Il rischio politico
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Istruzioni per governare l'incertezza

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Il rischio politico

Istruzioni per governare l'incertezza

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Il rischio politico, ovvero la probabilità che eventi di natura politica influenzino negativamente le attività economiche e commerciali delle aziende che investono all'estero, è diventato negli ultimi anni una fonte di notevoli preoccupazioni per imprenditori e amministratori delegati. Che si tratti dell'indebitamento eccessivo di alcuni Paesi all'interno dell'eurozona, di improvvisi sviluppi geopolitici in Medio Oriente, di politiche protezionistiche che arrestano gli scambi internazionali, o ancora eventi come Brexit o l'inattesa vittoria di un nuovo leader populista, la valutazione e la misurazione del rischio politico sono problemi ricorrenti e attuali per attori appartenenti al mondo del privato quali le aziende multinazionali, ma anche per i governi. Questo libro, il primo in Italia dedicato all'argomento, mira a spiegare cosa il rischio politico è esattamente, se e come è possibile misurarlo, e fino a che punto ci si può fidare della capacità di previsione di esperti e analisti politici.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788861054165

Capitolo 1

Una visione d’insieme
Molte decisioni sul rischio non implicano una scelta tra alternative sicure e alternative rischiose,
ma piuttosto tra diverse alternative rischiose.
(Ulrich Beck, 2009, pp. 3-4)
1.1 le origini del rischio politico
Dal 1974, epoca in cui la Turchia invase la parte settentrionale dell’isola, Cipro è di fatto divisa in due. Com’è noto, il governo a maggioranza greco-cipriota di Nicosia, che rappresenta il Paese nell’UE, rivendica la propria sovranità sull’intera isola ma ne controlla in realtà solo la parte meridionale, mentre la parte settentrionale è controllata de facto da un regime turco-cipriota (da molti definito come uno Stato-fantoccio) riconosciuto soltanto dalla Turchia, che a sua volta è presente sul territorio con oltre 50.000 soldati. Nonostante i molti tentativi fatti per risolvere quella che viene definita la “questione di Cipro”, una soluzione sembra ancora lontana. La situazione è ulteriormente complicata dalla possibile presenza di idrocarburi nella zona economica esclusiva cipriota. Nel febbraio 2018, nell’ambito delle sue attività di esplorazione e sviluppo condotte su licenza del governo di Nicosia, Eni ha annunciato una scoperta di gas nell’offshore di Cipro. A pochi giorni dall’annuncio, navi della marina turca sono entrate deliberatamente in rotta di collisione con la nave perforatrice italiana Saipem 12000 (noleggiata da Eni) con l’obiettivo di ostacolarne le operazioni. Il presidente turco Erdogan ha dichiarato di essere contrario alle attività di Eni nel Mediterraneo orientale in quanto esse rappresenterebbero una minaccia per Cipro del Nord e per la Turchia (Giliberto, 2018). Come evolverà la situazione nello scenario geopolitico del Mediterraneo orientale? Sarebbe stato possibile per Eni anticipare l’iniziativa della marina turca? Sarà possibile per Eni continuare nelle sue attività di esplorazione e in prospettiva di estrazione, a fronte di un investimento di 700 milioni di euro già effettuato? Un eventuale accordo politico per la riunificazione dell’isola sotto un’unica giurisdizione condivisa tra la comunità greco-cipriota e quella turco-cipriota faciliterà le attività di Eni e delle altre compagnie presenti nella regione oppure presenterà nuove complicazioni? È a domande come queste che l’analisi del rischio politico mira a dare una risposta.
Ancor più degli investimenti di portafoglio, gli IDE – soprattutto quando prendono la forma di investimenti greenfield, ovvero investimenti che comportano l’apertura di una filiale all’estero – richiedono un’attenta considerazione dei possibili scenari politici nel Paese ospitante: non sorprende quindi che negli ultimi anni l’analisi e la valutazione del rischio politico siano diventati strumenti essenziali per il processo decisionale del management tanto nelle grandi quanto nelle piccole e medie imprese. Oggi, una vasta pletora di attori diversi svolge attività di analisi del rischio politico a fini di investimento, dalle società di consulenza alle agenzie di credito all’esportazione, dalle agenzie di rating alle compagnie assicurative. La diversa natura degli attori che eseguono l’analisi del rischio politico fa da contraltare ai diversi significati attribuiti a questo termine “pigliatutto”. In parte a causa della sua natura intrinsecamente interdisciplinare, il rischio politico in quanto tale è stato trascurato come soggetto di studio nell’ambito della scienza politica e delle relazioni internazionali, nonostante la tradizione di studio sul concetto di “instabilità politica”, variamente definito. Quando i dati sul rischio politico vengono raccolti, elaborati e forniti agli investitori multinazionali nel contesto del settore assicurativo, i confronti tra i diversi approcci di valutazione del rischio politico e gli indici relativi non possono essere effettuati facilmente per ovvie ragioni di concorrenza. Ciò spiega la mancanza di trasparenza nel campo, che solleva interrogativi sulla logica e sulla pratica che sta alla base degli attuali approcci all’analisi del rischio politico. Bisogna difatti riconoscere che, ad esempio, nonostante alcuni contributi interessanti negli ultimi anni (si veda in particolare Jensen, 2003; 2008), la relazione tra i regimi politici in senso stretto (che siano ad esempio autoritari o democratici) e il rischio politico rimane in gran parte inesplorata.
Sebbene la valutazione del contesto politico sia sempre stata parte di qualsiasi iniziativa imprenditoriale, la comparsa di questa nozione nella letteratura economica e finanziaria risale solo agli anni Sessanta1. I confini concettuali del rischio politico sono sempre stati sfumati, come anche confermato dal fatto che sin dagli anni Settanta sono apparse innumerevoli rassegne di letteratura che cercavano di mettere a fuoco questo concetto ambiguo (come ad esempio Kobrin, 1978; Fitzpatrick, 1983; Simon, 1984; Friedman e Kim, 1988; Chermack, 1992; Jarvis, 2008). Tuttavia, come primo passo per cercare di ottenere maggiore chiarezza in questo campo, è possibile – anzi consigliabile – analizzare l’uso del termine nella sua evoluzione storica. Negli anni Sessanta, quando gli attori finanziari ed economici iniziarono a sviluppare l’analisi del cosiddetto “rischio paese”, lo scenario politico mondiale era modellato da due processi complessi e intrecciati tra loro: la Guerra fredda, con la contrapposizione ideologica tra capitalismo e socialismo – cioè tra libero mercato ed economie pianificate – e l’inizio della decolonizzazione. La probabilità di eventi come la crisi di Suez del 1956 o la crisi congolese del 1960, in grado di cambiare improvvisamente e drasticamente l’ambiente politico e quello degli affari, aumentò considerevolmente. Il rischio politico, tuttavia, a volte indicato anche come “rischio non economico”2, veniva al tempo considerato prevalentemente come una caratteristica dei Paesi “sottosviluppati” o “in via di modernizzazione” (Zink, 1973; Green, 1974; Green e Korth, 1974): gli analisti del rischio politico di prima generazione erano preoccupati soprattutto dalle controversie derivanti dal cosiddetto “nazionalismo economico”, ovvero la tendenza, tipica dei Paesi in via di sviluppo, a confiscare o espropriare la proprietà straniera in nome dell’interesse pubblico (Jodice, 1985, p. 9). Gli anni Settanta furono contrassegnati da due eventi che, come prevedibile, ebbero un impatto rilevante sulla percezione del rischio politico da parte del mondo degli affari: lo shock petrolifero del 1973 e la rivoluzione iraniana del 1979. Il verificarsi di tali eventi su vasta scala ha evidenziato l’importanza della valutazione e gestione del rischio politico e l’industria del settore ha iniziato a prosperare, con la proliferazione di società di consulenza e richieste crescenti di copertura del rischio politico, fornite da enti assicurativi tanto pubblici quanto privati. Gli anni Ottanta hanno visto un altro cambiamento nelle implicazioni del rischio politico, con una nuova attenzione al problema della gestione del debito pubblico da parte dei Paesi ospitanti.
Tuttavia, dagli anni Novanta, e in particolare dopo gli attacchi al World Trade Center di New York, il terrorismo è diventato una delle principali fonti di preoccupazione per gli investitori internazionali ed è venuto alla ribalta come una forma significativa di rischio politico (Berry, 2010). L’ampiezza e la diversità dell’analisi del rischio politico si è evoluta anche in termini geopolitici, trasformandosi da un’attività per lo più eseguita da e nell’interesse di multinazionali occidentali (in gran parte americane), a un’attività veramente globale. In molti Paesi emergenti, le imprese investono in mercati rischiosi più delle loro controparti “occidentali” (Satyanand, 2011), e alla luce della crisi finanziaria (e politico-economica) iniziata nel 2008, è ormai chiaro che i Paesi sviluppati non sono affatto privi di rischi per gli investitori stranieri come sembravano essere in passato. Pertanto, il rischio politico non è più visto come un attributo esclusivo dei Paesi meno avanzati. In generale, si può dire che il termine è arrivato a designare una componente del rischio paese, quest’ultima definita come “la capacità e la volontà di un Paese di soddisfare i suoi obblighi finanziari” (Hoti e McAleer, 2003, p. 1). Tuttavia, va anche notato che il “rischio paese” oggi si riferisce comunemente a una gamma più vasta di rischi, di natura non solo finanziaria ma anche operativa: “il rischio paese è di più ampia scala, poiché include le caratteristiche economiche e finanziarie del sistema, congiuntamente a quelle politiche e sociali, nell’ottica di prevedere le situazioni in cui gli investitori stranieri incontreranno potenziali problemi in specifici contesti nazionali” (Howell, 2007, p. 7).
1.2 definizioni e problemi
Nel tentativo di classificare i significati tecnici alternativi che sono stati associati al rischio politico nel tempo si possono identificare le seguenti definizioni: 1) rischio politico inteso come “rischio non economico” (Mayer, 1985; Ciarrapico, 1992); 2) rischio politico inteso come indesiderata interferenza del governo ospitante con le operazioni commerciali dell’investitore (Eiteman e Stonehill, 1973; Aliber, 1975; Henisz e Zelner, 2010); 3) il rischio politico come la probabilità di interruzione delle operazioni delle multinazionali da parte di forze o eventi politici (Root, 1972; Brewer, 1981; Jodice, 1984; MIGA, 2010); 4) rischio politico come discontinuità nel contesto imprenditoriale derivante da cambiamenti politici e che hanno il potenziale di influenzare i profitti o gli obiettivi di un’azienda (Robock, 1971; Thunell, 1977; Micallef, 1982); e infine, 5) rischio politico sostanzialmente equiparato all’instabilità politica e a cambiamenti politici radicali nel Paese ospitante (Green, 1974; Thunell, 1977).
La prima definizione è tipica di una fase iniziale in cui aziende e banche hanno iniziato a porsi il problema della valutazione dei rischi che non potevano essere classificati come meri rischi aziendali, né potevano essere valutati semplicemente guardando i fondamenti economici di un Paese. La seconda definizione è abbastanza restrittiva e, come rilevato da Kobrin (1979), ha implicazioni normative rilevanti perché presuppone che l’intervento del governo sia necessariamente dannoso; in altre parole, le restrizioni del governo ospitante in materia di IDE comportano inefficienza economica. Questo tuttavia non è sempre vero, e gli obiettivi delle aziende “ospitate” e dei governi ospitanti – che possono divergere ma anche coincidere – dovrebbero essere analizzati di conseguenza, per non essere accecati dai preconcetti. Si potrebbe aggiungere che, alla luce dei tanti fallimenti del “Washington Consensus”, e considerando anche la crisi finanziaria ed economica del 2008 che ha esposto i rischi impliciti nell’insufficiente regolamentazione dei mercati, il concetto di governo del laissez-faire ha perso parte del suo fascino per la teoria e la pratica degli affari.
La terza definizione è forse la più precisa dal punto di vista semantico, perché giustamente non considera il rischio politico semplicemente in termini di eventi, ma piuttosto in termini di probabilità di eventi (dannosi per le operazioni di una multinazionale). Se si trascura l’aspetto del calcolo delle probabilità, concettualizzando il rischio politico in termini di semplici “eventi” che possono avere un impatto su un’impresa,3 si rischia di fare la fine del proverbiale stolto che, quando un dito viene puntato alla luna, guarda solo il dito. Il calcolo del rischio politico è un compito intrinsecamente rivolto al futuro. A un’attenta riflessione, il rischio politico potrebbe essere strutturalmente elevato ed essere percepito come tale da un’impresa che è proiettata nel futuro, anche nell’effettiva assenza di eventi potenzialmente dannosi nel presente.
La quarta categoria di definizioni è più ampia, poiché si concentra sull’ambiente imprenditoriale piuttosto che sulla singola impresa. Robock (1971, p. 7) ha fornito una definizione calzante del rischio politico come una condizione che si verifica “(1) quando si hanno discontinuità nel contesto aziendale, (2) quando esse sono difficili da prevedere, (3) quando esse derivano da cambiamenti politici. Per costituire un rischio, questi cambiamenti nel contesto aziendale devono avere il potenziale di influenzare in modo significativo il profitto o altri obiettivi di una particolare impresa”.
L’idea di una discontinuità esistente e osservabile nell’ambiente di business è abbastanza comune nelle definizioni di rischio politico. Ancora una volta, è importante sottolineare un punto: anche le situazioni apparentemente stabili, ovvero che siano ad esempio state tali per un periodo relativamente lungo, potrebbero in realtà essere estremamente rischiose. La nozione di variabili latenti nella statistica illustra efficacemente questo concetto.4 Il rischio può essere dunque considerato come la probabilità che si verifichi un determinato evento negativo. Ciò che viene successivamente osservato è, in effetti, un risultato binario: l’evento può avere luogo, oppure no. L’idea di base rispetto alle variabili latenti è che sono generate da una propensione di fondo per il verificarsi di un particolare evento (per esempio, uno sciopero generale, una rivoluzione o un semplice atto di espropriazione). Lo scenario politico in un Paese può sembrare stabile perché in realtà è stabile, o, paradossalmente, può sembrare stabile in un dato momento nonostante il fatto che il regime politico in vigore stia per collassare. Un esempio abbastanza efficace di ciò può essere fornito ricordando che, il 31 dicembre 1977, il presidente USA Carter fece un brindisi pubblico lodando il regime dello scià iraniano per il suo essere “un’isola di stabilità in una delle aree più problematiche del mondo” (Carter, 1977). Sulla scia della successiva e imprevedibile rivoluzione iraniana e dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, tuttavia, analisti e studiosi del rischio politico come Brewer (1981) dovettero riconoscere che “la stabilità passata di un regime autoritario non dovrebbe essere presa come un predittore della stabilità futura” (p. 8), una lezione che si è rivelata valida anche per i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA) che hanno subito drastici rivolgimenti politici a partire dal 2011.5
Robock ha introdotto una distinzione che ha successivamente avuto un grande successo entrando a far parte del gergo “classico” del rischio politico, ovvero la distinzione tra il rischio politico “macro” (quando i cambiamenti politici sono diretti a tutte le imprese straniere) e il rischio politico “micro” (quando i cambiamenti sono diretti selettivamente verso specifici campi di attività economica). Evidentemente, la valutazione del rischio politico micro dovrebbe essere eseguita a livello di industria – o anche a livello di impresa, anche se a ben guardare la maggior parte degli autori che si sono occupati di rischio politico continua a riferirsi al rischio “macro”.
Il quinto gruppo di definizioni è stato sviluppato da autori che miravano a colmare il divario tra scienza politica e discipline aziendali, basandosi sulla letteratura esistente sul cambiamento politico. Il contributo di Green è il primo a focalizzarsi sulla relazione tra il tipo di regime e il rischio politico (Green, 1972; 1974), individuando sette tipi di regime, con un livello di rischio crescente: “strumentale adattivo” (come gli Stati Uniti e il Regno Unito) e “strumentale non adattivo” (come Francia e Italia), che sono etichettati come Stati-nazione modernizzati; “Quasi-strumentale” (come India e Turchia), “autocrazie in fase di modernizzazione” (come Siria e Giordania), “dittature militari” (come Birmania e Libia), “sistemi basati sulla mobilitazione” (come Cina, Vietnam, Cuba e Corea del Nord) e Stati “di recente indipendenza” (come Indonesia e Ghana), che sono definiti come Stati-nazione in via di modernizzazione. L’approccio di Green si basa su una serie di presupposti. Il primo è che il cambiamento politico radicale è intrinsecamente dannoso per l’attività delle multinazionali. Il secondo è che più il sistema politico è giovane, meno è “adattivo” al cambiamento e quindi maggiore è il rischio che si verifichino sovvertimenti radicali dell’ordinamento. Il terzo è che la modernizzazione economica mette inevitabilmente in crisi il sistema politico e che le istituzioni politiche nella modernizzazione degli Stati devono cambiare o essere sostituite. Sebbene, come già sottolineato, questa analisi tenti di concentrarsi sulle origini del rischio in termini di “strutture” del regime politico, va tuttavia rilevato che essa non si preoccupa eccessivamente dei fondamenti empirici delle affermazioni fatte e non approfondisce i meccanismi specifici che collegano i diversi tipi di regime politico a rischio politico.
Oggi più che in passato, il compito della concettualizzazione e della valutazione del rischio politico è svolto da agenzie pubbliche o private (Business Risk Intelligence, Control Risks, Eurasia Group, Multilateral Investment Guarantee Agency nel Gruppo della Banca mondiale, Oxford Analytica, Political Risk Services Group, l’agenzia per il credito all’esportazione america...

Indice dei contenuti

  1. Il rischio politico
  2. Indice
  3. Prefazione di Giovanni Orsina
  4. Introduzione
  5. Capitolo 1. Una visione d’insieme
  6. Capitolo 2. La previsione degli eventi politici: problemi e tecniche
  7. Capitolo 3. Il ruolo trasversale del giudizio di esperti
  8. Capitolo 4. L’impatto della rivoluzione digitale sull’analisi del rischio politico
  9. Riferimenti bibliografici