La marcia russa
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La marcia russa

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Dalla sua ascesa al Cremlino come "Capo di Stato temporaneo" nel 1999 al suo quarto mandato presidenziale, Vladimir Putin è non solo riuscito a trasferire dall'URSS alla Russia lo status di grande potenza, ma anche a porre il suo paese come modello alternativo alla democrazia liberale in crisi di identità. Il sovranismo, un esecutivo con poteri forti e una magistratura non necessariamente indipendente, si fa largo oggi in Occidente, guidato da una Russia che corre verso la riconfigurazione dell'attuale equilibrio mondiale. Ma come ha fatto un oscuro funzionario dei servizi sovietici a essere oggi tra i candidati al ruolo di "uomo più potente del mondo", come lo ha definito Forbes? Antonio Badini, forte della lunga esperienza diplomatica oltre che accademica, ricostruisce in questo breve, bruciante libro le tappe della "marcia russa", che avanza inesorabilmente tra lo stallo in cui è caduto il progetto di una "Casa comune europea" e le tendenze isolazioniste dell'America di Trump.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788861053656

Capitolo 1

Il contesto internazionale:

gli Stati Uniti e la marcia di Putin
1.1 Il doppio standard di Washington
Nel 1990 George H.W. Bush voltò le spalle a Michail Gorbaciov, non dandogli il sostegno di cui aveva bisogno per dimostrare l’efficacia di una perestrojka che tardava a dispiegare pienamente i suoi effetti. Qualche anno più tardi Bill Clinton lasciò erroneamente campo libero al sottosegretario al Tesoro Lawrence Summers, per la definizione di una terapia d’urto al fine di rispondere alle balbettanti richieste di assistenza della Russia di Eltsin, che muoveva allora (era il 1993) i primi passi verso un’economia di mercato. Una seria valutazione del contesto politico-istituzionale avrebbe evidenziato l’assenza delle condizioni minime per un successo sostenibile di quel progetto, di fatto imposto dagli Stati Uniti.
In entrambi i casi sono stati commessi da parte della Casa Bianca errori nell’approccio strategico, che mettono in dubbio l’affidabilità di Washington. Vi era allora, e permane nelle mutate circostanze oggi, un doppio standard dell’amministrazione americana, di fronte a richieste o proposte da parte prima dell’URSS e della Russia poi, nel giudicare sul piano etico-politico i comportamenti e le iniziative della controparte e nel fare processi alle intenzioni o supporre atteggiamenti consenzienti. È dunque normale che i comportamenti di Bush senior e Clinton siano stati attentamente esaminati da Putin, soprattutto quando lui stesso all’inizio del mandato era chiamato a soppesare il sostegno, e l’affidabilità, degli Stati Uniti.
Oggi si parla di “fake news” e subdole interferenze della Russia in molti paesi, inclusi gli Stati Uniti, per preparare la via a una sua maggiore influenza politica. Ci si è però dimenticati che anche l’invasione americana dell’Iraq avvenne a seguito dell’accusa, rivelatasi falsa, che Saddam Hussein stesse dotandosi di armi di distruzione di massa per acquisire una posizione di dominio nella regione. Tale accusa era nata dalle menzogne prodotte ad arte dall’intelligence britannica, forse su indicazione di Tony Blair, che si presume rispondesse a una sollecitazione di George W. Bush, e con un modesto aiuto dell’Italia: i nostri Servizi furono infatti implicati, secondo dinamiche non del tutto chiarite, nella diffusione del falso carteggio da cui risultava l’acquisto di uranio dal Niger da parte di Saddam Hussein.
Anche se rivelatasi falsa, quell’accusa portò in dote all’Occidente una concatenazione di interminabili violenze in Medioriente, di cui ancora oggi si pagano le conseguenze. Molti episodi compongono la collana di abusi commessi in Medioriente dall’Occidente che, in assenza di un contropotere come invece era il caso durante la Guerra fredda, ha talvolta agito a ruota libera, sbagliando spesso: si pensi agli abusi, camuffati da interventi umanitari, come il raid franco-britannico (con appoggio americano) sulla Libia di Gheddafi e come il più recente attacco aereo contro la Siria da parte di Stati Uniti, Regno Unito e Francia. Né vanno dimenticati i casi più lontani nel tempo, quando gli Stati Uniti facevano il bello e cattivo tempo in America Latina per impedire che mettesse radici la nuova democrazia dei vari Alfonsin e Sanguineti, allo scopo di non creare problemi al grande business statunitense. Chi resisteva, come Salvador Allende, poteva essere fisicamente eliminato, per permettere l’ascesa di personaggi più “ortodossi”, come fu il caso del generale Pinochet in Cile. Accade assai spesso che, in una situazione di dominio politico-militare, non si ascoltino le voci della moderazione e della ragione, preferendo compiere atti teatrali e dimostrativi con finalità geopolitiche e di lotta di potere, piuttosto che umanitarie o di affermazione di sistemi propri alla democrazia liberale.
Un’illustrazione esemplificativa di come siano stati ripetitivi gli errori dell’Occidente in Siria viene fornita da Mary Kaldor, della London School of Economics11. La Kaldor fa chiarezza sulle condizioni e caratteristiche, molto spesso ignorate, che debbono assumere gli interventi che utilizzano lo strumento militare per poter essere classificati di carattere umanitario, ovvero come applicazione della “responsabilità a proteggere” accettata formalmente nel 2005 dall’Assemblea delle Nazioni Unite.
Criticando il ricorso a mistificazioni di sorta, la Kaldor afferma che troppo spesso “le norme della decenza vengono sfidate” e che “è giunto il momento in cui l’opinione pubblica mondiale deve esigere la giusta risposta”. Riuscirà a farlo? E con quale risultato, visto che l’Unione Europea ha abdicato a ogni controllo etico-politico su quanto accade nel mondo, in particolare nei propri confini?
È bene che siano finalmente ascoltati appelli simili, che dovrebbero trovare una maggiore eco nella stampa italiana, soprattutto se invocati da persone autorevoli come Kaldor, per evitare che si formino nell’opinione pubblica sensazioni che poi le autorità politiche possano sfruttare a giustificazione di interventi militari, o per criticare quelli compiuti da potenze avversarie. È questa la sorte in cui spesso incorre proprio la Russia di Putin nel suo obiettivo (avversato) di porsi come potenza alla pari delle altre e dunque legittimata a compiere interventi militari, o a prevenirli con azioni di deterrenza.
1.2 L’imprevedibilità di Donald Trump
Gli errori e le decisioni ingannevoli, che si sono ripetuti nel tempo ad opera degli inquilini della Casa Bianca, trovano in Donald Trump il livello più basso di una politica estera sconcertante, affidata non si capisce bene se all’intuizione, al capriccio, al pregiudizio, o a regolamenti di conti. O forse a un mix di tutti questi impulsi.
Un fatto va qui chiarito. Non sembra che l’elezione di Trump sia un accidente della storia. Essa appare piuttosto il punto culminante di un processo involutivo che ha fatto perdere legittimità alla leadership mondiale di Washington e che Trump esaspera, secondo le circostanze.
Quello che in positivo può essere attribuito a Trump è l’aver visto con chiarezza le perdite in termini di costi, obbiettivamente iniqui per il suo paese, di quel processo improntato da parte dei suoi predecessori a una certa remissività nei confronti di quella “macchina del potere” che è la burocrazia di Washington, e di aver voluto conquistare con tenacia la Casa Bianca per “rompere con quel passato”, senza però chiari tornaconti per gli Stati Uniti. Il suo torto è di non aver saputo inquadrare, sul piano internazionale, i suoi impulsi, talvolta contraddittori, in una strategia comprensibile e coerente.
Sul piano interno, nonostante un miglioramento della congiuntura economica, Trump non ha mostrato di saper ridurre l’influenza dei “poteri forti” costituiti dall’alleanza tra finanza internazionale (soprattutto americana) e grandi corporations, (anch’esse soprattutto americane). Stando alle dichiarazioni d’intenti da parte di Trump quando era candidato, ci si sarebbe attesi la formulazione di politiche più efficaci per contrastare l’invadenza dei “poteri forti” e convogliare i profitti della Borsa al finanziamento di nuove attività produttive in grado di far crescere occupazione e PNL. Merryn Sommerset Webb lo spiega bene in un articolo apparso sul Financial Times dal titolo “Merger Frenzy Defeats: the Real Point of Markets”12 (che dovrebbe essere appunto quello di far girare la finanza attorno alle imprese di produzione). I problemi maggiori sono ancora oggi riconducibili invece allo strapotere delle grandi equity firms, che vendono e comprano imprese nel mercato mondiale al solo scopo speculativo, per ingrossare i loro profitti. Il presidente Trump si è solo preoccupato di incentivare fiscalmente il rimpatrio dei profitti delle imprese multinazionali.
Del resto, tra i beneficiari del “bullismo” del presidente Trump (cioè parte del mondo del business) c’è, è vero, una soddisfazione che tuttavia non trova unanimità. Si riconosce che il valore della detassazione dei profitti, della deregolamentazione e delle potenziali concessioni della Cina superino i costi, ancora non chiari, dell’indebolimento delle istituzioni e dell’aumento del contenzioso commerciale, destinato ad avere code negative. Tuttavia, tra i maggiori sostenitori di Trump si cominciano a sollevare dubbi sugli effetti più a lungo termine, in ragione delle interconnessioni indotte dalla globalizzazione.
Molte imprese americane sono infatti parte integrante del global supply chain13, con la conseguenza che gli aumenti dei dazi alla Cina potranno comportare aumenti nei costi per le imprese americane che importano per le loro produzioni materie prime e componenti (ad esempio acciaio e alluminio e parti staccate in tali metalli), con un conseguente aumento dei prezzi al consumo o riducendone la competitività. C’è quindi una sovrapposizione, nelle misure di ritorsione americane, tra importazione e effetto sulle esportazioni, che ancora non è chiara soprattutto per la mancanza di compiute analisi da parte dello staff del segretario americano al Tesoro. Resta il fatto che il modo di Trump di introdurre un forte e incontrollato bilateralismo porta le lancette dell’orologio parecchio indietro nel tempo, a epoche storiche che sembravano definitivamente superate dall’avvento della nuova globalizzazione, che va oltre l’integrazione di mercato e coinvolge la finanza e i sistemi politici.
Un capitolo a parte è costituito dalle sanzioni cui il governo di Washington fa un grande e spesso inappropriato ricorso, che colpiscono a vario titolo la Russia – incluse quelle di più vecchia data, relative all’annessione della Crimea e alla rivolta della popolazione russofona nella regione ucraina del Donbass, che sarebbe stata “teleguidata” da Mosca. In particolare, le sanzioni che hanno colpito la Russia per l’“azione maligna o malvagia” che essa svolgerebbe nel mondo appaiono meramente strumentali e alla lunga potrebbero ritorcersi contro Washington, che si avvale, tra l’altro, dell’extra-territorialità di alcune sue leggi. Ciò ha peraltro provocato comprensibili reazioni, specialmente da parte dell’UE, e rischia di aprire nuovi fronti nella guerra commerciale, con un impatto negativo sui rapporti politici.
Il presidente Trump sembra ormai deciso ad affidarsi al suo istinto, negando competenze e capacità di giudizio a quelli che gli stanno intorno, salvo a quanti (e ora sono la maggior parte) la pensano come lui e sono in grado di tradurre le sue poco chiare intenzioni in atti concreti.
1.3 I gravi rischi dell’unilateralismo di Trump
Trump affronta temi delicati della realtà internazionale con preoccupante unilateralismo, abbandonando la consultazione con gli alleati, ai quali paradossalmente contesta una ridotta capacità di assunzione di rischi o richiede una più equa partecipazione ai costi della sicurezza (il cosiddetto burden sharing). Tutto ciò è contraddetto in realtà dai rischi che il suo stesso unilateralismo arreca agli alleati e dai possibili maggiori costi della sicurezza regionale derivanti dalle sue decisioni, quali il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico o il ritiro dall’accordo sui controlli al programma nucleare iraniano, approvato dopo un lungo negoziato nel 2015, dai cinque paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oltre a Germania e Iran.
Il riconoscimento unilaterale di Gerusalemme come capitale di Israele viola uno dei punti del negoziato di pace, così come recepito dalle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite, che raccoglieva le posizioni dei maggiori paesi occidentali. Con tale decisione, avversata dai partner europei, Trump ha assunto una posizione di parte, che va oltre la legge internazionale, fondata sulle risoluzioni dell’ONU che gli stessi Stati Uniti avevano approvato, e ha fatto venire meno il ruolo di mediatore di Washington, svolto sinora in stretto raccordo con i paesi alleati.
Quanto al ritiro dall’accordo sui controlli al programma nucleare iraniano, vale la pena precisare che il regime dei controlli esercitato dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) è il più severo mai applicato nel quadro della lotta contro la proliferazione nucleare. Non è apparso chiaro, dunque, su quali specifici elementi si sia basata la decisione di Trump.
Sembrerebbe allora che l’obiettivo principale del ritiro di Washington sia mettere pressione alle autorità di Teheran, per indurle a trattare i modi e i tempi di un loro disimpegno nella regione che agli Stati Uniti (ma forse di più a Israele e all’Arabia Saudita) appare come una delle maggiori cause dell’attuale instabilità. Sorge il sospetto che alla Casa Bianca ci sia qualcuno (lo stesso consigliere per la Sicurezza nazionale, Bolton?) che suggerisca a Trump di provocare un cambio di regime a Teheran, sulla scia della disastrosa decisione già adottata da George W. Bush per l’Iraq di Saddam Hussein, con le conseguenze che tutti conosciamo.
Di fatto, le condizioni poste all’Iran dal segretario di Stato Pompeo somigliano a quelle che si usa porre a un paese che abbia perso la guerra e debba trattare la propria resa, più che a controproposte in un negoziato normale (per quanto serrato). Nessuna meraviglia, dunque, che tali condizioni siano state sdegnosamente rigettate dall’Iran e che gli Stati Uniti siano usciti assai male da una contesa cominciata senza chiarezza e finita con spropositi massimalisti.
L’Iran non è il solo paese chiamato in causa in questa vertenza, che ha visto gli Stati Uniti agire in assoluta solitudine con il solo appoggio di Israele e Arabia Saudita. Infatti, la decisione americana sull’intesa nucleare, oltre alla re-introduzione delle sanzioni sospese in seguito agli impegni assunti da Teheran nel 2015, prevede anche sanzioni nei confronti delle imprese che intrattengono relazioni di affari con l’Iran. Tale decisione è destinata ad acuire le tensioni e il contenzioso con l’UE e con i singoli paesi membri, in quanto a soffrire delle sanzioni saranno soprattutto le imprese europee.
In effetti, l’UE ha provveduto a mettere in atto alcune contromisure sul finanziamento mediante crediti all’esportazione, prevalentemente prestiti della BEI e ha ripristinato i regolamenti di blocco introdotti nel 1996 in risposta alle sanzioni unilaterali americane a Iran, Libia e Cuba, che obbligano le imprese europee a ignorare le sanzioni, rimuovendo in tal modo la loro responsabilità nei confronti degli Stati Uniti. Altra contromisura è stata quella di impugnare le sanzioni davanti l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).
C’è al riguardo un interessante precedente storico del Regno Unito, che potrà servire a dare forza e sostegno all’azione avviata dall’UE. Si tratta della ritorsione decisa dal presidente Reagan alla legge marziale introdotta dalla Polonia nel 1981. In un primo momento, il...

Indice dei contenuti

  1. La marcia russa
  2. Indice
  3. Prefazione
  4. Introduzione
  5. Capitolo 1. Il contesto internazionale: gli Stati Uniti e la marcia di Putin
  6. Capitolo 2. Capire le lezioni della storia: i prodromi dell’ascesa di Putin al potere
  7. Capitolo 3. Chi ha paura di Vladimir Putin?
  8. Capitolo 4. Quanto conta Putin in Medioriente
  9. Conclusioni
  10. Postfazione