Onorate Società
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Onorate Società

L'ascesa della mafia, della camorra e della 'ndrangheta

John Dickie, Fabio Galimberti

  1. 464 pages
  2. Italian
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Onorate Società

L'ascesa della mafia, della camorra e della 'ndrangheta

John Dickie, Fabio Galimberti

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Una storia sinottica di mafia, camorra e 'ndrangheta dall'Unità alla metà del Novecento. Le origini, le fasi di crisi e di ripresa, gli intrecci tra malavita e vita istituzionale raccontati e documentati con dovizia di particolari. Una controstoria d'Italia, basata sulla presenza di una macroscopica malavita organizzata come elemento caratterizzante nella storia del Paese. Il risultato è notevole. Giuseppe Galasso, "Corriere della Sera"La storia delle mafie italiane è un giallo in cui bisogna cercare il colpevole, cercare chi sapeva e scoprire perché chi sapeva non fece nulla. "Sette - Corriere della Sera"I miti di fondazione, i primi delitti eccellenti, le guerre intestine, le inchieste giudiziarie e giornalistiche, i pentiti di più di cento anni fa e gli errori di sottovalutazione, le strategie di repressione sbagliate, le collusioni con la politica che fin dalle origini hanno permesso alle 'onorate società' di arricchirsi e prosperare. "National Geographic Italia"

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Informations

Année
2014
ISBN
9788858113950

1. Viva la patria! La camorra, 1851-1861

Cavare l’oro dai pidocchi

Sigismondo Castromediano, duca di Morciano, marchese di Cavallino, signore di sette baronati, era seduto per terra con il polpaccio destro poggiato su un’incudine. Slanciato e con gli occhi azzurri, sembrava appartenere a una razza completamente diversa da quella dei carcerieri napoletani in piedi di fronte a lui, sotto una tettoia, intenti ad armeggiare con i loro ferri. Accanto al duca era seduto, nella stessa, poco dignitosa posizione, un altro patriota, Nicola Schiavoni, con lo stesso sguardo terrorizzato sul volto.
Uno dei carcerieri afferrò il piede del duca e ci infilò sopra un gancio di metallo a forma di staffa, quindi imprigionò la caviglia facendo passare un rivetto attraverso i piccoli fori posti alle due estremità del gancio; in mezzo era agganciato l’ultimo anello di una pesante catena. Ridendo e cantando, il carceriere appiattì il rivetto con colpi talmente forti da rischiare di frantumare le ossa.
Il duca sussultò più volte e fu assalito dagli incitamenti canzonatori dei secondini: «Date e ridate, mastro Giorgio, a questi nemici del re, che intendevano impossessarsi delle nostre donne e delle nostre sostanze».
All’ordine di alzarsi in piedi, Castromediano e Schiavoni sollevarono per la prima volta i loro ferri: dieci chili circa di catene distribuiti su tre metri e mezzo di anelli oblunghi. Per i due uomini, quel momento segnò l’inizio di una condanna a trent’anni ai ferri per aver cospirato contro il Regno delle Due Sicilie, uno dei tanti Stati in cui era divisa la penisola italiana. I due prigionieri si abbracciarono, poi trovarono il coraggio di dare prova della loro fede incrollabile nella sacra causa dell’unità d’Italia: «Lo Schiavoni ed io potemmo sollevare le catene con le proprie mani e, confondendole in una, abbracciarci e baciarle quelle catene con tenerezza, quasi fossero le nostre spose».
Le guardie per un momento rimasero interdette, ma subito ripresero con il rituale che segnava l’ingresso al Castello del Carmine, uno dei carceri più duri del Regno delle Due Sicilie. Gli abiti civili furono sostituiti da divise composte di braghe marroni e una casacca rossa, tutte e due di lana ruvida. I capelli furono tagliati a zero con un rasoio a forma di falce, che lasciò parecchie ferite sulla pelle, poi gli fu consegnato un pagliericcio ripieno di stracci, una coperta di pelo d’asino e una ciotola.
Era il tramonto quando il duca e il suo compagno furono condotti attraverso il cortile della prigione e spinti dentro la loro cella.
Quello che videro all’interno, ricordava Castromediano, era uno «spettacolo da annientare l’anima più generosa, il cuore più saldo». Sembrava una cloaca: una stanza lunga con un soffitto basso e il pavimento disseminato di pietre appuntite; le poche finestrelle erano situate in alto e chiuse da pesanti sbarre, l’aria era viscida e nauseabonda. Un fetore di carne marcia emanava dalla sporcizia sparsa ovunque e dalle sagome sofferenti rintanate nella penombra.
Mentre i nuovi arrivati cercavano nervosamente un posto dove stendere i loro giacigli, altri due prigionieri legati per le caviglie si avvicinarono a loro. Uno era alto e di bell’aspetto, con un portamento sussiegoso. Indossava pantaloni neri di felpa, con bottoni cesellati sui fianchi, e una cintura dai colori sgargianti; sul panciotto nello stesso stile sfoggiava un orologio e una catenella. Si rivolse ai due patrioti con elaborata cortesia.
Ebbene, ebbene, o signori, la sorte vi è propizia. Quanti noi qui siamo, tutti v’aspettavamo a farvi onore. Viva la patria, viva la libertà! Noi, prendendo parte alla vostra triste ed onorata sorte, noi camorristi, vi esoneriamo da ogni obbligo di camorra. [...] Signori, sollevate pure l’animo vostro, poiché qui, giuraddio, nessuno vi toccherà un capello. Io sono qui il capo della camorra, quindi sono io solo che qui comando, e tutti, tutti dipendono dal mio cenno, fin lo stesso comandante e i suoi aguzzini, per tacere degli altri pezzi più grossi, al di là di queste pareti.
Nel giro di un paio d’ore, i nuovi prigionieri avevano imparato due amare lezioni: la prima era che le affermazioni del capo camorrista sul potere di cui disponeva all’interno del carcere non erano vanterie prive di fondamento e la seconda era che la sua promessa di esentarli da qualsiasi «obbligo di camorra» non aveva nessun valore. Il camorrista gli fece riavere le borse con i soldi, che erano state confiscate al momento dell’arrivo nel carcere; ma si trattava di una cortesia interessata, per indurre il frastornato duca a pagare somme esorbitanti in cambio di un cibo nauseabondo.
Quella prima estorsione fu scioccante. Castromediano vide il suo futuro come un’interminabile serie di angherie da parte dei membri di un’organizzazione criminale e prese in considerazione l’idea del suicidio.
Il duca Castromediano fu messo in catene il 4 giugno del 1851. La scena narrata è realmente accaduta, ma anche irresistibilmente metaforica, perché fu nelle carceri, a metà del XIX secolo, che l’Italia si trovò per la prima volta incatenata a quei malviventi che da allora ostacolano ogni suo progresso.
La camorra è nata in galera. Nel momento in cui il duca Castromediano entrò al Castello del Carmine, il predominio della criminalità organizzata dietro le sbarre delle prigioni era una realtà che nell’Italia meridionale andava avanti da secoli. Sotto l’ancien régime era più semplice ed economico delegare il controllo quotidiano delle carceri ai detenuti più spietati. Poi, all’inizio dell’Ottocento, gli estorsori delle prigioni si trasformarono in una società segreta, che attecchì anche nel mondo extracarcerario. La storia di come tutto questo avvenne è fitta di intrighi, ma la sua essenza è tutta nelle sfumature e nelle ironie del primo incontro tra il duca Castromediano e il camorrista. È una storia che può essere riassunta in un’unica parola: Italia.
Nel 1851, quella che oggi chiamiamo Italia era ancora soltanto un’«espressione geografica», non uno Stato: era divisa tra una potenza straniera (l’Austria), due ducati, un granducato, due regni e lo Stato Pontificio. Il più grande di questi territori era quello situato più a sud: il Regno delle Due Sicilie.
Da Napoli, la capitale del regno, un sovrano della dinastia dei Borboni regnava sulla parte meridionale della penisola italiana e sulla Sicilia. Come la maggior parte dei principi italiani, i Borboni di Napoli erano ossessionati dal ricordo di quello che gli era accaduto negli anni successivi alla Rivoluzione francese. Nel 1805 Napoleone aveva deposto i Borboni e messo sul trono uomini a lui fedeli. I francesi avevano introdotto una serie di innovazioni nel modo di governare il regno: il feudalesimo aveva ceduto il passo alla proprietà privata e il confuso assemblaggio di consuetudini locali, giurisdizioni baronali ed ecclesiastiche e ordinanze pubbliche era stato sostituito da un nuovo codice e dal primo embrione di una forza di polizia. Il Mezzogiorno d’Italia cominciava ad assomigliare a uno Stato moderno e centralizzato.
Nel 1815, Napoleone alla fine fu sconfitto. Quando tornarono al potere, i Borboni si accorsero che le riforme introdotte dai francesi potevano essere molto utili per rafforzare la loro autorità. Ma la teoria e la pratica della moderna amministrazione erano difficili da conciliare. Il trono del Regno delle Due Sicilie era ancora traballante e il nuovo sistema, più centralizzato, incontrava una diffusa opposizione. Inoltre, la Rivoluzione francese non si era limitata a introdurre nell’Europa continentale nuovi modi per amministrare lo Stato; aveva anche sparso in ogni direzione concetti incendiari come governo costituzionale, nazione e addirittura democrazia.
Il duca Castromediano faceva parte di quella generazione di giovani che avevano scelto di consacrare la propria vita alla costruzione di una patria italiana che incarnasse i valori di governo costituzionale, libertà e sovranità della legge. Dopo aver cercato senza profitto di trasformare questi valori in realtà politica durante le rivolte del 1848-1849, molti patrioti come Castromediano pagarono le loro convinzioni finendo nel reame della camorra carceraria.
Il trattamento riservato ai prigionieri politici, a prigionieri gentiluomini, non tardò a destare scandalo. Nel 1850 un sensibile parlamentare britannico, William Ewart Gladstone (lo stesso Gladstone che sarebbe diventato una delle figure di primo piano della politica britannica di fine Ottocento) cominciò un lungo soggiorno a Napoli per curare la figlia malata. Fu la sorte di uomini come Castromediano a spingere Gladstone a interessarsi alle problematiche locali. All’inizio del 1851 le autorità di Napoli, senza pensare alle conseguenze, autorizzarono il parlamentare inglese a visitare qualcuna delle carceri cittadine. Gladstone rimase inorridito dalla «lordura [...] bestiale» di cui fu testimone. Prigionieri politici e criminali comuni della peggior specie erano mescolati indiscriminatamente, e senza alcun genere di supervisione. Erano i detenuti stessi a dirigere la struttura.
Essi formavano una società autonoma, la principale autorità essendo quella dei gamorristi, uomini della massima celebrità fra loro per crimine audace.
L’insolita ortografia utilizzata da Gladstone non sminuisce la verità di quello che scriveva, né la forza politica della sua tesi: appena emerso dalle carceri napoletane diramò due lettere aperte in cui condannava il governo dei Borboni definendolo «la negazione di Dio eretta a sistema di governo». I camorristi erano diventati così un bastone diplomatico con cui colpire i Borboni. Un governo che subappaltava la gestione delle sue prigioni a criminali violenti, secondo Gladstone, non meritava di sopravvivere. Grazie all’uomo politico inglese, le bande criminali organizzate italiane diventarono quello che da allora non hanno mai smesso di essere: un detonatore di polemiche politiche.
La simpatia internazionale suscitata dai patrioti incarcerati giocò un ruolo importante nella sequenza di eventi quasi miracolosa che finì per trasformare l’Italia in una patria o qualcosa di simile. Nel 1858 il primo ministro del Regno di Sardegna strinse un patto segreto con la Francia per scacciare con la forza l’Austria dall’Italia settentrionale. L’anno seguente, dopo una terrificante carneficina nelle battaglie di Magenta e Solferino, il Piemonte assorbì il territorio austriaco della Lombardia. Il successo militare dei piemontesi scatenò insurrezioni più a sud, nei vari ducati dell’Italia centrale e in una parte del territorio dello Stato Pontificio. Gran parte del Nord della penisola era ormai diventato Italia. L’Europa tratteneva il fiato e aspettava la prossima mossa.
Poi, nel maggio del 1860, Giuseppe Garibaldi lanciò una delle più grandi imprese idealistiche della storia sbarcando a Marsala, sull’estrema riva occidentale della Sicilia, con poco più di mille volontari in camicia rossa. Già dopo le prime vittorie, la spedizione di Garibaldi cominciò ad assumere la forma di una rivoluzione. Il condottiero conquistò rapidamente Palermo e poi rivolse verso est la sua armata, sempre più nutrita, per invadere la parte continentale del Sud Italia. Ai primi di settembre entrava a Napoli: l’Italia, per la prima volta, era un unico paese.
Ora che l’Italia era unita, i patrioti incarcerati dai Borboni potevano convertire i loro lunghi patimenti in credibilità politica. Si trasferirono a Torino, nella capitale piemontese ai piedi delle Alpi, ed entrarono a far parte della prima élite nazionale del neonato Stato.
La storia del Risorgimento, dell’unificazione dell’Italia, è stata raccontata innumerevoli volte. Molto meno nota è la sua sinistra sottotrama: l’affioramento della camorra. La maggior parte dei tanti fili di questa trama secondaria nasce dalle segrete dove i patrioti entrarono in contatto con i camorristi. I patrioti incarcerati sono dunque i testimoni più importanti della prima fase della storia della camorra. E alcuni di loro non si limitarono ad assistervi, ma vi presero parte attivamente, sia nel ruolo degli eroi che in quello dei cattivi.
L’Italia unita era ancora un sogno vago quando il duca Sigismondo Castromediano fu messo in catene, nel 1851. Mano a mano che le sue prime, traumatiche ore trascorse in prigione diventavano giorni, mesi e anni, il duca, tuttavia, trovò altri motivi per resistere, oltre ai suoi sogni politici: i suoi compagni di sventura, ma anche la determinazione a comprendere il suo nemico. Per il duca Castromediano, dare un senso alla camorra era una questione di vita o di morte.
Le sue scoperte sono anche nostre, perché rimangono valide ancora oggi. In prigione, Castromediano ebbe modo di osservare, come uno scienziato che analizza un fenomeno in laboratorio, quella camorra ancora acerba intenta a perfezionare una metodologia criminale destinata a infiltrarsi, sovvertendola, in quella stessa nazione che il duca Castromediano desiderava crea­re a prezzo di tanti patimenti.
Castromediano cominciò il suo studio della camorra nel modo più concreto, partendo dai soldi. E la cosa che più lo colpì di quelle che chiamava le «tasse» della camorra era il fatto che venissero imposte anche sugli aspetti più infimi della vita dei detenuti, fino all’ultima briciola di pane e al più miserabile brandello d’abito.
In quasi tutte le galere del regno campeggiava, in fondo a un corridoio, un altarino consacrato alla Madonna. La prima tassa estorta a un nuovo arrivato spesso veniva presentata come un contributo per «l’olio per la lampada della Madonna» (una lampada che non era quasi mai, o mai, accesa). I detenuti dovevano addirittura pagare l’affitto per il pezzo di terra dove dormivano. Nel gergo carcerario, questo pezzo di terra era chiamato il «pizzo». Forse non è un caso se oggi la stessa parola è usata per indicare una tangente o la quota da versare al racket. Chiunque si rifiutasse di pagare il pizzo era soggetto a punizioni che andavano dagli insulti ai pestaggi e alle ferite inferte con il rasoio, fino all’omicidio.
Il duca Castromediano fu testimone di un episodio che dimostra come il sistema di finanziamento carcerario della camorra fosse qualcosa di molto più profondo di un grossolano ladrocinio, e qualcosa di molto più sinistro di una tassazione. Una volta un camorrista, che si era appena mangiato una «succosa minestra [e] un buon tocco d’arrosto», gettò una rapa sul viso di un uomo a cui aveva confiscato la magra razione di pane e brodo, accompagnandola con delle ingiurie.
To’ una rapa che basterà a reggerti in vita almeno per questo dì. Domani il Diavolo penserà per te.
Il cifrario della camorra. Sequestrata, a quanto riferito, a un detenuto camorrista che la teneva nascosta nell’ano, questa tavola segreta spiega i simboli usati dai camorristi nei messaggi trasmessi clandestinamente da e verso il carcere. Da uno studio ottocentesco sull’Onorata Società napoletana.
La camorra trasformava i bisogni e i diritti degli altri carcerati (come il pane o il pizzo) in favori. Favori per i quali bisognava pagare, in un modo o nell’altro. Il sistema camorrista era basato sul potere di concedere e revocare questi favori. O anche di sbatterli in faccia alla gente. La vera crudeltà dell’episodio della rapa è che il camorrista stava concedendo un favore che poteva revocare con altrettanta facilità.
Il duca Castromediano aveva la capacità di individuare quegli episodi capaci di esprimere in forma drammatica gli elementi di fondo del potere della camorra nelle prigioni. Una volta sentì due detenuti che litigavano per un debito. Era questione di pochi spiccioli, ma non passò molto prima che intervenisse un camorrista. «Con qual diritto contendete voi, senza che la camorra ve lo abbia concesso?». E detto questo confiscò le monete contese.
Qualunque detenuto che affermasse un proprio diritto fondamentale – come litigare o respirare – stava insultando l’autorità della camorra. E qualunque detenuto che si rivolgesse a un’autorità al di fuori della prigione per chiedere giustizia stava commettendo un tradimento. Il duca conobbe un uomo a cui avevano immerso le mani nell’acqua bollente perché aveva o...

Table des matières

  1. Prefazione
  2. Introduzione. Fratelli di sangue
  3. 1. Viva la patria! La camorra, 1851-1861
  4. Cavare l’oro dai pidocchi
  5. La cogestione della criminalità
  6. La redenzione della camorra
  7. La roba d’o si Peppe: la camorra va all’incasso
  8. Spagnolismo: la prima battaglia contro la camorra
  9. 2. La mafia comincia a farsi conoscere (1865-1877)
  10. Ribelli in velluto a coste
  11. La mafia benigna
  12. Una setta con una vita propria: la scoperta dei rituali della mafia
  13. Doppia vendetta
  14. 3. La nuova normalità criminale (1877-1900)
  15. Delinquenti nati: la scienza e la malavita
  16. Un pubblico di delinquenti
  17. La società sciolta
  18. 4. La ’ndrangheta affiora (1880-1902)
  19. La montagna aspra
  20. L’Albero della Scienza
  21. Africo nera
  22. Il Re dell’Aspromonte
  23. 5. I padrini in prima pagina (1899-1915)
  24. Banchieri e uomini d’onore
  25. Floriopoli
  26. Quattro processi e un funerale
  27. L’«alta» camorra
  28. La camorra in guanti gialli
  29. Atlantico criminale
  30. Gennaro Abbatemaggio: genialoide
  31. La strana morte dell’Onorata Società
  32. 6. Il bisturi di Mussolini (1922-1943)
  33. Sicilia: ai ferri corti con la mafia
  34. Campania: «Latrones»
  35. Calabria: il capo volante di Antonimina
  36. Calabria: ciò che non mi uccide, mi rende più forte
  37. Calabria: una donna scaltra, energica e avveduta
  38. Campania: il fascista Vito Genovese
  39. Sicilia: la viscida piovra
  40. Massaru Peppi balla una tarantella
  41. Liberazione
  42. 7. Mappe
  43. Ringraziamenti
  44. Referenze iconografiche
  45. Note sulle fonti
  46. Fonti consultate
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Dickie, J. (2014). Onorate Società ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3461020/onorate-societ-lascesa-della-mafia-della-camorra-e-della-ndrangheta-pdf (Original work published 2014)

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Dickie, John. (2014) 2014. Onorate Società. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3461020/onorate-societ-lascesa-della-mafia-della-camorra-e-della-ndrangheta-pdf.

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Dickie, J. (2014) Onorate Società. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3461020/onorate-societ-lascesa-della-mafia-della-camorra-e-della-ndrangheta-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Dickie, John. Onorate Società. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2014. Web. 15 Oct. 2022.