TERZA PARTE
QUALI STORIE PER LâANTROPOCENE?
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TERMOCENE. UNA STORIA POLITICA DELLâANIDRIDE CARBONICA
Tutti conoscono la curva simbolo dellâAntropocene, che mostra la crescita esponenziale delle emissioni di CO2 negli ultimi due secoli. Eppure, curiosamente, nessuno ne ha mai scritto una storia, quantomeno una storia sufficientemente dettagliata, che permetta di capire, per esempio, quanta parte di responsabilitĂ abbia avuto lâuna o lâaltra scelta tecnologica nella crisi climatica attuale: lâautomobile ha prodotto maggiori o minori quantitĂ di CO2 rispetto allâagricoltura industriale? E quanta ne ha prodotta il trasporto su strada rispetto al trasporto ferroviario e fluviale?
O ancora: quali sono le istituzioni che ci hanno portato sulla strada della catastrofe climatica? Quali grandi processi storici (imperialismo, guerra e preparativi della guerra, globalizzazione economica, fordismo, motorizzazione, periurbanizzazioneâŠ) bisogna mettere prioritariamente in relazione con quella curva? Sono tutte domande al momento senza risposta, che costituiscono lâoggetto di ciĂČ che proponiamo di chiamare âstoria del Termoceneâ.1
La riflessione politica e il dibattito pubblico risentono di questa carenza di prospettiva storica: in mancanza di conoscenze accurate, le narrazioni spontanee della crisi ambientale si perdono in critiche indistinte, che chiamano in causa il capitalismo in generale o, peggio ancora, la âmodernitĂ â. Quanto agli antropocenologi, abbiamo visto la loro tendenza a proporre narrazioni infrapolitiche, che pongono lâaccento sulla demografia o sulla crescita economica.
Una storia di addizioni
Qual Ăš la differenza tra la storia del Termocene da noi auspicata e la storia dellâenergia in voga oggigiorno?
Per effetto della crisi climatica, si assiste a un rinnovato interesse per la storia dellâenergia. Secondo alcuni studiosi, lâanalisi delle âtransizioni energeticheâ del passato permetterebbe di individuare le condizioni in grado di farci approdare a un sistema energetico basato sulle fonti rinnovabili,2 mettendo cosĂŹ in discussione lâattuale focalizzazione del dibattito sulla produzione. Nelle transizioni del passato, infatti, Ăš stata determinante la domanda: Ăš stata lâautomobile a creare lâindustria petrolifera, cosĂŹ come la lampadina a incandescenza ha creato le centrali elettriche, e non viceversa. Analogamente, la storia sembra esprimersi a favore di un sostegno pubblico di lunga durata alle energie rinnovabili: gli imprenditori che per primi adottarono nuove fonti di energia hanno svolto un ruolo cruciale nel perfezionare i motori e il loro rendimento, e tale processo incrementale ha potuto realizzarsi soltanto in situazioni di nicchia. Per esempio, le prime macchine a vapore in Inghilterra erano talmente poco performanti da poter essere impiegate solo in prossimitĂ delle miniere di carbone. La storia, infine, mette in discussione la pertinenza degli attuali obiettivi di efficienza energetica. Per un verso, rapportati alla tendenza misurata a partire dal 1880, non appaiono particolarmente ambiziosi;3 per lâaltro, la storia dellâenergia conferma la grande intuizione di Jevons: consumando meno carbone, le macchine a vapore diventano piĂč redditizie, per cui ne aumenta lâutilizzo e alla fine il consumo nazionale di carbone risulta accresciuto. Questo tipo di effetto-rimbalzo Ăš stato individuato in diversi settori. In Gran Bretagna, per esempio, tra il 1800 e il 2000 il prezzo della luce (misurata in lumen) Ăš sceso di tremila volte ma il consumo Ăš aumentato di quarantamila.4 Lâeffetto-rimbalzo varia a seconda dei beni e dellâelasticitĂ della domanda rispetto al prezzo, ma globalmente lâefficienza energetica Ăš stata vanificata dalla crescita economica.
Nonostante questi risultati pratici, la storia dellâenergia basata su un approccio gestionale poggia su un equivoco di fondo: ciĂČ che studia come âtransizione energeticaâ corrisponde in realtĂ con estrema precisione allâesatto opposto del processo auspicabile ai nostri giorni nel contesto della crisi climatica e del picco del petrolio.
La brutta notizia, se la storia ci insegna davvero qualcosa, Ăš che le transizioni energetiche non sono mai esistite. Non siamo passati dal legno al carbone, poi dal carbone al petrolio, quindi dal petrolio al nucleare. La storia dellâenergia non Ăš una storia di transizioni, ma di âaddizioniâ successive di nuove fonti di energia primaria. Questo errore di prospettiva dipende dalla confusione tra relativo e assoluto, tra locale e globale: Ăš vero che nel XX secolo lâuso del carbone Ăš diminuito rispetto a quello del petrolio, ma in termini assoluti il consumo non ha fatto che aumentare e a livello globale non se ne Ăš mai bruciato tanto come nel 2014.
La storia dellâenergia deve quindi liberarsi in primo luogo del concetto di transizione, che si Ăš imposto in ambito politico, mediatico e scientifico proprio per esorcizzare i timori legati alla âcrisi energeticaâ, espressione allâepoca dominante. Tra il 1975 e il 1980 il termine energy transition (non a caso preso in prestito dalla fisica atomica), coniato da alcuni think tank, venne reso popolare da potenti istituzioni: lâEnergy Information Administration americana, il Segretariato svedese per lo sviluppo strategico del futuro, la Commissione trilaterale, la ComunitĂ economica europea e varie lobby industriali. Nella maggior parte dei casi indica la necessitĂ di ricorrere a carburanti alternativi: su tutti il nucleare, ma anche gas e petrolio di scisto, carbone e carburanti sintetici.5 Parlare di transizione anzichĂ© di crisi rendeva il futuro molto meno ansiogeno, perchĂ© lo ancorava a una razionalitĂ pianificatrice e gestionale.6 Il successo ulteriore del concetto di transizione, anche e soprattutto negli ambienti ecologisti (si veda la solar transition degli anni Ottanta), Ăš attribuibile a una visione del progresso tecnologico articolata in grandi fasi successive e scandita dallâinnovazione.
Per un verso, tuttavia, tale nozione impedisce di cogliere la persistenza dei vecchi sistemi energetici, e per lâaltro sovrastima lâimportanza dei fattori tecnologici a scapito delle scelte economiche. Torniamo al caso del carbone: i consumi mondiali sono passati da 7,3 a 8,5 miliardi di tonnellate tra il 2008 e il 2012. Se il grosso della crescita Ăš dovuto alla Cina (da 3 a 4,1 miliardi), anche in Europa determinati settori âtornanoâ al carbone in funzione dello scenario economico. Allâinizio di questo decennio, ad esempio, a causa del boom del petrolio di scisto (shale gas) negli Stati Uniti, il prezzo del carbone americano era sceso abbastanza perchĂ© fosse conveniente sostituirlo al gas russo. In Gran Bretagna, tra il 2011 e il 2012, la quota di elettricitĂ prodotta a partire dal carbone Ăš passata dal 30 al 42 per cento; in Francia Ăš aumentata del 79 per cento.7 Da questo punto di vista il carbone non puĂČ essere considerato unâenergia piĂč âvecchiaâ del petrolio; anzi, potrebbe anche esserne il successore.
Un esempio tratto da un libro di Kenneth Pomeranz, La grande divergenza, permette di capire cosa ciĂČ comporti per la storiografia. Prendiamo in considerazione due tecnologie: da un lato la macchina a vapore, dallâaltro le fornaci cinesi che consumano meno energia di quelle europee. Come giudicarne lâimportanza storica? PerchĂ© la macchina a vapore Ăš parsa degna dâinteresse, mentre le fornaci vengono generalmente ignorate? Il motivo risiede nella grande abbondanza di carbone: la capacitĂ di ricavarne maggiore energia non appare piĂč cosĂŹ determinante e quindi le fornaci cinesi sono relegate alle note a piĂš di pagina.8 Se le miniere di carbone inglesi avessero dato segnali di esaurimento a partire dal 1800, la gerarchia dâimportanza si sarebbe invertita. I cambiamenti climatici e il picco del petrolio convenzionale pongono dunque il tema della direzione nella storia delle tecnologie, ci obbligano a riconsiderarne gli oggetti e a pensare a una storia âdisorientataâ.
Per liberarsi dellâidea di transizione la storia dellâenergia dovrebbe abbandonare gli ambiti tradizionali e studiare le situazioni del passato in cui alcune societĂ sono state costrette a ridurre i consumi energetici. La crisi degli anni Trenta potrebbe fornire esempi interessanti al riguardo, dal momento che le emissioni di CO2 negli Stati Uniti passarono da 520 a 340 milioni di tonnellate e quelle della Francia da 66 a 55 milioni. In questâultimo caso la diminuzione dipese non solo dalla recessione, ma anche dallâevoluzione differenziata dei prezzi: durante la crisi quello del carbone aumentĂČ del 40 per cento, mentre lâindice generale dei prezzi ristagnava. Sempre nel corso degli anni Trenta registrarono un picco anche i combustibili legnosi, prima di calare irrimediabilmente dopo la seconda guerra mondiale.9 Uno storico della decrescita energetica potrebbe poi studiare il caso della Germania del dopoguerra (da 185 a 32 milioni di tonnellate di carbonio) o, piĂč vicino a noi, il crollo dellâUnione Sovietica (606 milioni di tonnellate nel 1992, 419 milioni nel 2002). In entrambi i casi la produzione Ăš calata pesantemente (il Pil dellâUrss si Ăš dimezzato tra il 1992 e il 2002).10
I casi della Corea del Nord o di Cuba dopo il crollo dellâUrss permettono di dare un significato concreto a ciĂČ che puĂČ nascondersi dietro il dolce eufemismo di âtransizione energeticaâ. Tra il 1992 e il 1998, privata del petrolio sovietico a buon mercato, lâagricoltura nordcoreana, fondata sulla meccanizzazione e sulle sostanze chimiche, vede calare della metĂ i raccolti di mais, grano e riso. Il regime nordcoreano dĂ prioritĂ allâapprovvigionamento di carburante per lâesercito, lasciando morire per carestia da seicentomila a un milione di persone (il 3-5 per cento della popolazione), prima di decidersi a chiedere lâaiuto alimentare internazionale.
Nello stesso periodo Cuba, privata del petrolio sovietico e sotto embargo americano, deve affrontare per una decina di anni (il âPerĂodo especialâ) una situazione che presenta alcune analogie con quella che si prospetta alle nostre societĂ industriali. Per risparmiare energia, gli orari di lavoro nellâindustria vengono ridotti, il consumo domestico di elettricitĂ Ăš razionato, lâuso della bicicletta e del car sharing diventa generalizzato, il sistema universitario viene decentralizzato, si sviluppano il solare e i biogas (fino a fornire il 10 per cento dellâelettricitĂ ). Nel settore agricolo il rincaro dei pesticidi e dei fertilizzanti chimici, molto energivori, spinge i cubani verso lâinnovazione: controllo biologico degli infestanti per mezzo di insetti predatori, fertilizzanti organici, periurbanizzazione dellâagricoltura che consente di riciclare i rifiuti organici; ma alla fine il cibo viene pesantemente razionato.11 Il periodo speciale modifica profondamente la costituzione fisica dei cubani: nel 1993, allâapice della crisi, la razione giornaliera scende a millenovecento chilocalorie. In media ciascun cubano perde cinque chili di peso, con un conseguente calo delle malattie cardiovascolari (â30 per cento).12 La cosa piĂč inquietant...