Un posto nel mondo. Donne e migranti e pratiche di scrittura
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Un posto nel mondo. Donne e migranti e pratiche di scrittura

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Un posto nel mondo. Donne e migranti e pratiche di scrittura

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L’intreccio tra la migrazione in Italia e la pratica della scrittura letteraria in lingua italiana accomuna le donne le cui storie, raccolte in lunghe interviste biografiche, sono presentate e analizzate in questo volume.
La migrazione può configurarsi come esperienza di sradicamento e di solitudine, anche in ragione delle forme di esclusione attive nella società d’approdo. Ma la pratica della scrittura, nella nuova lingua, può essere strumento attraverso il quale costruire nuove appartenenze e sentire di poter avere, ancora, «un posto nel mondo», come afferma una delle donne intervistate.
Le biografie raccolte mettono in crisi l’immaginario egemonico sulle “donne migranti”, popolato da stereotipi in cui si intersecano assunti razzisti, sessisti ed eurocentrici. L’esperienza della scrittura in migrazione viene interpretata e discussa come una pratica di soggettivazione, una pratica cioè attraverso la quale le donne migranti cessano di essere soggetti narrati e si rendono soggetti narranti, potendo così contribuire a ri-nominare e ri-significare i processi di costruzione e reificazione dell’alterità. «Questo è un libro in cui la sociologia è vivente. Promuove e articola la percezione di uno scarto fra le esperienze di chi questo mondo lo abita e i modi in cui le narrazioni più correnti le deformano. Promuove e articola curiosità e critica. È un libro molto bello. Io spero che lo leggano in tanti».
Dalla Prefazione di Paolo Jedlowski

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788868228033
Categoria
Sociologia

1. Migrazioni. Un laboratorio narrativo

The answer to the problem between the white race and the colored, between males and females,
lies in healing the split that originates in the very foundation of our lives, our culture, our languages, our thoughts.
A massive uprooting of dualistic thinking in the individual and collective consciousness is the beginning for a long struggle, but one that could, in our best hopes,
bring us to the end of rape, of violence, of war.
G. Anzaldúa, Borderlands. La frontera.
The new mestiza
(1987)

Spazio-tempo postcoloniale: continuità e rotture

I processi migratori pongono l’Europa di fronte a una serie di ambivalenze intrinseche alla propria storia e al proprio presente. L’espressione che mi pare più appropriata per tenerne conto e per collocare sotto il profilo epistemologico e contestuale la ricerca che sarà presentata nel corso del volume, è quella di spazio-tempo postcoloniale, da intendersi come uno spazio non omogeneo attraversato da contraddizioni e frizioni, da vecchie e nuove forme di asimmetrie, ma anche da percorsi di resistenza e opposizione. Uno spazio e un tempo nei quali funzionano ancora processi di invenzione ed essenzializzazione dell’alterità (Said 1978; Mudimbe 1988; Wolff 1994; Todorova 1997; Mignolo 2007), ma in cui si aprono anche opportunità di contaminazione, di costruzione di spazi terzi (Bhabha 1994), di frontiera (Anzaldúa 1987), di pluralismo culturale (Rebughini 2014).
Il postcoloniale non può essere compreso se non alla luce di tali contraddizioni e disarticolazioni: esso non indica il superamento del colonialismo, quanto la simultaneità della continuità e della rottura tra il tempo storico coloniale e la contemporaneità, «con il portato di dominazione, ma anche di insubordinazione, che la contraddistingue» (Mezzadra 2008, p. 25).
Il termine “postcoloniale”, richiamando l’attenzione sull’esperienza coloniale europea, evidenzia con forza che la storia dell’Europa non può essere interpretata come un percorso lineare e omogeneo verso il progresso e la democrazia. Occorre dunque decostruire quella narrazione che vede l’occidente muoversi lungo un cammino guidato dalla ragione, ma che dimentica di coglierne le applicazioni più estreme (Horkheimer, Adorno 1944): la schiavitù e il colonialismo non sono stati semplici “incidenti storici” (Chambers 1994), ma eventi centrali e fondanti la modernità occidentale. Tuttavia, raramente il presente è letto come erede di processi storici di tale portata e rispetto ai quali urge il bisogno di una ri-narrazione da altri punti di vista.
La modernità, infatti, non coincide solo con i processi di trasformazione ai quali viene comunemente associata; essa è anche la nascita di una narrazione, di una forma di sapere secondo la quale “siamo moderni”; ma non tutti sono stati inclusi nel “noi moderno” (Seth 2016). L’Europa, dunque, non può essere compresa senza fare riferimento alla sua esperienza coloniale e imperiale e al suo bisogno di cristallizzare l’alterità per parlare di sé (Said 1978).
Le modalità relazionali che essa ha riservato al “resto del mondo” si fondano e al tempo stesso alimentano la “mappa cognitiva” (Siebert 2013) risultante dai processi che hanno classificato e gerarchizzato l’umanità in categorie. Il mancato riconoscimento della rilevanza di tali processi per la contemporaneità ha conseguenze importanti; ad esempio, impedisce di cogliere il fatto che “la linea del colore” (Du Bois 1903) funziona oggi nelle società europee (Mezzadra 2008), mantenendo intatto quel sistema cognitivo che considera il “bianco” come un “non colore” (Siebert 2013). Leggere il presente alla luce di tali fondamenta epistemologiche può contribuire a una comprensione più complessa dei processi migratori contemporanei e delle reazioni che suscitano. Come le dottrine del razzismo biologico hanno legittimato le imprese coloniali, anche nel presente certi modi di parlare e di raccontare hanno funzioni politiche ben precise, ma non sempre evidenti.
È possibile notare, ad esempio, come il termine “cultura” assuma una centralità peculiare nei dibattiti contemporanei: le polemiche che investono i fenomeni migratori oggi ruotano prevalentemente intorno a espressioni quali “distanza culturale”, “incompatibilità”, “scontro di civiltà” (Aime 2013). Coesistono di fatto nel mondo contemporaneo forme di razzismo biologico e razzismo differenzialista (Taguieff 2001) che considerano i fenomeni migratori come una delle principali minacce alla “purezza” culturale, e che si fondano sull’idea che ogni cultura sia un sistema omogeneo al proprio interno.
Questi discorsi hanno effetti molto concreti: se osserviamo il funzionamento del regime migratorio europeo, inteso come l’insieme di procedure di controllo dei confini esterni e di provvedimenti legislativi, pratiche e discorsi utili a mantenere delle gerarchie interne, ci renderemo conto che esso non punta tanto all’azzeramento dei fenomeni migratori, quanto alla loro gestione e sfruttamento, così da assicurare un’inclusione selettiva e differenziale dei migranti (Mezzadra 2004) attraverso la costruzione di nuove gerarchie.
Ma il paradigma dello “scontro di civiltà” più che un dato di fatto dovrebbe essere interpretato come «un progetto politico-culturale che molti perseguono, in Occidente come nel contesto islamico, e che, stando così le cose, rischia di avere successo e seguaci» (Pellegrino 2009, p. 184). Un paradigma che si scontra con “l’interconnessione delle culture” in quanto “regola” storico-antropologica: Clifford parla di «cultura translocale» proprio per sottolineare che le culture non sono «totalità socioculturali» ma «sistemi costitutivamente relazionali» (Clifford 1997, tr. it. 2008, p. 14), laddove Amselle (1999) si serve del termine “meticciato” per indicare non gli effetti degli scambi culturali, ma la condizione originaria di tutte le culture, caratterizzate da porosità piuttosto che da rigidità dei propri confini. Si tratta di una concezione mobile di cultura, fondata su una «visione dell’habitat dell’uomo in termini di spostamento non meno che di soggiorno» (Clifford 1997, tr. it. 2008, p. 8) e rispetto alla quale acquistano una centralità inedita una serie di attori sociali liminari dotati della capacità interculturale di articolare le proprie biografie in relazione a più di un sistema socioculturale.
La presenza di donne e uomini migranti nelle società europee, e nello specifico in quella italiana a cui questo libro fa riferimento, spinge oggi a reinterrogarsi su tutte quelle pratiche culturali e situazioni quotidiane che riattivano la porosità e la commistione culturale, artificiosamente negata dai nazionalismi e dalla costruzione di “comunità immaginate” (Anderson 1983), nell’idea che il pluralismo culturale nelle società contemporanee sia un dato di fatto: il conflitto si verifica nella capacità e nella volontà di riconoscerlo o meno (Rebughini 2014).
L’intento di questo libro, pur nella consapevolezza della necessità di svelare e mettere in guardia dalle nuove forme di chiusura e di razzismo, è quello di esplorare specifiche situazioni di “intreccio”, per come si articolano nelle biografie delle donne coinvolte nella ricerca e nella misura in cui si riverberano sulla società italiana nel suo complesso.
L’analisi delle esperienze soggettive di migrazione e di scrittura che saranno presentate nel corso del volume andranno allora comprese alla luce di questo quadro interpretativo e della posizione, qui condivisa, per cui
Una volta ammesso che nuovi confini e nuovi dispositivi di dominio e sfruttamento sono all’opera per implementare differenze, dobbiamo riconoscere che essi sono anche quotidianamente sfidati (e non di rado messi fuori uso) dalle pratiche di donne e uomini che lottano contro di essi, o che semplicemente costruiscono le proprie vite sottraendosi al campo in cui si dispiega la loro azione. Oggi, la possibilità della liberazione ha cessato definitivamente di essere affidata al segreto operare di leggi storiche necessarie, per essere consegnata interamente alla prassi delle donne e degli uomini che abitano nella loro irriducibile molteplicità il pianeta (Mezzadra 2008, p. 38).
In questa chiave lo spazio-tempo postcoloniale non è solo caratterizzato da continuità col tempo storico coloniale, ma anche da rotture, disarticolazioni e resistenze. Esso non si configura solo come spazio di critica e di denuncia, ma anche come luogo nel quale prendono forma processi di soggettivazione e pratiche di agency: «‘Post’ è sempre oscurato da ‘neo’. Tuttavia ‘postcoloniale’ descrive rotture reali, anche se incomplete, con le passate strutture di dominio, descrive siti di lotta attuale e di futuri immaginati» (Clifford 1997, tr. it. 2008, p. 326).
Una delle possibilità di rottura che il postcoloniale offre coincide con lo spazio della contronarrazione. Prima di entrare nel merito della questione, vorrei però articolare ulteriormente la riflessione relativa alla simultaneità di continuità e rottura che lo spazio postcoloniale implica radicandola nel contesto italiano.

L’Italia (post)coloniale

Il termine “postcoloniale” andrebbe declinato al plurale, in considerazione del fatto che diversi luoghi sono stati interessati dall’esperienza coloniale, tanto i paesi ex colonizzatori quanto quelli ex colonizzati, e che ciascuno di questi territori presenta una propria specificità legata alla storia precedente il colonialismo e al tipo di relazioni coloniali esperite. Per tale ragione è stata sottolineata la necessità di compiere analisi congiunturali del coloniale e del postcoloniale (Shohat 1992), nell’idea che luoghi diversi non possano essere postcoloniali allo stesso modo (Loomba 1998) e che sia necessario parlare di postcolonialismi europei (Ponzanesi 2012). Dal momento che il contesto di riferimento della ricerca qui presentata è quello italiano, appare opportuno soffermarsi su alcuni elementi della storia coloniale italiana, utili a comprendere in che senso sia possibile oggi parlare di Italia postcoloniale e di postcolonialismo italiano.
Come nota Aime (2013), riflettendo su ciò che viene percepito come uno scarso sentimento di appartenenza nazionale diffuso nel paese, l’Italia è un’invenzione recente: un secolo e mezzo di unificazione nazionale è ben poca cosa rispetto a una lunga storia di frammentazioni, forti identità locali e continui cambiamenti di confini. L’invenzione dell’Italia è stata interna al paese, ma è stata anche costruita dall’alto, implicando molto spesso un riferimento specifico al concetto di razza[1]. Il progetto coloniale italiano, avviato in età liberale e proseguito sotto il fascismo con mire imperialistiche, va compreso anche alla luce della fragile identità nazionale: costruire un proprio impero significava entrare a far parte di quella modernità che fino a quel momento aveva riguardato diversi paesi europei, ma non l’Italia (Ben-Ghiat 2006).
L’esperienza coloniale italiana non fu molto lunga, né geograficamente particolarmente estesa[2]; due elementi che hanno contribuito ad avvalorare l’idea che quello italiano sia stato, a seconda dei punti di vista, un “colonialismo dal volto umano” o un “colonialismo straccione”, in entrambi i casi una parentesi temporale e spaziale quasi irrilevante. Eppure, nonostante il mito degli “Italiani brava gente” sia circolato ampiamente in epoca coloniale e postcoloniale, la presenza italiana in Africa lasciò tutt’altro ricordo nelle popolazioni locali: i regimi coloniali erano permeati di presupposti razzisti che legittimarono una forte aggressività nel corso delle guerre di conquista, rendendo l’Italia protagonista di tristi pagine di storia, fatte di massacri, atti genocidiari e segregazione razziale (Del Boca 2005;
Labanca 2002). Nonostante una certa decolonizzazione degli studi sia avvenuta, manca una consapevolezza diffusa del fatto che «quello italiano fu una variante, piuttosto che un’eccezione, dell’imperialismo coloniale europeo» (Labanca 2002, p. 473), una variante peraltro fortemente razzista e capace di compiere «episodi di singolare violenza in periodi di assoluta quiete e mentre si esaltavano i risultati di una meritevole missione civilizzatrice» (Del Boca 2005, p. 303)[3].
Se cronologicamente l’Italia è una società postcoloniale, di per sé l’immaginario collettivo italiano non ha assunto una prospettiva postcoloniale, ovvero di autocritica rispetto al proprio passato. Il mancato confronto con la propria storia ha fatto sì che in Italia non ci siano state né una totale rimozione dell’esperienza coloniale, né una sua elaborazione. Ciò ha prodotto una latenza della memoria coloniale (Triulzi 2008) che ha alimentato la costruzione di un “sistema percettivo razzista” silenzioso e mai esplicitato, pronto ad esplodere nei momenti di crisi; ad esempio quando si percepisce un aumento dei flussi migratori (Tabet 1997).
I motivi della rimozione e non elaborazione del nostro passato coloniale sono diversi.
Alcune ragioni riguardano le modalità concrete con cui si sviluppò l’imperialismo italiano, come la breve durata e le dimensioni relativamente piccole dell’Africa orientale italiana. Un altro motivo può essere individuato nella mancata epurazione dell’amministrazione coloniale. Altrettanto importante fu il fatto che l’Italia perse tutte le proprie colonie in seguito alla guerra e non dovette affrontare le guerre di decolonizzazione. L’insieme di questi processi ha contribuito a impedire la trasformazione del colonialismo in un trauma culturale (Jedlowski, Siebert 2011). Quest’ultimo consiste nella costruzione collettiva che identifica un certo fenomeno o evento storico fortemente negativo come “male assoluto” (Alexander et al. 2004). Alexander ha mostrato come ciò sia avvenuto, gradualmente e non senza ostacoli, rispetto all’Olocausto. Se la stessa cosa in Italia, rispetto ai crimini coloniali, non si è verificata, è perché il soggetto che se ne sarebbe dovuto fare promotore, la sfera pubblica, è rimasto in silenzio[4].
Alla luce di queste considerazioni, lo spazio ...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Introduzione
  3. 1. Migrazioni. Un laboratorio narrativo
  4. 2. La ricerca: una pratica situata e riflessiva
  5. Intermezzo
  6. 3. Attraverso le storie
  7. 4. Spaesamenti e ricomposizioni
  8. Per continuare: soggettività composite, narrazioni alternative
  9. Bibliografia
  10. Narrative delle scrittrici intervistate
  11. Ringraziamenti