Senza aspettare Godot. Come aumentare rapidamente il valore della propria impresa proiettandola nel futuro
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Senza aspettare Godot. Come aumentare rapidamente il valore della propria impresa proiettandola nel futuro

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Sembra che un progetto di sviluppo industriale in Italia oggi sia come il volo di un calabrone: razionalmente insostenibile. Abbiamo perso tempo prezioso, il made in Italy segna il passo, le nostre aziende migliori vengono regolarmente acquisite da aziende estere, non ci sono sufficienti capitali privati e pubblici, mancano le competenze da modern economy, il sistema scolastico è sganciato dall'economia reale... Ma non è proprio tutto così in realtà nel quadro a macchia di leopardo si alternano situazioni di stallo e regressione a spot di eccellenza.
Questo libro indica una strada semplice per aumentare la dimensione relativa dell'eccellenza partendo dalle imprese come sono nella realtà e indicando una serie di percorsi semplici, fattibili, largamente mutuati da sperimentate capacità di grandi imprese: se anche noi dobbiamo imitare qualcuno, è meglio imitare chi è già arrivato lontano anziché cercare ostinatamente nel passato le radici del nostro imminente fallimento. Est modus in rebus: focus, metodo, volontà ed evoluzione culturale sono le vie per dare valore all'impresa. La fatica da sola non basta più.

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Informazioni

Editore
Go Ware
Anno
2019
ISBN
9788833631783

Capitolo 1
Primum vivere deinde philosophari
Le condizioni delle aziende italiane
dalla crisi del 2009

Dove si cerca di comprendere quali siano l’ambiente e le condizioni in cui si trovano ad operare le aziende industriali italiane e quali di queste condizioni siano favorevoli e quali meritino di essere ben ponderate. Dove anche si ragiona di cosa sia accaduto alle aziende nel non breve periodo della crisi iniziata nel 2009. Dal che si vuol dimostrare che dopo la sopravvivenza viene il tempo del pensiero e dell’azione.

Una via italiana?

C’è un’alternativa, forse: quella di trovare una via italiana alla crescita globale. La questione di fondo è se valga la pena di tentare di recuperare il terreno perso, agganciando il futuro in corsa (ma abbiamo visto che numeri e circostanze ci danno apparentemente torto) o se aspettare il futuro da qualche parte correggendo in ogni caso i difetti che ci danneggiano e ci danneggerebbero anche se fossimo fuori da qualsiasi quadro competitivo: soli in un’isola autoctona e autarchica tutta italiana. Una via alternativa c’è e può far leva su caratteristiche straordinarie tipiche del nostro sistema come creatività unica, innovazione, resilienza, cultura di prodotto, gusto, reattività. Ma nel contempo questa ricetta richiede che le imprese italiane acquisiscano risorse che oggi non hanno: capitali, capacità di competere in contesti più ampi, forza aggregativa, cultura manageriale, capacità di cooperare lungo le filiere, cultura, innovazione tecnologica, attrattività per giovani talenti, marketing, visibilità, capacità distributiva.
Le statistiche (per quanto possano avere un senso decisivo) dicono che in questi anni di crisi il 30% delle imprese industriali italiane sono morte o agonizzano; il valore della produzione recuperato è stato circa il 50% di quello perso; ci sono state cessioni e poche aggregazioni; molte aziende nuove sono nate ma quelle che sono sopravvissute mantenendo sostanzialmente l’assetto che avevano prima della crisi (capitale familiare e management locale) lo hanno fatto a costo di sacrifici enormi, lasciando sul terreno occupazione e spesso indebitandosi; ben poche tra quelle che sono cresciute hanno raggiunto le dimensioni esponenziali dei loro competitor in giro per il mondo.
Alcune sono state protette e rilanciate da fondi di investimento che le hanno liberate in parte dal debito. Molte hanno superato la fase del terzismo e del lavoro su commessa (poco redditizio) per trasformarsi in brand intermedi o addirittura in aziende btoc. Ma si tratta di un processo che persino le aziende cinesi hanno già affrontato e perfezionato da tempo.
L’autopsia di quelle decedute svela i segni dell’obsolescenza di prodotto e tecnologica, redditività insostenibile, passaggi generazionali o di modello di governance che non hanno funzionato. Stanchezza, poca redditività, debiti, isolamento.
Dunque, le strategie di salvataggio sono state spesso strategie di sopravvivenza, raramente di salto dimensionale. Il tutto in un quadro (che è anche la con-causa di tutto) di totale latitanza di una politica industriale organica nazionale degna di questo nome; cioè che vada oltre l’incentivo e la sussistenza. In assenza della quale anche la selezione non è più una dinamica competitiva, ma solo un massacro. Inoltre, settori strategici come Information Technology, telecomunicazioni, software, farmaceutica, acciai, energia, elettronica di consumo, distribuzione organizzata, sistemi di trasporto, editoria, finanza ci vedono largamente deficitari se non totalmente assenti. In altri settori siamo ancora piuttosto forti: design, moda, meccanica di precisione, food, vino, automotive, agricoltura, che però da soli non possono assolutamente sostenere il Paese e che nei prossimi anni necessiteranno tutti di una fortissima innovazione soprattutto nei modelli di business e nella capacità di comunicare. Infine, non abbiamo dimostrato alcuna capacità di valorizzare neppure settori dove possediamo patrimonio e monopoli naturali come il turismo, l’arte o la cultura.
Dove la nostra capacità competitiva residua non offre prospettive visibili, siamo destinati a perdere talenti, perché i nostri giovani migliori sfruttano ancora il gap culturale positivo residuale per piazzarsi all’estero dove hanno più soddisfazione professionale ed economica.
I free-climbers cambiano strategia spessissimo perché la via non è predeterminata e l’unica vera coordinata mentale è salire, proseguire. La percezione del loro coraggio ci affascina e atterrisce allo stesso tempo. Foto di Robert Baker, da Unsplash.com.
Ma qual è la prospettiva da cui dobbiamo guardare questo inevitabile mors tua vita mea? Io propongo di guardarlo dal senso comune del bene comune, dal progetto di una prosperità diffusa e condivisa basata sull’ingegno, il lavoro e la dignità; dal punto di vista di un sistema di competizione basato sul merito e sul rischio, ma anche sull’onore e sulla cooperazione, sulla giustizia e sulla solidarietà; sulla responsabilità individuale. Sono sicuro che questa prospettiva non è in conflitto con lo spirito e l’obiettivo economico dell’impresa, ma solo con comportamenti devianti che spesso ad esso vengono associati come necessari. Con Aristotele penso che tutto ciò che facciamo è sociale non per accidente, ma perché è scritto geneticamente nella nostra più semplice natura.

Che fare?

Riprendendo il titolo di un famigerato libro di Lenin, proviamo a chiederci perché le aziende industriali italiane devono fare innovazione, chi sono i veri nemici e quanto vale la propria azienda.
Il quadro globale è in grande evoluzione. La Cina non è più solo un paese di risorse industriali a basso costo: è un mercato di sbocco sempre più sofisticato e un luogo in cui ormai si sviluppa innovazione (di Prodotto e di Sistema). Gli usa sono ancora un paese di grandissime risorse innovative ma forse non basta loro generare “unicorni” per competere (e soprattutto mantenere la leadership!): le tentazioni protezionistiche sembrano mostrare una strada di fatica e scarse prospettive nel mantenere l’egemonia a costo della leadership. Il resto del mondo è per noi un’opportunità ed al contempo una minaccia: paesi come il Giappone e l’India o aree come il Sud America, per dimensione o storia recente, non sono all’altezza delle promesse (e delle minacce) degli anni appena trascorsi. L’Europa è un luogo di ambigue prospettive e forse ciò che più conta nei Paesi a noi paragonabili come forza e dimensione (uk, Francia, Germania e Spagna) sono le politiche di tutela degli interessi nazionali insieme alla capacità di sfruttare il sistema di regole comunitario. In comune questi Paesi hanno il problema dell’invecchiamento e del sostenimento delle politiche sociali. Ho messo uk in Europa perché – volenti e nolenti – i britannici resteranno ampiamente nella sfera d’influenza europea giocandovi un ruolo originale come zona franca della finanza e dell’innovazione.
L’Africa resterà per molto tempo ancora un’area sottosviluppata, sotto la crescente influenza prospettica cinese (ma non solo). Il Medio Oriente continuerà a essere un’area instabile e sostanzialmente arretrata, soprattutto culturalmente: la lentissima evoluzione del ruolo della donna (l’universo femminile darà un impulso decisivo a tutto il mondo a venire) e la restrizione delle libertà individuali, assieme a una cultura dinastica, pesano sull’attrattività dell’area. Sempre di più, infatti, il progresso economico sarà legato a fattori ambientali e culturali, ai diritti e all’evoluzione delle usanze e dei costumi sociali. D’altra parte, da occidentali, dovremo abituarci a convivere con differenze culturali persistenti e – forse – difficilmente convergenti. La nostra equazione preferita: evoluzione dei diritti e dei costumi = convergenza degli interessi geo-politici ed economici, con al centro la diffusione di democrazia come catalizzatore, trova forti resistenze nel mondo. Nel contempo essa è messa a repentaglio da spinte oppositive persino nel nostro mondo.
Tornando all’Italia, tutte le nostre doti tradizionali, ed in particolare creatività, design, ingegno, resilienza, indipendenza e autonomia commerciale, sono fondamentali per competere in un quadro globale in grande evoluzione e molto “mosso”, ma, come abbiamo già visto, ci sono alcune capacità che non abbiamo sviluppato sufficientemente e che sono già requisiti fondamentali, figuriamoci nel prossimo futuro:
Branding, nel senso della capacità di usare il marchio come un elemento di aggregazione, percezione e sviluppo de...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Presentazione
  5. Prefazione Elogio della follia imprenditiva di Enrico Sassoon
  6. Introduzione
  7. Capitolo 1 – Primum vivere deinde philosophari Le condizioni delle aziende italiane dalla crisi del 2009
  8. Capitolo 2 – Choose your weaponUn’agenda semplice e gestibile fatta di 10 cose
  9. Capitolo 3 – Pars construens, cioè come costruire
  10. Qualche indicazione bibliografica: poche ma buone
  11. Postfazione
  12. Ringraziamenti
  13. Grafici, tabelle e illustrazioni
  14. Lista delle aziende citate
  15. Lista dei luoghi citati
  16. Lista dei nomi citati