli su istruzione e lavoro), oltre alla ritardata vocazione a farsi una propria famiglia (che ha motivazioni economiche, ma probabilmente anche ragioni culturali, familistiche, tipiche del nostro paese, che, dai due lati, tendono a ritardare il distacco). “Troppo pochi bambini, troppa famiglia”, è stato sintetizzato (Livi Bacci 2001; Castiglioni e Dalla Zuanna 2017).
La comparazione con i nostri partner europei, offertaci dai dati Eurostat (facilmente reperibili online e “costruibili” secondo le proprie esigenze: in questo testo ne faremo ampio uso), risulta agghiacciante: al 2017, nella fascia 18-34 anni, vive con la propria famiglia il 66,4% degli italiani, contro una media europea del 48,1% – solo la Grecia fa peggio di noi; in compenso è il 40,8% in Germania, il 36,5% in Francia e nel Regno Unito, il 35% in Olanda, e addirittura, nei paesi nordici, si scende al 25,5% della Svezia, al 20,8% della Norvegia, al 19,2% della Danimarca e al 18,7% della Finlandia. Naturalmente, in molti di questi paesi, i giovani ricevono un contributo statale che aiuta l’uscita da casa, e talvolta è vincolato ad essa, e le università sono spesso gratuite o quasi. Il calcolo non banale che c’è dietro è che i giovani contribuiscono da subito alla ricchezza nazionale oltre che alla propria, lavorando, pagando quindi tasse e contributi e/o acquisendo livelli di istruzione più alti, che a loro volta hanno una ricaduta positiva sul PIL oltre che sulle carriere individuali, e, a occhio, aumentano il loro livello di autostima e di soddisfazione.
Tra l’altro, la ritardata uscita dall’alveo familiare, dovuta a (e accompagnata da) una pletora di lavori precari, part-time, stage, tirocini e lavori atipici, in cui facciamo vegetare le giovani generazioni, ha effetti devastanti anche sull’evoluzione della carriera successiva: il raggiungimento di livelli salariali adeguati, il livello dei contributi versati, e quindi una sufficiente copertura previdenziale, per non parlare del livello di felicità e gratificazione, dell’autostima o della propensione a partire per un altro paese. In pratica, i giovani che entrano nel mercato del lavoro in questo modo, appoggiandosi sul sostegno familiare (che si rivela, a questo punto, un abbraccio mortale), finiscono per avere carriere meno interessanti e con meno possibilità di scavalcare più livelli (tanto più in un paese dal leggendario immobilismo, con un ascensore sociale molto stretto – in cui c’è posto per pochi – e molto lento, come il nostro), salari meno adeguati e pensioni del tutto insufficienti, oltre ad avere difficoltà a “mettere su” famiglia e a mettere al mondo una qualche prole, avviluppando il paese in un circolo vizioso dal quale non si vede via d’uscita.
Certo, senza il sostegno del welfare familiare, la loro situazione sarebbe ancora peggiore. Ma forse li aiuterebbe ad accorgersi della fregatura che gli è stata rifilata. E, magari, a elaborare strategie anche politiche di uscita da questa situazione: a ribellarsi, in definitiva. Se contano sulla forza del numero, come abbiamo visto, i giovani sono finiti: gli anziani sono molti di più.
Pensare che, in teoria, il mondo sarebbe dei giovani. Al World Economic Forum – un posto dove, piaccia o meno, si pensa seriamente il futuro del mondo, perché c’è chi ha interesse a farlo e ne ha i mezzi – si sono inventati una Global Shapers Annual Survey, che nel 2017 si premurava di ricordarci che il 50% della popolazione mondiale ha meno di 30 anni: la più larga fetta di giovani che abbia mai abitato il nostro pianeta. Non sorprende che, indagandone le opinioni a varie latitudini – pur con tutti i dubbi metodologici su questo tipo di rilevazioni –, si scopra uno sguardo diverso, se si vuole più ottimistico, meno impaurito: il 78,6% dei giovani pensa che l’effetto di tecnologia e innovazione (in mezzo alla quale vivono, assai più delle generazioni precedenti) sarà quello di creare lavoro, e non di distruggerlo, come teme solo il 21,4% degli intervistati. Incidentalmente, la maggior parte dei millennials (55,4%) è convinta che i paesi riceventi dovrebbero (e potrebbero) includere i rifugiati nella forza lavoro nazionale: il 72,6% pensa che siano benvenuti nel proprio paese, il 51,3% nelle loro città, il 49,6% nel loro quartiere, e il 27,3% persino nel proprio stabile, a casa propria. Si possono avere tutti i sospetti possibili su questi ambienti e questi sondaggi. Ma non stupisce per nulla che una generazione mai così mobile abbia opinioni diverse da quelle delle generazioni più stanziali anche sulla mobilità altrui. Abituati a vivere in contesti, anche educativi e lavorativi, più aperti, ne conoscono per esperienza (e non per opinione) vantaggi e svantaggi. Per inciso: le ricerche fatte sugli “expat” italiani ci dicono esattamente le stesse cose.

3. Anziani, più o meno autosufficienti

Quanto agli anziani, nel 2050 gli ultrassessantacinquenni potrebbero passare dall’attuale 23% al 32% o addirittura al 37% della popolazione, a seconda degli scenari. È interessante notare, tuttavia, che già oggi gli italiani credono che la situazione sia di gran lunga peggiore, e che gli over 65 siano il 48%, praticamente uno su due (Pagnoncelli 2019): quasi come se si fosse interiorizzata una sensazione di inevitabile tramonto, “di crisi generazionale e produttiva”, di punto di non ritorno.
L’Italia è stata il primo paese “al mondo a registrare il sorpasso degli over 65 sugli under 15” (Golini e Lo Prete 2019): l’indice di vecchiaia (misurato dal numero di over 65 in proporzione a quello di under 15) era del 16% nel 1871, del 62% nel 1981, per arrivare al 132% nel 2001 e al 150% nel 2011, ma ha raggiunto il 168,7% al 1° gennaio 2018, con una proiezione al 2038 che ci porterebbe al 265% (ISTAT 2018b). Già oggi l’età media ha raggiunto gli 80,8 anni per gli uomini, e gli 85,2 per le donne (il che spiega, ma non giustifica, l’approvazione di leggi che favoriscono gli anziani e i quasi tali: i giovani sono meno, e oltretutto votano percentualmente meno, quindi sono meno interessanti per i partiti e i sindacati, che, a loro volta, vedono tra i pensionati oltre la metà della loro rappresentanza – mentre le famiglie un sindacato non ce l’hanno, i giovani nemmeno, e uno sciopero da loro organizzato o a loro favore non avverrà forse mai). Tuttavia, ne vivono in buona salute meno di 60, di anni, il che spiega il progressivo indirizzarsi della spesa sanitaria verso gli anziani, anticipando proiezioni inquietanti, come quella del Rapporto Osservasalute dell’Università Cattolica (cit. in Golini e Lo Prete 2019) che stima in 6,3 milioni – oltre un residente su dieci – il numero di anziani non autosufficienti tra soli 10 anni (e possiamo immaginarne i bisogni, anche solo in termini di strutture, di posti letto, di badanti, ecc.). E spiega l’appesantirsi della spesa previdenziale come di quella sanitaria: già oggi i cosiddetti “grandi anziani” (con più di 85 anni) sono 2,2 milioni, pari al 3,6% della popolazione residente, e al 15,6% della popolazione sopra i 65 anni.
Inoltre, al 2050 la popolazione di età tra 0 e 14 anni potrebbe scendere dall’attuale 13,5% al 10,2%; mentre la popolazione in età produttiva (15-64 anni) – e, almeno in parte, riproduttiva – rischia di ridursi al 54,2% del totale: 10 punti percentuali e 6 milioni di persone in meno rispetto ad oggi. In generale: ci saranno meno produttori (popolazione attiva) e meno consumatori, con conseguenze immaginabili (ma tuttora inimmaginate) non solo sulla struttura del capitale umano, ma sul sistema economico, fiscale (le entrate dello Stato) e previdenziale (una parte significativa delle sue uscite). Il problema non è solo italiano: l’ultimo rapporto dell’ONU intitolato World Population Prospects (United Nations 2019) ricordava che 27 paesi hanno una popolazione inferiore a quella del 2010, e saranno 55 nel 2050, Cina inclusa. Solo che noi ci arriviamo prima e meno preparati di altri.
Secondo i dati Eurostat, la popolazione in età 15-64 anni scenderà mediamente tra le 100 e le 200 mila unità ogni anno già nel prossimo futuro, da qui al 2025. Data nella quale l’età mediana dell’Italia, oggi di 45 anni, sarà di 52,2 anni, la più alta d’Europa.

4. Recessione demografica: recessione economica?

L’inverno demografico, come ci si sta abituando a chiamarlo, potrebbe avere un impatto devastante: anzitutto sul costo (il peso) delle pensioni e sulla spesa sanitaria, come noto concentrata negli ultimi anni di vita delle persone, e più alta comunque per le persone anziane. Se già oggi è difficile offrire un’assistenza dignitosa a 14 milioni di over 65, la domanda diventa non solo come, ma se riusciremo a farlo tra soli venti anni, quando saranno diventati oltre un terzo in più: 19 milioni, con 1,3 milioni di ultranovantenni (contro gli 800 mila attuali), e addirittura il triplicarsi degli ultracentenari, che dagli attuali 14 mila diventeranno oltre 50 mila. L’invecchiamento della popolazione è tale, e così rapido, che i geriatri ultimamente hanno inventato una nuova categoria, i “tardo-adulti”, che comprende la fascia di popolazione tra i 65 e i 74 anni. Peggio di noi, a livello mondiale, sta solo il Giappone: in Italia, al 1° gennaio 2017, c’erano 165 persone over 65 ogni 100 giovani con meno di 15 anni, mentre in Giappone sono addirittura 210.
Siamo ufficialmente, da anni ormai, in recessione demografica; anche calcolando gli stranieri! Se non ci fossero stati gli immigrati, infatti, le cose sarebbero andate ancora peggio. Non solo la popolazione invecchia, ma diminuisce a ritmi tali che l’unico precedente calo così ampio risale al biennio 1917-1918, in piena prima guerra mondiale, e sotto gli effetti dell’epidemia di febbre spagnola. Il saldo naturale negativo (differenza tra nati e morti) cresce a ritmi sempre più rapidi: −25 mila nel 2010, −79 mila nel 2012, −96 mila nel 2014, −14...

Table des matières

  1. Premessa. L’Italia al tempo del coronavirus: l’urgenza delle scelte
  2. Introduzione. Tutto si tiene. E tutto si paga. La spirale del sottosviluppo
  3. Nota dell’Autore
  4. 1. Demografia. Sempre di meno, sempre più vecchi: l’inverno demografico italiano
  5. 2. Immigrazione. Chi, quanti, come, verso dove: l’impatto controverso dell’integrazione
  6. 3. Emigrazione. Perché continuiamo a partire. E perché continueremo a farlo
  7. 4. Istruzione.Il fattore “C”. E perché spiega più di quel che crediamo
  8. 5. Lavoro. Quello che c’è, quello che manca (e il suo rapporto con le migrazioni)
  9. Conclusioni. Perché una politica che non parla di queste cose ci porta dritti verso il baratro. E come provare a evitarlo
  10. Postfazione. Quello che ci ha insegnato Covid-19. Qualcosa di buono dalla pandemia
  11. Bibliografia
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Allievi, Stefano. (2020) 2020. La Spirale Del Sottosviluppo. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3460442/la-spirale-del-sottosviluppo-perch-cos-litalia-non-ha-futuro-pdf.

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Allievi, S. (2020) La spirale del sottosviluppo. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3460442/la-spirale-del-sottosviluppo-perch-cos-litalia-non-ha-futuro-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Allievi, Stefano. La Spirale Del Sottosviluppo. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2020. Web. 15 Oct. 2022.