Capitolo 1
Definire l’intelligenza artificiale
Che cos’è l’intelligenza artificiale?
Ecco una domanda a cui è sia facile che difficile rispondere, per due ragioni: la prima è che non c’è comune accordo su che cos’è l’intelligenza artificiale. La seconda è che ci sono poche ragioni, almeno al momento, per ritenere che l’intelligenza delle macchine abbia molto in comune con quella umana.
Sono state proposte molte definizioni di intelligenza artificiale (IA), ognuna espressione di un diverso punto di vista, ma tutte più o meno allineate sul concetto di creare programmi informatici o macchine capaci di comportamenti che riterremmo intelligenti se messi in atto da esseri umani. Nel 1955 John McCarthy, uno dei padri fondatori della disciplina, descriveva il processo come “consistente nel far sì che una macchina si comporti in modi che sarebbero definiti intelligenti se fosse un essere umano a comportarsi così”.
Questo approccio apparentemente ragionato alla caratterizzazione dell’IA è in realtà profondamente limitato. Consideriamo, ad esempio, la difficoltà del definire, e ancor di più del misurare, l’intelligenza umana. La nostra predilezione culturale per ridurre le cose a misurazioni numeriche che facilitano i paragoni diretti crea spesso una falsa patina di oggettività e precisione, e i tentativi di quantificare qualcosa di tanto soggettivo e astratto come l’intelligenza rientra chiaramente in questa categoria. Il QI della piccola Sally è sette punti più alto di quello di Johnny? Vi prego, trovate un qualsiasi altro modo più equo di decidere a chi spetta quell’ultimo, prezioso posto all’asilo nido. Per non fare che un esempio dei tentativi di accantonare questa eccessiva semplificazione, pensate al controverso quadro fornito dallo psicologo dello sviluppo Howard Gardner, che propone una teoria dell’intelligenza a otto dimensioni, da quella “musicale-ritmica” a quella “naturalistica”, passando per quella “cinetico-corporale”.
Nondimeno, ha senso dire che una persona è più intelligente di un’altra, almeno nell’ambito di molti contesti. Esistono peraltro determinati indicatori di intelligenza che sono ampiamente accettati e altamente correlati con indicatori di altro tipo. Per esempio, quanto velocemente e precisamente gli studenti sono in grado di fare addizioni e sottrazioni è ampiamente utilizzato come modo di misurare le abilità logiche e quantitative, per non dire l’attenzione al dettaglio. Ma è sensato applicare questo standard a una macchina? Una calcolatrice da un dollaro è capace di battere a mani basse qualsiasi essere umano in questo esercizio – persino senza avere le mani. Prima della seconda guerra mondiale un “calcolatore” era un professionista qualificato, di solito di sesso femminile – fatto interessante – dal momento che si riteneva che le donne fossero capaci di eseguire questo compito in modo più meticoloso e attento degli uomini. La velocità di calcolo è dunque un indicatore del fatto che le macchine possiedono un’intelligenza superiore? Ovviamente no.
A complicare il compito di mettere a confronto l’intelligenza umana e quella delle macchine c’è il fatto che la maggior parte dei ricercatori nel campo dell’IA sarebbe d’accordo nel dire che come affronti il problema è più importante che se lo risolvi. Per capire perché, provate a immaginare un semplice programma per computer pensato per il gioco del tris, quello in cui i giocatori inseriscono delle X e delle O in una griglia tre-per-tre finché uno dei due non riesce a mettere tre simboli uguali in fila, in colonna o in diagonale (o, in alternativa, finché tutti gli spazi non sono occupati, nel qual caso la partita è pari).
Esistono esattamente 255.168 possibili esiti di una partita a tris, e nell’odierno mondo dei computer è relativamente semplice generare tutte le possibili sequenze di gioco, segnare quelle vincenti e giocare la partita perfetta semplicemente effettuando ogni mossa sulle basi di una tabella. Tuttavia, molti non accetterebbero di definire un programma così semplice “dotato di intelligenza artificiale”. Immaginate ora di adottare un approccio diverso: un programma privo di nozioni preconcette relative alle regole del gioco, che osserva gli esseri umani e non impara soltanto cosa significa vincere ma quali sono le strategie più efficaci per farlo. Potrebbe ad esempio imparare che, ogni qualvolta un giocatore riesce a mettere due simboli uguali in fila, l’altro dovrebbe sempre bloccare il completamento del tris, oppure che se si riescono a occupare tre angoli della griglia lasciando tra di essi degli spazi vuoti, di solito questo si traduce in una vittoria. La maggior parte degli osservatori direbbe che questo programma è artificialmente intelligente, soprattutto perché è stato capace di acquisire l’abilità necessaria senza ricevere alcuna guida o istruzione.
Ora, non tutti i giochi né, tantomeno, tutti i problemi interessanti possono essere risolti per enumerazione come succede con il tris. Nel gioco degli scacchi, per dare un’idea, sono possibili circa 10120 partite uniche, vale a dire molte più del totale degli atomi presenti nell’universo. Si può quindi dire che buona parte della ricerca nel campo dell’IA non sia altro che un tentativo di trovare soluzioni accettabili a problemi che non possono essere soggetti a un’analisi definitiva o a enumerazione per tutta una serie di ragioni teoriche e pratiche. Eppure, questa caratterizzazione non è di per sé sufficiente: molti metodi statistici soddisfano questo criterio pur non avendo niente a che fare con l’IA.
Esiste tuttavia una equivalenza non intuitiva, eppure reale, tra lo scegliere una risposta da un’immensa proliferazione di possibilità e arrivare alla stessa servendosi di analisi e creatività. Questo paradosso può essere formulato per mezzo della famosa storiella secondo la quale un numero sufficiente di scimmie che digita a caso su un numero sufficiente di tastiere finirà per comporre le opere complete di Shakespeare. In un contesto più moderno, ogni possibile performance musicale di una lunghezza data può essere rappresentata come un singolo file MP3 facente parte di una collezione finita. Saper scegliere quel preciso file musicale dalla lista è forse un atto creativo equivalente all’averlo registrato? Non è di certo la stessa cosa, ma forse si tratta di due capacità entrambe meritevoli della stessa ammirazione.
Quando valutiamo l’abilità degli studenti nel fare le addizioni, non teniamo conto di come hanno svolto il lavoro – presumiamo cioè che abbiano usato solo il cervello con cui sono nati e gli strumenti necessari, come carta e penna. Perché, allora, la cosa diventa rilevante se il soggetto da testare è una macchina? Questo accade perché diamo per scontato che un essere umano che svolge questo compito stia usando determinate abilità innate o apprese che possono in linea di principio essere applicate a una vasta gamma di problemi paragonabili. Se tuttavia è una macchina ad avere le stesse abilità, o superiori, siamo restii a convincerci che stia accadendo qualcosa di analogo.
C’è anche un altro problema nell’uso delle capacità umane come metro di giudizio per l’IA: le macchine sono capaci di svolgere numerosi compiti del tutto impossibili per le persone, e molti di questi compiti di certo somigliano a dimostrazioni di intelligenza. Un programma di sicurezza è capace di sospettare un attacco informatico sulla base di sequenze di richieste accesso dati insolite in un arco di appena cinquecento millisecondi. Un sistema di allerta tsunami potrebbe far suonare l’allarme sulla base di impercettibili mutazioni nelle altezze oceaniche che rispecchiano complessi sommovimenti geologici sottomarini. Un programma pensato per la scoperta di nuovi farmaci riesce a mettere a punto una nuova ricetta dopo aver scoperto una particolare sequenza di accordi molecolari mai notata prima in composti di trattamento contro il cancro rivelatisi efficaci. Il comportamento di sistemi di questo tipo, destinati a diventare sempre più comuni in futuro, non si presta in realtà a paragoni con le capacità umane. Tuttavia, siamo soliti considerare questi sistemi “artificialmente intelligenti”.
Un altro indicatore di intelligenza è la grazia con la quale commettiamo sbagli: tutti quanti, macchine intelligenti incluse, commettono sbagli, ma alcuni errori sono più ragionevoli di altri. Comprendere e rispettare i nostri stessi limiti e commettere errori plausibili sono tutti segnali di competenza. Prendete ad esempio la difficile sfida che comporta “tradurre” il linguaggio parlato in quello scritto. Se uno stenografo del tribunale, per sbaglio, trascrive la frase “Ha commesso un errore che ha portato alla morte dell’uomo” come “Un commesso per errore ha portato alla morte dell’uomo”, l’errore sembra perdonabile. Ma l’effetto è molto più ridicolo se Google Voice propone “wreck a nice beach you sing calm incense” [“rovina una bella spiaggia, canti incenso calmo”, ndt] al posto di “recognize speech using common sense” [“riconoscimento vocale per mezzo di buon senso”, frase in inglese pressoché omofona della precedente, ndt], in parte perché ci aspetteremmo maggiore familiarità di questo sistema con il proprio campo di competenza.
Ma l’IA è una vera scienza?
Negli ultimi decenni, il campo dell’IA è uscito dall’infanzia (passata a giocare con problemi-giocattolo come il tris e gli scacchi) ed è entrato nella sua adolescenza professionale (nella quale si dirige verso luoghi sconosciuti, acquisisce nuove abilità, esplora il mondo reale e cerca di scoprire i propri limiti). Ma riuscirà mai a maturare fino a diventare una disciplina scientifica a pieno titolo?
Per iniziare a attraversare le profonde acque della speculazione, molti campi di ricerca iniziano a farsi le ossa, o compiono sostanziali progressi, solo quando un certo formalismo matematico viene fuori a fornire un solido fondamento teorico. Per esempio, la geometria non euclidea di Bernhard Riemann preparò il campo alla teoria einstaniana della curvatura dello spazio-tempo e, in ambito più prossimo al nostro, la notevole tesi di dottorato che nel 1937 Claude Shannon discusse al MIT, proponendo per la prima volta che i circuiti elettronici fossero modellati sull’algebra booleana (meglio nota come aritmetica binaria), gettò le basi per la moderna informatica. È grazie a lui che oggi parliamo del funzionamento dei computer sulla base di “zero e uno”. Prima di allora, gli ingegneri elettronici si occupavano perlopiù di assemblare strani componenti fino a formare circuiti, e poi osservavano quello che ne veniva fuori. Il mio macchinario ha trasformato la corrente alternata in corrente continua meglio di quanto abbia fatto il tuo, ma non mi chiedere perché.
Capita ogni tanto che oggi i convegni sull’IA diano sensazioni simili, con gli algoritmi di un gruppo che sono meglio di quelli dei rivali, in una escalation simile a un concorso di cucina che si tiene di anno in anno. Ma l’intelligenza può essere soggetta ad analisi teorica? O l’unico scopo è l’attesa del momento di stupore da parte di un ingegnere dalla mente matematica? La questione è cruciale per capire se l’IA è davvero una disciplina a sé o è solo la Lady Gaga della scienza informatica, capace di eseguire numeri mirabolanti fasciata in sgargianti abiti antropomorfi e di catturare l’immaginazione popolare e la fetta più grande di fondi a sostegno, uno spettacolo da baraccone persino strafottente e insolente, ogni tanto, con il pubblico che rimane lì a chiedersi se fosse tutto vero o solo un trucco da avanspettacolo.
La mia opinione personale sul significato dell’IA è la seguente: l’essenza dell’IA – in effetti, l’essenza dell’intelligenza – è la capacità di fare generalizzazioni appropriate in modo tempestivo e su una base dati limitata. Tanto più è vasto il campo di applicazione, tanto più rapidamente vengono tratte le conclusioni...