Non importa quante volte hai svoltato a quella curva, quante volte ti si Ăš spalancato davanti quel golfo dâargento e luce, quante volte sei stato investito dal baluginare delle onde che si infrangono in lontananza contro le lunghe scie di boe dellâallevamento di cozze.
Ogni volta Ăš un colpo al cuore.
Trieste Ăš una cittĂ di mare e roccia, di vento e ombre, una cittĂ che ti abbaglia come unâalgida regina di marmo per poi imprigionarti nella sua anima ferita. Una cittĂ di camminatori folli, di nuotatori intrepidi, di brusca scortesia e di eleganza atavica. Una cittĂ in continua lotta con sĂ© stessa, con le sue aristocratiche ambizioni e la sua fatale inerzia. Una cittĂ dove il tempo scorre in modo piĂč lento, dove lâaria tersa di certe mattine dâinverno ti dĂ lâillusione di vivere in unâaltra dimensione.
Questo pensava Elettra Morin, avvicinandosi al luogo che lâaveva accolta quindici anni prima, quando era appena diventata poliziotta, e che ora la vedeva tornare da commissario dopo quattro anni passati a guidare la Mobile di Monfalcone.
Quattro anni difficili, che avevano messo a dura prova il suo carattere e la sua volontĂ .
LâostilitĂ di certi colleghi, il paternalismo venato di diffidenza dei superiori, uniti a unâinnata sfiducia nei confronti del suo essere donna, giovane e tenace, erano riusciti a incrinare la corazza che si era costruita con tanto impegno.
Incrinare, ma non distruggere.
Quando era arrivata la notizia del suo improvviso trasferimento, lâaveva accolta con orgoglio e terrore. Orgoglio, perchĂ© tornava nel commissariato dove era cresciuta e si era fatta le ossa sotto il comando del burbero e problematico Ettore Benussi, e terrore, perchĂ© da allora il mondo era cambiato. In una manciata di mesi un minuscolo virus aveva scatenato una guerra subdola e inafferrabile allâintera umanitĂ , scalzandola dal suo piedestallo di onnipotenza tecnologica per ributtarla nella selva oscura delle specie in via dâestinzione.
Erano saltati i riferimenti, la fiducia nel futuro si era disintegrata, il tessuto economico era stato sconvolto, la speranza in tutte le sue forme minata in maniera irrimediabile.
La stessa Questura di Trieste era stata colpita in modo grave. Il commissario Renato Fonda, che aveva preso il posto di Benussi alla Mobile, purtroppo aveva contratto il virus e non ce lâaveva fatta.
E ora toccava a lei prendere il suo posto.
«Un falco!»
Il grido la fece sobbalzare. Si girĂČ verso il bambino. «Ti sei svegliato!»
«Guarda, câĂš un falco!» Il piccolo indicava un gabbiano con un dito.
«Ma no, quello Ú un gabbiano, non un falco!»
«Un gabbiano?»
«SÏ, proprio un gabbiano. Il falco Ú nero, questo Ú bianco, non vedi?»
«Ciao gabbiano!» gridĂČ.
«Siamo quasi arrivati. Hai fame?»
Il bambino scosse la testa, continuando a ciucciare. Elettra sorrise, sentendosi ancora una volta inondare dâamore per quello scricciolo di tre anni che le aveva sconvolto la vita, complicandogliela in modo assurdo.
Da quando aveva iniziato a parlare, Leo aveva dimostrato una vera passione per gli animali. Non solo cani e gatti, ma anche uccelli, lucertole, pesci, criceti, mosche, persino ragni: qualunque essere vivente per lui era fonte di meraviglia e di piccoli applausi radiosi. Le tornĂČ in mente comâera lei alla sua etĂ , chiusa in un mondo di silenzio e di diffidenza in quellâistituto tetro e freddo in cui era cresciuta.
SospirĂČ pensando alla temuta convivenza con sua madre, che si era offerta di venire ad aiutarla con il bambino. Offerta che non aveva potuto rifiutare, date le circostanze, ma che la riempiva di angoscia. Il carattere di Laura la esasperava, le sue insicurezze, le sue ansie avrebbero trasformato la loro vita in un continuo allarme, lo sapeva.
Ma non câerano vie dâuscita.
Elettra avrebbe preso servizio di lĂŹ a pochi giorni. Il tempo necessario per sistemare tutto, per risolvere il problema della caldaia che si era rotta e fare lâinserimento alla materna con Leo. Voleva esserci lei i primi giorni, anche se sapeva che non avrebbe fatto capricci. Dopo le prime normali ritrosie si sarebbe facilmente ambientato. Aveva un carattere curioso e aperto.
Come quello di suo padre.
A dare lâallarme era stato un pensionato che passeggiava con il cane. Avvicinandosi al muretto di contenimento della strada, lâanimale aveva dato uno strattone e lâaveva tirato con forza in quella direzione. Per rincorrerlo, lâuomo era inciampato su un mucchio di foglie che gli aveva fatto perdere lâequilibrio. Dapprima aveva pensato a un sasso nascosto tra gli arbusti ma poi, vedendo Rocky leccare forsennatamente qualcosa, era quasi svenuto.
Da sotto le foglie spuntava la mano di un uomo.
Era passata unâora dal ritrovamento. Unâalba livida stava restituendo lentamente i contorni dellâantico e suggestivo borgo di Contovello, arroccato su un costone dellâaltipiano carsico a picco sul mare. La bora che aveva infuriato per tre giorni si era infine placata, lasciando dietro di sĂ© il solito scompiglio di rami spezzati, motorini ribaltati e cassonetti della spazzatura scaraventati in mezzo alla strada.
Lâagente scelto Mirko Pitacco, arrivato per primo sul posto, si pentĂŹ di non aver preso il berretto di lana e i guanti. Il freddo che si insinuava nelle maniche troppo larghe del giaccone era insopportabile.
Lâambulanza era partita giĂ da mezzâora con il cadavere, senza aspettare lâarrivo dellâispettore Davolio che, in attesa dellâentrata in servizio del nuovo commissario, era stato provvisoriamente messo a capo della Mobile di Trieste, carica che in tutta evidenza prendeva sottogamba, dato che si era presentato sul posto con molto ritardo.
Appena Pitacco lo vide arrivare a bordo di una volante come sempre a sirene spiegate e fermarsi con gran stridore di freni a pochi metri da lui, trattenne a stento lâimpulso di aggredirlo. Era un suo sottoposto, purtroppo, e doveva abbozzare.
Sandro Davolio scese dallâauto avvolto da una nuvola di malumore. Da quando poi câera lâobbligo della mascherina â che portava comunque sempre e rigorosamente sotto il naso â, il suo carattere era diventato ancora piĂč abrasivo.
«DovâĂš?» bofonchiĂČ senza salutare.
«Lâhanno portato via poco fa» sibilĂČ Pitacco.
«E parla piĂč forte! Coâ âsto straccio davanti alla bocca nun se capisce gnente!»
«Ho detto che lâambulanza lâha portato via.»
«E che cazz⊠Senza aspettarmi?»
«à stato il medico legale a dare lâautorizzazione. Tu non arrivavi maiâŠÂ»
«Porca miseria, stai a sindacaâ i miei movimenti? Mi hai buttato giĂč dar letto allâalba, damme il tempo de vestimme e de prendeâ un cazzo di caffĂš al bar!»
Lâagente decise di non replicare, aprendo il suo taccuino e alzando la voce, per farsi sentire. «La vittima Ăš un uomo sui cinquantâanni. Ă stato trovato da un tizio che passeggiava con il cane stamattina alle sei e mezza, dietro quei cespugli.»
Davolio si guardĂČ intorno. Câerano delle villette sparse lungo la stretta via che si affacciava sui terrazzamenti digradanti di Contovello.
«Di telecamere neanche a parlarne, vero Pitocco?»
«E basta con questo Pitocco! Non sei spiritoso.»
Non era la prima volta che lo correggeva, ma quel giorno lâesasperazione era arrivata al colmo.
«Eh, quanto la fai lunga! Non si puĂČ neppure scherzare un poâ con voi crucchi!»
Il fatto di essere nato a Roma e di essere stato trasferito controvoglia in quella città di «morti viventi», come la definiva lui, sembrava dargli la licenza di dire tutto quello che gli passava per la mente.
«Comunque no. La morte risale con molta probabilità a ieri sera, tra le 21 e le 22, secondo il medico legale. Soffiava una forte bora, forse Ú per questo che nessuno ha sentito niente.»
Davolio si guardĂČ intorno. «Dove sta?»
«Chi?»
«Come chi? Il tizio che lâha trovato.»
«Stava gelando. Se ne Ú andato a casa.»
«A casa?!» gridĂČ Davolio gonfiando di indignazione la sua mascherina. «E che cazz! Ma che te dice il cervello? Dovevi trattenerlo!»
«Tranquillo, verrĂ comunque piĂč tardi in commissariato. Ho preso i suoi dati.»
«E se fossero falsi? Sveglia, Pitocco! Non lo sai che il colpevole torna sempre sul luogo del delitto?»
Lâagente Pitacco preferĂŹ cambiare argomento, chiudendo il taccuino. «Hai avvisato la pm?»
«Pensavo lâavessi fatto tu.»
«Non toccava a me.»
«Uh, quanto te piace faâ la faccia truce! Poi, coâ âsta cazzo di mascherina fai ancora piĂč paura⊠E vabbeâ, moâ la chiamo.»
«Torno alla Centrale⊠Non mi sento piĂč i piedi.»
«SĂŹ, vaâ, vaâ. Moâ arrivo.»