Hermes
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Hermes

Il dio dell'astuzia

Giuseppe Lozza, Luigi Marfé, AA.VV., Giuseppe Lozza, Giuseppe Lozza

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Il dio dell'astuzia

Giuseppe Lozza, Luigi Marfé, AA.VV., Giuseppe Lozza, Giuseppe Lozza

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Protettore dei viaggiatori, dei pastori e dei commercianti, ma anche dei ladri, non ignaro della divinazione, guida delle anime dei morti negli Inferi, Hermes è conosciuto come messaggero degli dèi presso gli uomini. I Greci gli attribuivano, oltre all'invenzione di strumenti musicali, l'ideazione di molte competizioni sportive e la pratica del pugilato. Nacque da Zeus e dalla ninfa Maia, una delle sette Pleiadi figlie di Atlante, in una grotta del monte Cillene, in Arcadia. Hermes è una divinità particolarmente vicina agli uomini, e non a caso è il dio della parola e della mediazione: a lui infatti si riconnette etimologicamente l'ermeneutica, ossia l'arte dell'interpretazione, che permette di comprendere parole, scritti, pensieri e mentalità di culture anche lontane fra loro nel tempo e nello spazio. Almeno a partire dal V secolo a.C. incontrò grande fortuna nel mondo romano, dove conservò parte delle sue caratteristiche originarie, sebbene parzialmente adattate al forte senso dello Stato che caratterizzò ben presto lo sviluppo di quello che sarebbe divenuto il più grande impero dell'antichità.

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Informations

Éditeur
Pelago
Année
2022
ISBN
9791255010296

Il racconto del mito

Acquistata da papa Paolo III per decorare una nicchia del Cortile del Belvedere oggi parte dei Musei Vaticani, l’opera, di età adrianea, era stata rinvenuta nel 1540 nei giardini intorno al Mausoleo di Adriano. Qui Hermes è raffigurato come psicopompo, una delle sue funzioni, ovvero quella di accompagnatore delle anime defunte verso l’Ade.
Acquistata da papa Paolo III per decorare una nicchia del Cortile del Belvedere oggi parte dei Musei Vaticani, l’opera, di età adrianea, era stata rinvenuta nel 1540 nei giardini intorno al Mausoleo di Adriano. Qui Hermes è raffigurato come psicopompo, una delle sue funzioni, ovvero quella di accompagnatore delle anime defunte verso l’Ade.

La nascita

Come molte altre divinità olimpiche, Hermes nacque da un’infedeltà coniugale di Zeus, il re degli dèi. In questo caso la fanciulla prescelta per soddisfare il suo amore fu Maia, una ninfa figlia del titano Atlante (colui che sulle possenti spalle reggeva il peso del cielo). Strano nome per una giovane attraente, dato che Maia è in greco una donna anziana, una levatrice o addirittura una “nonnina”, come epiteto affettuoso e familiare; così Ulisse chiama Euriclea nel canto XIX dell’Odissea, quando l’anziana nutrice lo lava e riconosce la sua identità dalla cicatrice di una ferita alla gamba che l’eroe aveva ricevuto da ragazzo durante una battuta di caccia; identità che per il momento era necessario tenere celata, in modo che egli fosse riconosciuto solo in un secondo tempo da Penelope e potesse compiere con maggiore sicurezza la sua vendetta. Nelle Fenicie di Euripide, l’ultimo grande poeta tragico greco, Zeus chiede un oracolo alla Notte chiamandola proprio «Maia». Nella mitologia greca è anche una delle sette Pleiadi, tutte figlie di Atlante, che reggeva la volta celeste, trasformate in colombe (peleiades) e poi in costellazione per sfuggire all’inseguimento del cacciatore Orione, che voleva possederle.
In realtà sembra quindi che Maia fosse in origine legata al cielo e all’oscurità. Infatti a lei Zeus si univa durante la notte in una grotta appartata del monte Cillene, in Arcadia, la regione forse più selvaggia e boscosa della Grecia ma anche quella più tipicamente pastorale non solo nella realtà storico-sociale (e da questo punto di vista il riferimento a Hermes è immediato), ma pure in una lunghissima tradizione letteraria destinata a giungere almeno fino all’Europa del Settecento. La speranza di Zeus era evidentemente che la gelosa consorte Hera di nulla si accorgesse. Non era del resto un fatto insolito: il sovrano e padre degli dèi amava unirsi spesso alle Ninfe figlie dei Titani, sicché la nascita di Hermes non ebbe nulla di eccezionale: anche altre due divinità maggiori quali Apollo e Artemide nacquero da un’altra ninfa, Letò, figlia del titano Ceo. Ma eccezionale fu il comportamento del neonato Hermes. Il poeta anonimo, autore di un lungo Inno a Hermes che gli antichi non esitarono ad attribuire a Omero stesso, mentre noi non sappiamo ascrivergli nessuna sicura paternità e siamo alquanto incerti sulla sua datazione, descrive la straordinaria precocità del divino infante, che si rivela immediatamente ingegnoso e astuto: «Nato all’aurora, a mezzogiorno suonava la lira, / e dopo il tramonto rubò le vacche di Apollo arciere / nel giorno in cui lo generò Maia veneranda, il quarto del mese».1 La madre Maia lo avvolse nelle fasce, come ogni altro bimbo; ma egli, a dispetto di ogni verosimiglianza (il mito non bada a simili minuzie, non è mai realistico e calato nel tempo degli esseri umani), si comporta già come se fosse cresciuto, e in un momento di distrazione della madre balza fuori dalla culla ed esce dalla grotta, protettiva certo ma anche castrante, per andare in cerca di avventure – e in questo il poeta si mostra profondamente psicologo; quale giovane vorrebbe rimanere sempre bambino alle dipendenze della propria madre? Del resto, a parte considerazioni psicoanalitiche forse un poco salottiere, il tema della precocità divina non è esclusivo di Hermes: basti ricordare l’impresa di Eracle, che in culla strozza i serpenti mandati da Hera a ucciderlo; o ad Atena, che balza fuori armata dalla fronte di Zeus; e gli esempi potrebbero essere anche altri. È un modo a cui il mito ricorre largamente per distinguere con chiarezza inequivocabile la natura divina da quella umana.
Il poeta anonimo, autore di un lungo Inno a Hermes che gli antichi non esitarono ad attribuire a Omero stesso, mentre noi non sappiamo ascrivergli nessuna sicura paternità e siamo alquanto incerti sulla sua datazione, descrive la straordinaria precocità del divino infante, che si rivela immediatamente ingegnoso e astuto: «Nato all’aurora, a mezzogiorno suonava la lira, / e dopo il tramonto rubò le vacche di Apollo arciere / nel giorno in cui lo generò Maia veneranda, il quarto del mese».

L’invenzione della lira e della siringa

Appena fuori dalla soglia della grotta, Hermes, intenzionato a rubare le vacche di Apollo perché affamato di carne (ma soprattutto, come verrà chiarito poco dopo, per fondare il rito sacrificale), s’imbatte in una tartaruga. È un autentico colpo di fortuna (e per i Greci la tartaruga era appunto considerata un portafortuna), che ben si addice alla sua natura di divinità imprevedibile: non a caso i Greci chiamavano hermaion appunto un’occasione fortunata che si presenta senza essere cercata. Ben lieto di un presagio che gli appare favorevole, ritorna nella grotta portando con sé l’animale e rapidamente lo squarta. Poi, nel guscio svuotato fissa due asticelle, a cui tende sette corde fatte di budello di pecora, creando quello strumento che i Greci stessi chiamavano lira, o cetra, uno strumento destinato a produrre meravigliose sonorità: «Ecco già un segno molto fausto per me: non lo dispregio. / Salve, amica della mensa, dall’amabile aspetto, che accompagni la danza; / tu appari benvenuta: donde vieni, o bel giocattolo? / Tu indossi un guscio variegato, tartaruga che vivi sui monti; / ebbene, io ti prenderò e ti porterò a casa; in qualche modo mi sarai utile, / e non ti trascurerò: anzi tu gioverai a me prima che a ogni altro. / È meglio stare in casa: c’è pericolo fuori. / Tu certo sarai per me una difesa contro il sortilegio funesto, / da viva; e se poi tu morissi, allora sapresti cantare a meraviglia». Infatti su quello strumento il giovanissimo Hermes, che evidentemente già conosceva, o forse aveva inventato, il plettro con cui pizzicare le corde (ma su questo l’Inno nulla dice), si mise a cantare gli amori di Zeus e della madre Maia, rendendosi in tal modo il primo cantore di se stesso; singolare performance, dato che egli canta solo per se stesso, non alla presenza di uno o più uditori. Ma una seconda, più consueta, seguirà, come vedremo. Veramente, gli antichi attribuivano l’invenzione della lira a sette corde al poeta e cantore Terpandro, vissuto nel VII secolo a.C. e attivo in ambiente spartano; ed è questo un elemento che permette di datare, come termine post quem la composizione dell’Inno. Secondo altri mitografi, tale strumento sarebbe stato inventato da cantori mitici, fra i quali il celeberrimo Orfeo. Ma il dio è nella mitologia inventore anche di uno strumento a fiato, la siringa (syrinx), ossia uno strumento a fiato composto di molte canne in numero dispari (fino a nove) di lunghezza diseguale, che diverrà lo strumento pastorale per eccellenza: Hermes lo regalerà al figlio Pan e diverrà dunque noto anche come “flauto di Pan”. In questo caso il poeta dell’Inno sembra compiacersi di mescolare elementi culturali diversi: sappiamo infatti che lo strumento a corda e lo strumento a fiato furono in qualche modo considerati rivali, o almeno alternativi, nell’estetica musicale dei Greci antichi; più nobile la lira, consacrata ad Apollo, molto meno la siringa e l’aulòs, comunemente chiamato flauto ma in realtà più simile alla meccanica e alla sonorità del moderno oboe. A tale proposito è significativo un esempio molto noto: Atena, la dea vergine uscita dal capo del padre Zeus, un giorno, mentre lo suonava, si specchiò in un corso d’acqua, ma, vedendo il suo volto deformato dal rigonfiamento delle guance, adirata lo gettò via e maledisse chi l’avesse suonato dopo di lei. Il flauto fu però raccolto dal sileno Marsia, che sfidò Apollo a una gara musicale. Facile indovinare l’esito: Apollo con la sua lira lo sconfisse e lo scorticò vivo… Strumenti diversi che si legarono anche a generi letterari diversi: la lira alla poesia epica e, appunto, lirica sia monodica che corale (pensiamo a poeti come Saffo, Alceo, Pindaro); l’aulòs soprattutto all’elegia e al giambo, illustrati da Archiloco, Mimnermo, Teognide e numerosi altri. Notissimo il passo del canto IX dell’Iliade, in cui Achille, seduto nella sua tenda, canta, accompagnandosi con la lira, «le gesta degli eroi». Non dobbiamo meravigliarci che il più valoroso di tutti gli eroi si dedicasse a tale attività, perché il professionismo virtuosistico in ambito musicale si affermò solo a partire dalla fine del V secolo, sebbene i poemi omerici stessi testimonino l’esistenza di veri e propri cantori di corte, quali, nell’Odissea (ma nessuno nell’Iliade) Femio e Demodoco. Di fatto, l’Inno attribuisce a Hermes, come si è detto, l’invenzione di entrambi gli strumenti, anche se poi nella mitologia greca protettore della musica è soprattutto Apollo, non a caso definito Musagete, ossia “guida delle Muse”. In ogni caso, sarà proprio con il suono della syrinx che Hermes riuscirà ad addormentare e a uccidere a colpi di pietra Argo, un mostro dai molti occhi, che sorvegliava Ino, amata da Zeus e trasformata in una bianca giovenca; impresa che farà guadagnare a Hermes uno dei suoi epiteti più costanti, Argheifonte, ossia appunto “uccisore di Argo”.
Gli antichi attribuivano l’invenzione della lira a sette corde al poeta e cantore Terpandro, vissuto nel VII secolo a.C. e attivo in ambiente spartano; ed è questo un elemento che permette di datare, come termine post quem la composizione dell’Inno. Secondo altri mitografi, tale strumento sarebbe stato inventato da cantori mitici, fra i quali il celeberrimo Orfeo.

Il furto delle vacche di Apollo

Ma Hermes, immediatamente dopo avere inventato la lira («E mentre cantava, già nella sua mente meditava altre imprese») mette subito in atto un secondo progetto: depone la lira nella culla, esce di nuovo dalla grotta – egli è un dio mobilissimo per eccellenza, e per questo raffigurato sempre, nelle rappresentazioni vascolari e scultoree, come un adolescente – e con un viaggio rapidissimo al calar del sole giunge in Pieria, nell’attuale Macedonia meridionale, decisamente lontana dall’Arcadia, la terra dove sul monte Elicona avevano sede le Muse. Non per caso proprio lì Apollo, che delle Muse era la guida, conservava le sue greggi, una splendida mandria di vacche: non dimentichiamoci che il mito riflette spesso una società molto arcaica, e quella greca fu del resto sempre in prevalenza agricolo-pastorale; dunque le greggi erano per gli dèi, come per i sovrani, un bene essenziale, una vera e propria fonte di ricchezza. Non è casuale nemmeno il fatto che Autolico, il nonno di Ulisse, l’eroe scaltrissimo per eccellenza, fosse figlio di Hermes e pure lui si dedicasse a varie forme di furto, fra le quali appunto l’abigeato, addirittura ai danni di Sisifo, così astuto a sua volta da tentare di ingannare la Morte. Hermes era ben deciso a rubarle, e così fece, fabbricando per se stesso sandali vegetali, fasciando gli zoccoli degli animali con arbusti che impedissero di lasciare tracce e facendoli procedere alla rovescia, mettendosi in coda anziché alla testa del gregge. Tutto ciò avviene di notte, perché Hermes, come Apollo osserverà, è «compagno della notte nera», propizia alle sue imprese di molto dubbia trasparenza. Ma dove le portò? Non alla sua grotta sul monte Cillene, come sarebbe stato logico, bensì piuttosto lontano, presso le rive del fiume Alfeo, che scorreva in prossimità di Pilo, nel Peloponneso nord-occidentale. Altra incongruenza, di cui l’autore dell’Inno non si cura: egli e il suo pubblico sapevano benissimo che quel territorio era particolarmente pianeggiante, fertile e propizio al pascolo. Non solo: esso era teatro di altre vicende analoghe di abigeato, e dunque il luogo più adatto a nascondere le vacche rubate ad Apollo.
Comunque all’alba, dopo il suo furto audace, Hermes è già di ritorno alla grotta che lo aveva visto nascere e si rimette nella culla, rannicchiandosi sotto le coperte nella speranza di essere passato inosservato. Ma la madre Maia lo rimprovera, proprio come una madre qualsiasi rimprovererebbe un figlio ragazzino tornato a casa troppo tardi la notte, ed è singolare e attraente nell’Inno pseudomerico tale mescolanza di incolmabile distanza mitica e di realistica quotidianità comica.
«Che fai, furbacchiotto? E da dove arrivi qua in piena notte, svergognato? Io sono proprio convinta, in verità, che ben presto, coi fianchi stretti in legami inestricabili, fra le mani del figlio di Latona ripasserai per quella porta, invece di briganteggiare senza freno, d’ora in poi, per le vallate. Torna là donde sei venuto! Grande tormento ti ha generato tuo padre per gli uomini mortali e per gli dèi immortali».
A lei Hermes rispondeva con amabili parole:
«Mamma, perché cerchi di spaventarmi, come se fossi un bambino ancora infante, che nel suo animo ha poca esperienza di mariolerie, timido, che teme i rabbuffi della madre? Io invece mi darò alla più lucrosa delle arti provvedendo a me e a te per sempre; né, soli fra gli dèi immortali, tollereremo di restare qui, come tu vorresti. È meglio vivere per sempre in compagnia degli immortali, ricco, prospero, e ben nutrito, che starsene a casa in questa spelonca fumosa; e, quanto al prestigio, io otterrò gli stessi diritti di cui gode Apollo. Se poi mio padre non me li darà, in verità io, per mio conto, mi adoprerò per diventare il re dei ladri: ne sono capace».
Anzi, egli si dichiara addirittura in grado di saccheggiare il santuario delfico, ricco di oggetti preziosi. In verità, queste parole sono importanti, perché esprimono una delle caratteristiche fondamentali della figura divina di Hermes: egli fu sempre, infatti, venerato come divinità protettrice dei ladri e, con facile quanto sarcastico passaggio, dei commercianti. Circolava la leggenda che egli avesse rubato perfino il tridente a Poseidone, a Efesto la tenaglia da fabbro, ad Apollo non solo le vacche ma anche l’arco, ad Achille il cadavere di Ettore, alla sua stessa madre i vestiti… Evidenti esagerazioni comiche di una fama che comunque a Hermes sempre rimase legata. Resta l’incongruenza logica del fatto che il dio, appena nato, disponesse di minugia per le corde della lira prima di avere rubato le vacche di Apollo; ma il poeta omerico non badava a simili considerazioni: saranno i mitografi posteriori, come lo Pseudo Apollodoro, ormai in età imperiale romana, a tentare di mettere le cose a posto rovesciando la sequenza dei due momenti.
Ma sua madre non fa cenno a un’altra impresa fondamentale di Hermes fanciullo: l’istituzione del sacrificio agli dèi dell’Olimpo. Non contento di essersi impadronito della mandria di Apollo, con una sorta di accendino vegetale, ossia sfregando l’un con l’altro due legnetti, fece sprigionare il fuoco, d...

Table des matières

  1. Frontespizio
  2. Copyright
  3. Indice
  4. Introduzione di Giulio Guidorizzi
  5. Il racconto del mito di Giuseppe Lozza
  6. Genealogia
  7. Variazioni sul mito di Luigi Marfé
  8. Antologia
  9. Per saperne di più
  10. Piano dell’opera
Normes de citation pour Hermes

APA 6 Citation

Lozza, G., & Marfé, L. (2022). Hermes ([edition unavailable]). Pelago. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3475940/hermes-il-dio-dellastuzia-pdf (Original work published 2022)

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Lozza, Giuseppe, and Luigi Marfé. (2022) 2022. Hermes. [Edition unavailable]. Pelago. https://www.perlego.com/book/3475940/hermes-il-dio-dellastuzia-pdf.

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Lozza, G. and Marfé, L. (2022) Hermes. [edition unavailable]. Pelago. Available at: https://www.perlego.com/book/3475940/hermes-il-dio-dellastuzia-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Lozza, Giuseppe, and Luigi Marfé. Hermes. [edition unavailable]. Pelago, 2022. Web. 15 Oct. 2022.