Manuale di autodifesa europeista
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Manuale di autodifesa europeista

Come rispondere alla sfida del sovranismo

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Manuale di autodifesa europeista

Come rispondere alla sfida del sovranismo

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Contestata, messa in discussione, attaccata dall'esterno da quanti desiderano dividerla e, dall'interno, da coloro che la vorrebbero più debole, mai prima di oggi l'Unione europea aveva affrontato una minaccia tanto grave alla sua stessa sopravvivenza. Se solo pochi anni fa entrare a far parte dell'UE era un'ambizione e un punto di arrivo per gli Stati che ne erano fuori, oggi le forze centrifughe – già vittoriose nel caso emblematico della Brexit – sembrano guadagnare sempre più credito popolare. Come si è arrivati a questa situazione? Come hanno fatto gli antieuropeisti a raggiungere un tale picco di consensi? In questo volume, che raccoglie e rielabora gli scritti pensati "in presa diretta", Sergio Fabbrini ripercorre gli ultimi, convulsi anni alla ricerca delle cause, e spesso degli errori, che hanno portato alla situazione attuale, ma anche della possibile ricetta attuando la quale l'Unione europea può recuperare e irrobustire quegli anticorpi riformisti che ne possono garantire la sopravvivenza e lo sviluppo.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788861054042

parte prima

Dopo Brexit:
la nuova divisione tra sovranismo ed europeismo
Questa parte raccoglie una selezione degli editoriali scritti tra il periodo successivo al referendum britannico del 23 giugno 2016 e il periodo successivo all’elezione di Emmanuel Macron alla presidenza francese nel maggio 2017. In questo periodo si sono definiti i termini del sovranismo e dell’europeismo. La nuova divisione tra sovranisti ed europeisti ha attraversato tutti i sistemi politici nazionali, mettendo in discussione i tradizionali schieramenti politici. La divisione è entrata all’interno delle istituzioni dell’UE, spingendo i leader politici a misurarsi con la nuova sfida di un’Europa a rischio di disintegrazione. A Roma, nel marzo 2017, in occasione della celebrazione per i 60 anni dell’UE, i capi di governo dei 27 Paesi sottoscrissero una Dichiarazione che ufficializzava la prospettiva dell’Unione a più velocità. Meritoriamente, tale Dichiarazione rilanciò la discussione sul futuro dell’Europa, stimolando la Commissione e i governi nazionali a uscire dalla trappola del breve periodo. Nello stesso tempo, però, quella Dichiarazione preservò l’ambiguità di un’idea di integrazione in cui tutti gli Stati europei vogliono marciare verso lo stesso fine. Ma così non è. Alcuni degli editoriali affrontano questo dibattito, criticando il sovranismo per la sua chiusura ma anche l’europeismo per la sua timidezza. Proponendo quindi l’unione federale come prospettiva per unire politicamente l’Europa (che vuole o ha bisogno di unirsi). Una prospettiva che può neutralizzare le rivendicazioni sovraniste promuovendo una chiara separazione tra le politiche (strategiche) che debbono essere gestite insieme e le altre politiche che debbono essere decise dagli elettori nazionali. Un’unione, non già uno Stato. L’unione federale riflette l’esperienza di federazioni per aggregazione di Stati precedentemente indipendenti, mentre lo Stato federale si forma dalla disaggregazione di uno Stato precedentemente unitario. Un’unione federale è un’organizzazione leggera, strutturata su separazioni multiple di poteri (tra gli Stati e il centro, tra le istituzioni di quest’ultimo). Lo Stato federale è invece un’organizzazione pesante, strutturata intorno a un centro che soprassiede sulle unità territoriali. L’europeismo deve abbandonare l’idea statalista per proporre un’unione politica al centro del continente. La visione unionista dell’Europa politica, garantendo il pluralismo di forme differenziate di integrazione, può contrastare la spinta centralista e anti-pluralista del sovranismo.
la visione federale contro il rischio disintegrazione
Brexit sta portando la Gran Bretagna all’anarchia (come ha scritto l’Economist), ma sta anche dividendo l’Unione europea. L’anarchia britannica è evidente, con le dimissioni in serie di leader politici e la confusione del Paese sulle strategie da perseguire per avviare l’uscita dall’UE. Ma evidenti sono anche le divisioni esplose nell’UE. Queste divisioni non coincidono con la semplice frattura tra europeisti e nazionalisti. Riflettono piuttosto combinazioni diverse di unione e nazione.
Una prima prospettiva sull’Europa del dopo Brexit è quella perseguita da Paesi (dell’Est europeo o del Nord scandinavo) che vogliono rimanere nel mercato comune a condizione che il suo funzionamento non metta in discussione le loro sovranità nazionali. Questa prospettiva si alimenta certamente dei sentimenti nazionalisti, ma non propone il semplice ritorno allo Stato nazionale del passato. L’idea è quella di trasformare l’UE in una comunità economica con limitate regolamentazioni sovranazionali. Dopotutto, contrariamente alla Gran Bretagna, nessuno di quei Paesi dispone di un centro finanziario globale come la City, o di una rete di relazioni economiche post-coloniali come il Commonwealth, o di università internazionali come Oxford e Cambridge. Per crescere, essi hanno bisogno del mercato europeo, dei finanziamenti europei, delle imprese europee, delle università europee. L’UE, insieme alla NATO, ha fornito loro una sicurezza economica e militare a cui non possono rinunciare. Tuttavia, seppure riconoscono la loro dipendenza dall’UE, non accettano che quest’ultima prenda decisioni che condizionino la loro politica interna. Quando ciò avviene, rivendicano il potere di nullificarle. L’Ungheria organizzerà un referendum il 2 ottobre prossimo sulla decisione dell’UE di collocare una quota di rifugiati politici nel suo territorio; la Repubblica Ceca e la Slovacchia hanno minacciato di fare altrettanto; la Polonia sta preparando azioni di ritorsione contro il Parlamento europeo e la Commissione europea che hanno criticato le sue scelte illiberali se non autoritarie; l’Austria ha rivendicato l’autonomia di decidere sulla chiusura delle proprie frontiere; la Danimarca e la Svezia continuano la loro politica di “opt-outs” di fatto dalle principali politiche decise a Bruxelles. Nel 1832 la Carolina del Sud approvò un Atto di Nullificazione contro l’applicazione (nello Stato) della legge sulle tariffe decisa dal Congresso federale. Fu il segnale della tempesta che si stava avvicinando sull’unione americana. Tempesta esplosa con la Guerra civile (1861-65). Questa prospettiva è tanto mobilitante sul piano politico quanto inconsistente su quello economico. Non può esistere un mercato comune senza regolamentazioni sovranazionali. Altrimenti bisogna accontentarsi di una zona di libero scambio senza fondi strutturali. Se si vuole la botte piena, è bene che la moglie non si ubriachi.
È di tipo intergovernativo la più vociferante alternativa alla prospettiva di un’UE intesa come pura organizzazione economica. In un’intervista rilasciata pochi giorni fa alla stampa tedesca (e riportata in Italia dal Corriere della Sera), il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble si candida, e candida il suo Paese, a essere il leader della coalizione che vuole fare dell’UE un’unione intergovernativa. Per i sostenitori di questa prospettiva (tradizionalmente la Francia, ma anche l’Olanda, la Finlandia, il Portogallo e, si pensi un po’, la Grecia) l’integrazione deve procedere (e non già arretrare) senza tuttavia rafforzare le istituzioni e gli attori sovranazionali. Dice Schäuble: “l’approccio intergovernativo si è dimostrato efficace durante la crisi dell’eurozona”. Dunque, seguiamo questo approccio e “se la Commissione non collabora, allora ci occuperemo noi delle questioni, risolvendo i problemi tra i governi”. La Germania comunitaria di Adenauer e Kohl è servita: basta con gli idealisti o con coloro che vogliono rafforzare le istituzioni comuni. Ma se a decidere sono i governi nazionali, chi li controlla? La risposta di Schäuble è impietosa: “la domanda se il Parlamento europeo abbia o meno un ruolo decisivo non è quella che preoccupa la gente”. Ma se i governi nazionali prendono decisioni a nome dell’UE, come può bastare la legittimazione individuale che ognuno di essi ha ricevuto dai rispettivi parlamenti nazionali? Per Schäuble la legittimazione è come un taxi, che parte da Berlino e giunge a Bruxelles. La prospettiva intergovernativa ha quindi trascinato con sé la visione interparlamentare. La decisione del Consiglio e della Commissione del 4 luglio scorso, di sottoporre all’approvazione di ben 38 camere legislative nazionali l’accordo commerciale concluso nel dicembre scorso con il Canada (il Comprehensive Economic and Trade Agreement o CETA), è la conseguenza di tutto ciò. Ma della prospettiva intergovernativa fa parte anche la proposta di affidare a un’agenzia indipendente (il cosiddetto European Fiscal Council) il controllo delle politiche fiscali degli Stati membri, sottraendo quel controllo alla Commissione che recentemente aveva cercato di rivendicare un ruolo autonomo nell’interpretazione dei trattati e dei patti. E così ne fa parte la proposta di istituire un ministro europeo delle finanze, scelto dai ministri nazionali che costituiscono l’Eurogruppo e responsabile solamente nei loro confronti. Un ministro incaricato di rappresentare, sulla base di un esclusivo mandato intergovernativo, i cittadini dell’intera Eurozona in organismi internazionali come il Fondo monetario internazionale. Quel ministro andrà periodicamente al Parlamento europeo per informarlo sulle scelte fatte. Ma quest’ultimo non avrà alcun potere di sanzione nei suoi confronti. Eppure, fior fiore di federalisti si sono entusiasmati all’idea di un ministro europeo delle finanze, senza rendersi conto del tranello in cui si infilavano. Oppure si sono entusiasmati all’idea del ruolo “europeo” dei parlamenti nazionali, senza rendersi conto che la conseguenza è un indebolimento del Parlamento europeo e la paralisi del sistema decisionale dell’UE (come sicuramente avverrà nel caso dell’accordo con il Canada). Per dirla fuori dai denti, l’unione intergovernativa di Schäuble è un’organizzazione in cui i governi e i parlamenti dei Paesi più forti dominano quelli dei Paesi più deboli. Una buona ricetta per la disintegrazione.
Non si può lasciare il futuro dell’Europa del dopo Brexit al confronto tra economicisti e intergovernativi. Mi rendo conto che il vento non gonfia più le vele della Commissione e del Parlamento europeo. Mi rendo conto anche che l’inerzia amministrativa dell’UE tenderà a ostacolare drammatici passi indietro. Eppure se non si sentirà la voce dei leader europei e nazionali con una visione federale, sarà difficile arrestare la disintegrazione.
10 luglio 2016
un’unione federale in un’Europa plurale
Il premier Renzi ha invitato la cancelliera Merkel e il presidente Hollande a un incontro a Ventotene per il prossimo 22 agosto. Ventotene è l’isola dove Altiero Spinelli e Ernesto Rossi elaborarono (nel giugno 1941) il “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Si tratta di una buona iniziativa? Sì, se il suo scopo è quello di preparare il terreno per il rilancio dell’integrazione europea. No, se invece il suo scopo è quello di consolidare un direttorio (di Germania, Francia e Italia) all’interno di una pericolante UE. Ogni direttorio, anche se vi fa parte l’Italia, è antitetico al progetto di unione tra eguali celebrato proprio dal “Manifesto di Ventotene”. Per questo motivo, a quell’incontro, sarebbe necessario che l’Italia andasse con un’idea sul futuro dell’Europa. Un’idea che sia coerente con lo spirito di quel Manifesto, ma che tenga presente i cambiamenti intervenuti nel nostro continente nei successivi 80 anni. Cambiamenti che hanno portato alla crisi del progetto di integrazione e di cui Brexit è l’epitome. Per fare ciò occorre un approccio politico che ridefinisca in modo nuovo la narrativa, le politiche e le istituzioni dell’Europa di domani.
Cominciano dalla narrativa. All’inizio, il progetto di integrazione venne giustificato da un’aspirazione inequivocabile: “basta con le guerre tra gli Stati europei”. Si ritenne anche che la pace (garantita dalla NATO) sarebbe stata tanto più al sicuro quanto più fosse stata sostenuta dal benessere economico, dal welfare sociale e dalle libertà politiche (promosse dall’UE). Su queste basi si è proceduto all’integrazione, prima, dei Paesi dell’Europa occidentale e, poi, dei Paesi dell’Europa meridionale e orientale. L’UE è stata però sconfitta dal suo successo. La teleologia di uno sviluppo inevitabile verso gli Stati Uniti d’Europa è stata drammaticamente smentita dall’esito del referendum britannico del 23 giugno scorso. L’allargamento a quasi tutti i Paesi del continente ha aumentato la disomogeneità, in termini di prospettive e condizioni, tra i suoi Stati membri. Che ci piaccia o meno, l’Europa è un continente plurale, dove Paesi con storie e identità diverse interpretano diversamente le necessità della cooperazione transnazionale. L’Europa plurale richiede l’elaborazione di una narrativa diversa dal passato. Una narrativa che preservi e rafforzi ciò che abbiamo in comune (l’alleanza militare e il mercato unico), ma che riconosca le prospettive che ci differenziano. In particolare tra i Paesi che hanno una visione esclusivamente economica e i Paesi che hanno o sono costretti a perseguire una visione politica dell’integrazione. Narrative diverse che, tuttavia, dovranno svilupparsi all’interno di una condivisa cultura liberale del mercato aperto e dello Stato di diritto.
Passiamo ora alle politiche. Se l’Europa è plurale, allora occorre riconoscere che ci sono Paesi che vogliono o hanno bisogno di andare verso l’unione politica e Paesi che vogliono ritornare a essere la comunità economica precedente al Trattato di Maastricht del 1992. Le politiche comuni da perseguire nella seconda non possono essere le stesse della prima. Per quanto riguarda la comunità economica, la base deve essere l’Atto unico europeo del 1986 arricchito di quelle politiche che si sono rivelate necessarie per il funzionamento di un mercato aperto e competitivo. Una comunità economica richiede una politica della competizione ma non richiede l’adozione di una politica estera o di sicurezza comuni, né richiede una comune politica dell’ordine interno o della immigrazione. Non richiede neppure una singola politica monetaria, una volta stabiliti rapporti di scambio equilibrati tra diversi regimi valutari. Per quanto riguarda invece l’unione politica, la sfida è molto più complessa. Non solo perché occorrerà stabilire le condizioni della partecipazione dell’unione politica e dei suoi membri al mercato unico. Ma anche perché qui si tratta di costruire un sistema costituzionalmente anti-centralistico, cioè un’unione federale e non già uno Stato federale. Un’unione federale non implica, di per sé, il trasferimento della sovranità dagli Stati al centro. Piuttosto essa si basa su una separazione della sovranità, distinguendo tra le politiche e risorse nazionali e le (poche e limitate) politiche e risorse condivise a livello sovranazionale. L’unione politica dovrà avere una sua politica della sicurezza e della difesa (con una sua capacità militare e di intelligence), una sua politica dell’ordine e della giustizia, una sua politica dell’immigrazione e del controllo delle sue frontiere. E ovviamente dovrà avere una sua moneta, collegata a una politica di bilancio sostenuta da risorse fiscali proprie e non trasferite dagli Stati membri. In queste politiche, l’autorità centrale non è delegata dagli Stati, né le risorse per gestire le sue competenze sono trasferite da questi ultimi. La convergenza economica tra i suoi Stati membri è auspicabile, ma non è la condizione indispensabile per l’esistenza dell’unione. Uno Stato membro può fallire senza mettere in discussione l’intera unione, se quest’ultima dispone di una capacità fiscale autonoma e di istituzioni di governo per perseguire politiche anti-cicliche, se ciò è il volere dei cittadini che le legittimano elettoralmente.
Vediamo infine le istituzioni. Se è vero che l’UE è divisa al suo interno tra Paesi con una visione politica e altri con una visione economica dell’integrazione, allora è poco plausibile ritenere che essi possano condividere lo stesso impianto istituzionale. Se si vuole disintegrare e integrare nello stesso tempo, allora occorrerà creare due ordini istituzionali distinti. Certamente, una comunità economica richiederà anch’essa l’esistenza di organismi sovranazionali che garantiscano il rispetto delle fondamentali quattro libertà economiche in tutti i Paesi che vi partecipano. Tuttavia, si tratta di organismi leggeri e con funzioni delimitate. Invece, per quanto riguarda l’unione politica, occorrerà andare oltre il Trattato di Lisbona del 2009 e i trattati intergovernativi approvati successivamente. Qui, sì, che la finalità dell’unione sempre più stretta deve essere condivisa da chi ne vuole far parte. Qui, sì, che le istituzioni debbono avere una legittimazione democratica. Qui, sì, che la separazione tra istituzioni esecutive (legittimate a prendere decisioni nelle politiche di propria competenza) e legislative (legittimate ad approvare o meno quelle decisioni) deve essere costituzionalizzata. Non può essere come avviene oggi in cui, in particolare nell’Eurozona, il Consiglio europeo dei capi di governo prende decisioni a nome dell’Unione, nonostante i suoi membri siano legittimati esclusivamente dal proprio elettorato nazionale. Non può stupire che, sotto la pressione della crisi, quelle decisioni siano state imposte dai Paesi più forti (e dalla Germania in particolare). È bene ricordare l’esperienza del secondo Reich tedesco (1870-1918). Quest’ultimo, nonostante fosse una confederazione di 25 Stati sovrani ma essendo privo di organismi centrali legittimi, venne di fatto dominato dallo Stato più forte, la Prussia. Tant’è che il cancelliere e l’imperatore di quest’ultima erano anche il cancelliere e l’imperatore del Reich. Per evitare che il cancelliere tedesco divenga anche il capo dell’Unione, occorre ritornare a Montesquieu (1689-1755), secondo il quale la confusione dei poteri produce inevitabilmente rapporti di dominio. Occorre identificare un potere esecutivo e, contemporaneamente, un separato potere legislativo con cui controllarlo. In un’unione di Stati e di cittadini, quel potere esecutivo, seppure unitario, dovrà avere due teste, una che emergerà dai governi nazionali e l’altra dalla maggioranza del legislativo. La competizione tra le due teste stabilirà poi chi sarà il leader legittimato a prendere decisioni (che il legislativo dovrà poi approvare) a nome dell’intero organismo. Se un’unione federale, contrariamente a uno Stato federale, non potrà essere centralizzata, nondimeno i cittadini dovranno avere la possibilità di incidere sulle decisioni delle sue autorità politiche, partecipando sia alla scelta del suo potere esecutivo che alla formazione di quello legislativo. Insomma, in un’unione politica, non può esserci posto per un direttorio (seppure allargato). La costruzione di un’Europa plurale richiederà creatività, intelligenza e leadership. L’incontro di Ventotene può essere utile per iniziare il percorso. Sarebbe anche necessario che i sei Paesi fondatori dell’UE concordassero una dichiarazione di intenti sulle caratteristiche di un’Europa plurale. La celebrazione per i 60 anni dei Trattati di Roma, il prossimo 25 marzo 2017, potrebbe essere l’occasione per far partire un progetto di integrazione adeguato alla complessità dell’Europa di oggi, eppure coerente con lo spirito del “Manifesto di Ventotene” di 80 anni fa.
7 agosto 2016
ma la merkel vuole tornare all’europa di bismark?
Sotto l’incalzare delle crisi, l’Unione europea si sta trasformando da un’unione sovranazionale di Stati in un’associazione volontaria di governi, controllata (se non dominata) dal governo dello Stato più grande. Mi spiego perché. Chi dovrebbe decidere cosa fare nei confronti del Regno Unito o come affrontare la crisi migratoria o come rilanciare la crescita economica o come garantire la sicurezza dei cittadini europei? In teoria, la risposta è semplice: le decisioni dovrebbero essere promosse dai leader a capo delle istituzioni esecutive comuni (a partire dai presidenti del Consiglio europeo dei capi di governo Donald Tusk e della Commissione europea Jean-Claude Juncker), sotto il controllo delle istituzioni legislative comuni (come il Parlamento europeo e il Consiglio dei ministri). Quei leader e quelle istituzioni sono legittimati dai Trattati, a loro volta approvati da ogni Stato membro dell’UE. In realtà, però, le cose non stanno così. Le decisioni sulle politiche strategiche (quelle connesse alle sovranità nazionali, tra cui la politica economica, la politica della sicurezza, la politica migratoria e dell’ordine interno ovvero quelle sul futuro dell’UE nel dopo Brexit) sono promosse dal capo di governo del Paese più grande dell’UE, la cancelliera tedesca Angela Merkel. Uno sviluppo preoccupante. Non solo perché la legittimità di quest’ultima proviene esclusivamente dalla legge fondamentale (o costituzione) del suo Paese, ma anche perché ciò porta a uno svuotamento inevitabile delle istituzioni e dei processi decisionali comunitari.
Vediamo i fatti. Il prossimo 16 settembre si terrà una riunione, informale ma molto importante, dei capi di governo del Consiglio europeo per discutere la posizione che l’UE dovrà tenere nei confronti del Regno Unito. Tale questione si intreccerà con altri temi cruciali, come la politica migratoria, della sicurezza e della crescita. Bene. Chi ha preso l’iniziativa per preparare quella riunione? Secondo i Trattati spetterebbe farlo a Tusk e a Juncker, operando da Bruxelles come sede delle istituzioni europee. Ma così non è avvenuto. L’iniziativa è stata infatti assunta unilateralmente dalla cancelliera tedesca. La settimana che si è appena conclusa ha visto Angela Merkel impegnata in un vero e proprio tour de force politico. Lunedì ha incontrato a Ventotene Renzi e Hollande. Mercoledì i ...

Indice dei contenuti

  1. Manuale di autodifesa europeista
  2. Indice
  3. Premessa di Fabio Tamburini
  4. Prefazione di Sabino Cassese
  5. Introduzione. Capire l’Unione per difenderla
  6. Parte Prima. Dopo Brexit: la nuova divisione tra sovranismo ed europeismo
  7. Parte Seconda. L’ascesa del sovranismo in Italia: dalle elezioni al governo
  8. Parte Terza. Il sovranismo al governo: l’Italia e la resilienza europea
  9. Conclusione. Difendere l’Unione per riformarla