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Whistleblowing e hacking nell'età senza segreti

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Whistleblowing e hacking nell'età senza segreti

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Il caso WikiLeaks, esploso pochi anni fa, e i numerosi casi di whistleblowing che continuano a essere al centro delle cronache, non hanno svelato al pubblico solo segreti militari e politici, ma l'esistenza stessa di questioni cruciali per l'intera società: che rapporto c'è tra informazione e potere? E chi lo detiene nell'era della disintermediazione apparente, dove sembra che nulla possa essere tenuto nascosto, e il concetto di verità è sempre più sfuggente? Questo libro ripercorre le vicende di Julian Assange, Chelsea Manning e Edward Snowden, fino al recente scandalo di Cambridge Analytica e dello sfruttamento illecito di milioni di dati personali di Facebook, mostrando come essi abbiano caratterizzato alcuni tra i maggiori dibattiti in corso sulla società interconnessa e il ruolo della rete entro i suoi confini. Leaks, attraverso il racconto dei fatti di cronaca, mostra come i concetti di trasparenza, privacy e libertà d'informazione siano cruciali per la sopravvivenza di una società aperta e democratica.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788861054202

Capitolo 1

Introduzione
Una certa idea di Internet
Nel 2016 lo studioso olandese Geert Lovink ha annunciato la fine dell’era dei social media. A causarne la conclusione, a suo dire, le rivelazioni del whistleblower Edward Snowden che, a partire dal giugno del 2013, avevano iniziato a portare all’attenzione dell’opinione pubblica e sulle prime pagine dei giornali, prove alla mano, la vastità delle attività di sorveglianza su Internet e le telecomunicazioni (digitali e non) da parte della National Security Agency (NSA) statunitense e delle sue omologhe nei Paesi politicamente più vicini agli Stati Uniti. Secondo Lovink, la portata di quel leak1 fu tale da minare dalle fondamenta gli assunti ritenuti più comuni e accettati sul web, e sulle grandi piattaforme social che ne dominano l’attuale fase evolutiva, come luogo e vettore esclusivo di libertà, connessione e principi democratici. Lovink, mentre lavorava al suo libro L’abisso dei social media (2016), non poteva sapere che nel 2016 e poi nel 2018 altri due cicloni si sarebbero abbattuti sulle credenze più ottimistiche della rete: il dibattito sulle “fake news”, scaturito con la vittoria di Trump e l’esito del referendum sulla Brexit e il caso Cambridge Analytica. In entrambe le circostanze si è assistito a un radicale cambio di prospettiva complessivo nei confronti delle presunte potenzialità della rete e del suo ruolo nelle dinamiche democratiche ed è sembrato improvvisamente di trovarsi in una distopia perfettamente strutturata, dopo che a essere predominanti, invece, erano stati toni ottimistici, positivisti, rasserenanti. Non è questo il contesto per valutare nel dettaglio l’effettiva veridicità e sostenibilità di questi più recenti discorsi pubblici nei confronti della rete, ma a essere innegabile è che il biennio 2016-2018 ha certamente portato all’emersione di quello che si potrebbe definire un “critical turn” nei confronti della rete e del digitale nel complesso (Balbi, 2018).
Ancora una volta, però, quel dibattito si è immediatamente polarizzato ed è stato conseguentemente banalizzato e svilito a rivisitazione della schermaglia tra “apocalittici e integrati” (Eco, 1964) perdendo presto di vista il potenziale di riflessione che avrebbe potuto generare. Il caso Cambridge Analytica, in particolare, è stato per lo più trattato dai media in modo superficiale ed esagerato (Baekdal, 2018) e non con il frame, più corretto, di caso certamente emblematico ma non unico nel più complesso e ampio scenario degli abusi insiti nel modello di business del “capitalismo della sorveglianza” (Zuboff, 2015) che lega tutte le grandi piattaforme online e il modo in cui queste monetizzano i dati e la profilazione dei loro utenti. Allo stesso modo, un anno prima, la questione “fake news” è diventata presto un tema principalmente politico e utilizzato dalla politica come argomento di campagna elettorale da usare come arma o accusa contro i propri avversari politici. Così facendo si è però persa presto la più ampia connotazione di dibattito sulla qualità dell’informazione e del giornalismo che sembrava stesse assumendo all’inizio. In questo caso, il tema “fake news” è diventato velocemente un ombrello critico omnicomprensivo sotto il quale inserire diverse discussioni su temi affini, ma molto diversi se analizzati con maggiore attenzione e profondità, spesso con toni eccessivamente o forzatamente apocalittici per i quali la famigerata era della “post-truth” (McIntyre, 2018) sarebbe stata innescata da e a causa di Internet o dai social media. Inoltre, quella discussione è stata innescata senza che vi fosse stata un’accettazione ampia di cosa si dovesse definire come una “fake news” (Jacomella, 2017). Il risultato è stato quindi un dibattito, specialmente nel contesto italiano, poco informato, confuso, politicizzato, chino a giungere a soluzione semplici e ben poco basato su dati di ricerca che, al contrario, tendevano a smussare alcuni lati emergenziali della questione, come emerso dallo studio condotto dai ricercatori del Reuters Institute for the Study of Journalism dell’Università di Oxford sulla portata, in termini di audience, di siti specializzati nella pubblicazione di notizie espressamente false in Francia e Italia (Fletcher et al., 2018). In un certo senso l’occasione persa del dibattito sulle “fake news” ha fatto da trampolino di lancio per quella successiva sul caso Cambridge Analytica che, per via del coinvolgimento della campagna di Trump come cliente dell’azienda e dei suoi servizi di profilazione “psychographic”, si è a sua volta focalizzato maggiormente sulle sue implicazioni politiche. Se da un lato sarebbe incorretto sottovalutare i due casi e sminuirne la portata, dall’altro è altrettanto vero che si è trattato di due occasioni clamorosamente perse per un dibattito costruttivo e non ideologico sulle “cose di Internet” e il loro impatto sulle vite dei cittadini e il futuro stesso della rete.
Quello che si nota, però, è un effettivo cambio di direzione e tono nel modo del dibattito pubblico complessivo attorno a Internet: è impossibile non notare che, a livello complessivo, ci sia stato un percepibile cambio di rotta. Guardandosi indietro di qualche anno, e portando l’attenzione ai tardi anni 2000 e ai primi del decennio successivo, è facile vedere come, al contrario, ci fosse un clima culturale più ottimista nei confronti di tutto ciò che fosse online o digitale. In particolare negli anni della rapida crescita dei colossi della Silicon Valley che, poco alla volta, sono diventati i massimi poteri digitali di Internet, era molto più difficile incontrare voci intellettuali in controtendenza con il clima quasi egemonico di complessiva cieca fiducia nei confronti di quello che in quel momento si era ancora soliti chiamare “web 2.0”. Quel “cambiamento epocale” previsto, ad esempio, da Clay Shirky (2009, p. 227) è stato forse abbracciato senza il dovuto spirito critico – che non corrisponde necessariamente a pessimismo o catastrofismo – e auspicato con eccessivo ottimismo, omettendo dal discorso pubblico temi poi diventati, progressivamente, di dominio sempre più pubblico: quello della sorveglianza, della privacy online, delle spinte monopoliste delle piattaforme, della possibilità della loro “weaponization” e simili. “Chiunque desideri la prosperità economica, il rispetto dei diritti umani, la giustizia sociale, l’istruzione e l’autodeterminazione deve riflettere su come la connettività può aiutarci a raggiungere questi obiettivi e anche ad andare oltre”, scrivevano, ad esempio, Eric Schmidt e Jared Cohen (2013, p. 325), rispettivamente amministratore delegato di Google e direttore di Google Ideas nel loro bestseller a quattro mani La nuova era digitale. Se è ovvio e palese che Internet abbia certamente portato una serie vastissima di benefici e miglioramenti alla società, ai servizi, alla cultura e via discorrendo, contrariamente alla vox populi e giornalistica per la quale “fake news” e Cambridge Analytica sarebbero la dimostrazione del contrario, è altrettanto vero che punti di vista acritici come quello di Schmidt e Cohen sono diventati presto egemonici e hanno messo all’angolo ogni possibilità di dibattito e contronarrativa. Lo studioso bielorusso Evgeny Morozov, uno dei primi e più coerenti critici della cultura della Silicon Valley, ha parlato espressamente di “soluzionismo” nel definire quella tendenza intellettuale per la quale la tecnologia sarebbe di per sé e spassionatamente la risposta ai più vari e complessi quesiti “pubblici”, anche al costo di mettere da parte ogni possibile conflitto ideologico o sociale. Morozov ha parlato anche di “Internet-centrismo” come base culturale di quella tendenza, un’idea per quale la rete sarebbe una forza stabile e monolitica capace di dominare qualsiasi ambito della società contemporanea e in grado, persino, di forgiare la realtà a seconda delle sue proprie caratteristiche sulla base “dell’incrollabile convinzione che stiamo vivendo un’epoca rivoluzionaria senza precedenti, in cui le vecchie verità non reggono più, dove tutto sta subendo profondi cambiamenti, e il bisogno di sistemare le cose è quanto mai sentito” (Morozov, 2014, p. 27). Per diversi anni è stato questo l’approccio sostanzialmente egemone nel dibattito attorno alla rete. Il 2011, in particolare, è stato l’anno più simbolicamente interessante per descrivere cosa sia cambiato nell’approccio alla rete e al suo peso nella società oggi. Forse estremizzando e semplificando eccessivamente le opinioni in gioco, il 2011 è stato l’“anno sognato pericolosamente” come lo ha definito il filosofo Slavoj Žižek (2013). Quell’anno, il dibattito pubblico ottimista sulle potenzialità di Internet ha forse toccato il suo apice con la certezza, espressa da più parti, che le potenzialità dei social media come Facebook e Twitter avessero di per sé causato le rivolte pro-democrazia del 2009 in Iran e le Primavere arabe e che, di conseguenza, sarebbe stata Internet, nella sua versione 2.0, a sconfiggere varie forme di autoritarismo a ogni latitudine del pianeta. Anche in quel caso, seppur sia impossibile negare un apporto e un sostegno palese oltre che un elemento di novità portato da quelle piattaforme digitali nel contesto delle proteste, l’utopismo dell’Internet-centrismo aveva visto “il web come un coltellino svizzero, buono per qualsiasi necessità” e, di conseguenza, era stato miope nel vedere conseguenze come “i buchi neri informativi creati dalla rete, gli apparati di sorveglianza che crescono come funghi grazie alla natura pubblica dei social network e alla persistenza della fabbricazione di miti e della propaganda” (Morozov, 2011, p. 298). Alcuni stessi attivisti che avevano partecipato alle proteste in Egitto hanno certamente confermato il ruolo fondamentale dal punto di vista logistico e organizzativo delle piattaforme, ma hanno ridimensionato il loro ruolo di fattore determinante delle rivolte e della spinta pro-democrazia, per altro poi svilita nelle evoluzioni politiche dei Paesi attraversati dalle proteste del 2011 (Shearlaw, 2016). Inoltre, le analisi in tutto incentrate sulla tecnologia come motivo scaturente delle rivolte non trovano riscontri dai dati di diffusione delle stesse tecnologie e sono spurie se non accompagnate dall’osservazione delle specifiche condizioni politiche e di contesto dei singoli Paesi (Curran, 2012).
Come scrive Christian Fuchs (2011, pp. 290-291), in realtà, “il web 2.0 ha potenziali contraddittori e dialettici per la società, sia positivi (come l’avanzamento della società civile, del discorso pubblico, dell’utilizzo “prosumer” dei media da parte delle masse, forme di educazione più aperte, discorsive e i commons come nuovo modello di ownership democratica), che negativi (come l’appropriazione commerciale del web 2.0, i vari digital divide e altre forme di esclusione, lo sfruttamento dei prosumer di Internet, la frammentazione della sfera pubblica e la creazione di una élite online) che si contraddicono e si usurpano a vicenda”. Negli anni, almeno fino al “critical turn” del 2016 cui facevamo riferimento poc’anzi, a dominare il discorso pubblico è stata quindi una visione eccessivamente determinista, che ha spinto l’analisi del fenomeno in un territorio in cui a essere sovrastimato è stato il ruolo della tecnologia nella società. Il determinismo tecnologico, di cui tutta l’ideologia della Silicon Valley è profondamente intrisa, “ignora il fatto che la tecnologia è embedded nella società e che non è la tecnologia, ma gli esseri umani che vivono sotto le relazioni di potere e si ribellano contro di esse, a creare le rivoluzioni e le proteste” (Fuchs, 2017, pp. 254-255). Quello cui si è assistito, nel passaggio tra la dimensione puramente ottimista a quella puramente pessimista nel dibattito su Internet, è analizzabile alla luce di quello che il sociologo Vincent Mosco ha definito come “sublime digitale” per identificare la tendenza a estremizzare le potenzialità della tecnologia in toni mistici se non quasi religiosi, sia in senso positivo che negativo. “Il ciberspazio”, ha scritto Mosco a questo proposito, “è diventata l’ultima icona del sublime tecnologico ed elettronico, elogiato per le sue caratteristiche epocali e trascendentali e demonizzato per la profondità del male che può evocare” (Mosco, 2004, p. 24). Anche lo scrittore di fantascienza Bruce Sterling, già nel 2002, aveva toccato il tasto del “sublime tecnologico” nella sua raccolta di saggi Tomorrow Now, concentrandosi sui suoi effetti quasi religiosi: “Cos’è il ‘sublime tecnologico’ e perché ci fa andare in deliquio? […] Perché è la proiezione di un bisogno spirituale di trascendenza su di un hardware meccanico […] Il sublime è uno spettacolo liberatorio che solleva lo spirito umano fino a vette di immaginazione esaltata” (Sterling, 2004). Nei loro scritti, sia Mosco che Sterling si riferivano a una fase storica precedente a quella discussa qui, quella degli anni Novanta se possibile ancora più positivista, ma la traccia del “sublime” come approccio alla tecnologia sembra essere tornata in superficie anche nel passaggio storico 2011-2016, offuscando forse le possibilità di un dibattito laico e non enfatico sugli impatti sociali della rete.
Internet, in realtà, ha sempre avuto in sé una doppia anima di liberazione e di oppressione, intrecciate tra di loro e capaci di alimentarsi a seconda delle applicazioni che la tecnologia ha trovato nelle diverse società in cui è stata utilizzata. Il sociologo David Lyon, il massimo teorico della società sorvegliata, ha scritto che questa doppia anima è visibile sin dalle origini tecnico-politiche della rete: “iniziamo dal considerare le alte speranze e le realtà recalcitranti da cui ha avuto origine Internet: era il prodotto sia della retorica della Guerra fredda e dei sogni democratici di qualche entusiasta dei computer” (Lyon, 2015a, p. 46). Cosa è successo, scrive sempre Lyon, a quei sogni utopici scaturiti sin dagli anni Ottanta a veri albori della rete? La risposta, per lo studioso canadese è semplice: hanno intercettato correttamente le possibilità di liberazione e di democratizzazione offerte dalle nuove tecnologie, ma hanno fallito nel prestare sufficiente attenzione ai fattori politici ed economici già esistenti che stavano influenzando da subito lo sviluppo della tecnologia. Come abbiamo detto in precedenza, queste tendenze hanno accompagnato lo sviluppo della rete e delle tecnologie digitali sin dai loro albori e sono tornate in superficie negli ultimi anni, forse con ancora più forza e visibilità nel dibattito pubblico. Quello che è avvenuto più di recente, però, è stata la maggiore partecipazione dell’opinione pubblica, grazie a una connotazione più “politica” e meno specialistica assunta da quella dicotomia. La ragione di questo è da cercarsi in alcune occasioni di riflessione scaturite da fatti di cronaca fortemente mediatizzati che hanno catturato l’opinione pubblica, allargando quel dibattito al di là della cerchia dei soli addetti ai lavori o del mondo giornalistico. Quello che era materia da accademici, policy maker, ricercatori, hacker e giornalisti è diventato improvvisamente – e finalmente – uno dei dibattiti più cruciali per comprendere la società contemporanea e le sue contraddizioni. I temi della tecnologia e del digitale sono diventati eminentemente politici, nel senso più ampio possibile del termine.
La faglia tra utopia e distopia
La lotta tra le due tendenze che abbiamo qui cercato di sottolineare non è però scaturita senza momenti di conflitto o senza il contributo di momenti di svolta, archetipici e in grado di raccogliere attorno a sé l’attenzione dell’opinione pubblica. Da un punto di vista più meta, queste occasioni hanno rappresentato momenti cruciali di riflessione della società contemporanea nei confronti di sé stessa e di alcuni dei suoi elementi più caratterizzanti. In questi anni quella che il filosofo Luciano Floridi (2012) chiama la “società dell’informazione” all’apice della sua stessa digitalizzazione ha dovuto più volte mettersi in discussione e cercare di ristabilire l’equilibrio tra la tendenza utopica e quella distopica della propria interpretazione per cercare di darsi un senso. Gli studi di caso inclusi in questo volume si caratterizzano come occasioni in cui i temi del digitale, di Internet e gli altri ad essi connessi hanno ottenuto l’attenzione del grande pubblico e della politica. L’ascesa (e caduta) di WikiLeaks e Julian Assange, la storia della sua più importante fonte, Chelsea Manning, come quella di Edward Snowden, il whistleblower all’origine delle rivelazioni sulla sorveglianza di massa degli Stati Uniti e dei suoi alleati e il caso Cambridge Analytica, possono essere considerati come alcuni tra i più importanti momenti della storia recente di Internet e tra le più palesi manifestazioni del suo impatto su vari settori della società. Quello che appare chiaro, anche a breve distanza cronologica dagli eventi stessi, è che queste occasioni hanno marcato un ingresso importante di elementi politico-economici, oltre che sociali, alla discussione attorno alla rete o hanno portato quei dibattiti all’interno dei confini di settori che normalmente facevano capo principalmente all’economia-politica. A essere stata superata è quindi forse la credenza che Internet abbia “superpoteri” che possono tenerla lontana da quei territori (McChesney, 2013, p. 15) o ancora che la digitalizzazione avesse creato un mondo a sé, il “cyberspazio”, senza confini dove non vi fosse spazio per la diplomazia o la “realpolitik” (Morozov, 2016, p. 94).
Il caso Snowden in particolare ha contribuito, fornendo elementi di evidenza sostanziali e di prima mano, alla comprensione delle potenzialità di Internet come strumento di controllo anche per i governi democratici. Le rivelazioni di Snowden, emerse tramite l’operato della stampa, hanno portato il tema della sorveglianza fuori dai surveillance studies e dalla cerchia degli esperti di information security, diventando di fatto mainstream, facendo scaturire un dibattito senza precedenti. Chelsea Manning, con ogni probabilità l’archetipo del whistleblowing per la sua generazione, ha dimostrato le potenzialità di Internet come strumento effettivo di “dissidenza digitale” e di azione sociale (Ziccardi, 2013, pp. 73-123). La parabola di WikiLeaks nel corso dei suoi primi dodici anni è invece paradigmatica delle potenzialità delle tecnologie digitali e della sicurezza informatica come strumenti di “liberation technology” (Diamond, 2010) utili al giornalismo e all’attivismo digitale e, allo stesso tempo, emblematica nel mostrare i rischi connessi a una loro potenziale “weaponization” – la loro trasformazione in strumenti e tattiche con altri fini – come emerso con il coinvolgimento di WikiLeaks nella diffusione dei materiali sottratti nelle operazioni di hackeraggio nel contesto delle elezioni USA del 2016, un fenomeno comunicativo-politico sempre più frequente e che la ricercatrice Gabriella Coleman ha definito come “public interest hack” (2017).2 Come anticipato prima, invece, l’esplosione del caso Cambridge Analytica, ha disvelato – con un’evidenza fattuale prima non disponibile – un caso plateale di abuso nell’utilizzo dei dati personali degli utenti di Internet, contribuendo alla comprensione dei meccanismi che sorreggono l’economia della rete in questa fase storica e sui modi in cui i dati personali online possano essere oggetto di abuso. Tutti questi casi sono stati fortemente mediatizzati e hanno avuto negli organi di stampa i loro canali di diffusione. Ad assimilarli, oltre al fatto di coinvolgere direttamente temi di ambito mediatico e comunicativo, è il fatto di avere nel whistleblowing la loro origine e ambito di riferimento. Il whistleblowing, di cui tratteremo più diffusamente nella prossima sezione, è una pratica che di certo non è nata con WikiLeaks o Snowden ma che si intreccia con il giornalismo e l’attivismo politico sin dai loro albori. Negli ultimi otto anni ha assunto però una rilevanza ancora più forte e un peso specifico maggiore nell’indirizzare il dibattito pubblico su questi temi, come in altri settori.
Il whistleblowing e la sua incidenza nella società connessa
“Il governo si è dato dei poteri cui non ha diritto. Non c’è controllo pubblico e il risultato è che persone come me hanno la possibilità di andare oltre quello che è concesso loro” ha detto Edward Snowden in occasione della sua prima intervista con il Guardian, nel momento in cui decise di uscire allo scoperto come il whistleblower fonte dello scandalo sulla sorveglianza di massa della National Security Agency (NSA) statunitense, scoppiato pochi giorni prima (Greenwald et al., 2013). Un concetto, in particolare, è molto importante al fine di comprendere fino in fondo il ruolo che il whistleblowing gioca nell’architettura della democrazia e del giornalismo: “supervisione pubblica” (“public oversight” nell’originale inglese). In quanto persone interessate a rivelare potenziali illeciti in pubblico, i whistleblower si sono spesso intrecciati con il giornalismo e i media come canali potenziali per le loro rivelazioni. La relazione tra un whistleblower che decide di diventare una fonte e il giornalista con cui si interfaccia può essere una classica win-win situation per entrambe le parti coinvolte: da un lato il whistleblower può portare documenti inediti o...

Indice dei contenuti

  1. Leaks
  2. Indice
  3. Nota editoriale
  4. Prefazione
  5. Ringraziamenti
  6. Capitolo 1. Introduzione
  7. Capitolo 2. Chelsea Manning
  8. Capitolo 3. WikiLeaks e Julian Assange
  9. Capitolo 4. Edward Snowden
  10. Capitolo 5. Appendice: Cambridge Analytica
  11. Conclusioni
  12. Bibliografia