La psicanalisi oltre ogni Weltanschauung
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La letteratura come frontiera della scienza

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La letteratura come frontiera della scienza

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Come il linguaggio letterario e quello matematico possono servire alla costruzione della teoria della psicanalisi?
Questo saggio evidenzia come la parola, e in particolare quella letteraria, splendidamente falsa, costringe lo scrittore (ma non vale forse anche per chi scrive di scienza?) a quella dotta ignoranza che lo sovrasta, imponendogli il non sapere: di ignorare dove lo conduce quell'oggetto verbale, menandolo in labirintiche concatenazioni di nomi e di suoni, di giochi di immagini che si incastrano rivelandosi nelle figure retoriche; ecco, questo scrittore, condotto per mano solo dalla sua nescienza, e che lavora secondo obbedienza e non di fantasia, non sa che cosa sta scrivendo fino a quando, concluso lo sforzo, tutto personale e, chissà, forse anche insensato, consegnerà il testo a non si sa quale lettore; e anche a lui stesso come lettore, trovandosi nella condizione imbarazzante di non capire ancora bene che cosa ha scritto e perché, e magari scoprire solo nella lettura qualcosa che il testo gli rivelerà. Una scrittura in grado di affidare ad altri lettori cose che loro capiranno e che lui, lo scrittore, ancora continua a non comprendere. Scoprirà così, e solo così, di aver scritto un testo in cui il gioco del linguaggio gli evidenzierà che, alla fine, ne sa più di lui.
Che le parole di uno scritto, composte per somiglianze, assonanze e simmetrie, si prestino alla scelta decisiva dello scrittore per compiere un percorso sconosciuto a lui stesso, testimonia che la parola letteraria non nasconde e non soffre di alcuna Weltanschauung: questa è la sua forza incorruttibile. Possiamo assumere per vero che la letteratura sia artificio, produca artefatti, inventi mondi e universi ordinandoli secondo regole che sono le sue sole regole; ma non è forse altrettanto vero anche per la fisica, l'astrofisica, la chimica o la biologia, all'interno dei loro linguaggi? Quanto vale allora, l'opposizione fra letteratura e scienza che propongono il positivismo e il neopositivismo?
E se, per quanto riguarda la psicanalisi, Freud voleva affidare la sua invenzione alla Weltanschauung scientifica, lo psicanalista di oggi deve avere il coraggio di costruire una psicanalisi che non solo non si appoggia alla Weltanschauung della scienza ma si assume il compito repellente, inusuale e inderogabile di renderla estranea a ogni visione del mondo.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788899193843
Argomento
Psicología
LA PSICANALISI OLTRE OGNI WELTANSCHAUUNG

Premessa

O non sarà, piuttosto, questo privilegiato odio di cui la letteratura gode da sempre, un indizio che in essa l’uomo, e soprattutto quella specie che chiamerei l’uomo umanista, ha sempre sospettato di attività immorale? E non sarà, codesta sua immoralità, intrinseca alla sua qualità di oggetto, funzione, gesto quasi umano, e tuttavia insopportabile all’uomo, che pure ne è il portatore […]
[…] Assai antica è l’ira dei dabbene per la letteratura. Da secoli viene accusata di frode, di corruzione, di empietà. O è inutile o è velenosa […]
[…] Chiunque può accostarlesi: nessuno se ne allontanerà intatto. Anzi: nessuno ne è immune. Non v’è santo tanto selvatico da non avere in sé tabe di letteratura.
Giorgio Manganelli
Apprezzo molto lo sforzo di un uso intelligente della topologia in psicanalisi. Il saggio di Antonello Sciacchitano su Paul Federn,1 da cui questo mio scritto trova motivo, affronta i tema della topologia in un modo e con uno sguardo ampio e allo stesso tempo acuto che non era, a mia conoscenza, ancora stato affrontato. Questo testo ha il merito di mettere l’accento sull’importanza del collettivo in psicanalisi, attraverso quel che Sciacchitano chiama «soggetto collettivo» (che comunque è l’introduzione di una categoria filosofica che, a mio parere, andrebbe discussa in modo più puntuale).2 Soprattutto ho trovato particolarmente interessante la relazione Io-Mondo e tutto il tema così fertile della «frontiera».
Federn ha seguito la sorte di tutti i pionieri della psicanalisi, che non sono stati letti come ricercatori e avventurieri che esplorano con malfermo linguaggio, quello a loro disposizione, il nuovo territorio aperto da Freud, di una psyché a cui dare una dimensione almeno scientificamente accettabile, per quanto fu possibile e anche a volte in modo un po’ raffazzonato, ma che alla fine sono stati letti solo, o quasi, come manuali applicativi, senza alcuna capacità critica né, tantomeno, con un qualche sia pur sconciato desiderio di discuterli, di approfondirli e anche di avere il coraggio di criticarli sul piano intellettuale.
Se qualcuno ha cercato di leggere con attenzione le teorie freudiane (in modo intelligente, voglio dire) fino a ora ci è venuto, in particolare, dai letterati, così come qualche scrittore ha lanciato possibili ampliamenti (per es. Gadda), o critiche feroci proprio per via del linguaggio grottesco degli psicanalisti anni Cinquanta (si veda per es. Nabokov), o la critica alla teoria delle pulsioni e a quella edipica portata da Michail Bachtin. Non ultimo il grande critico dell’interpretazione simbolica che fu Giuseppe Pontiggia.
Se si escludono Lacan con la teoria dei nodi e Matte Blanco con l’insiemistica, della generazione precedente, Sciacchitano è stato uno dei primi, e forse anche il primo in questo modo particolare, a discutere Freud con il linguaggio delle matematiche.
Chiarito ciò che mi sembra doveroso devo però apportare alcune considerazioni su affermazioni che sembrano non tenere in giusto conto quelle complessità irrisolvibili del linguaggio che, secondo me, se non sono prese in considerazione, non rendono giustizia alla ricerca di profondità alla quale il testo di Sciacchitano pur si rivolge.
L’esergo a questo scritto, frasi tratte da quell’articolo così breve e così denso, magnifico e altero, «La letteratura come menzogna» di Giorgio Manganelli,3 introduce bene l’argomento che vorrei trattare in margine, e come discussione, al libro di Sciacchitano e alla sua posizione iconoclasta più volte espressa nei confronti della letteratura. Mi interessa qui cogliere come i linguaggi letterario e matematico valgano nella costruzione della teoria della psicanalisi; ma anche evidenziare che la parola, e in particolare quella letteraria, splendidamente falsa, costringe lo scrittore (ma non vale forse anche per chi scrive di scienza?) a quella dotta ignoranza che lo sovrasta, imponendogli il non sapere; di ignorare dove lo conduce quell’oggetto verbale, menandolo in labirintiche concatenazioni di nomi e di suoni, di giochi di immagini che si incastrano rivelandosi nelle figure retoriche; ecco, questo scrittore, condotto per mano solo dalla sua nescienza, non sa che cosa sta scrivendo fino a quando, concluso lo sforzo, tutto personale e, chissà, forse anche insensato, consegnerà il testo a non si sa quale lettore; e anche a lui stesso come lettore, trovandosi nella condizione imbarazzante di non capire ancora bene che cosa ha scritto e perché, e magari scoprire solo nella lettura qualcosa che il testo gli rivelerà. Una scrittura in grado di affidare ad altri lettori cose che loro capiranno e che lui, lo scrittore, ancora continua a non comprendere. Scoprirà così, e solo così, di aver scritto un testo in cui il gioco del linguaggio gli evidenzierà che, alla fine, ne sa più di lui.

1 A. Sciacchitano, Psicanalisi di frontiera. L’articolo si può leggere qui: http://www.polimniadigitaleditions.com/prodotto/psicanalisi-di-frontiera/.
2 Lascio sullo sfondo il tema di questa «categoria» che andrebbe discussa a parte, richiedendo un approfondimento filosofico piuttosto complesso.
3 L’articolo è contenuto nel libro, La letteratura come menzogna, alle pagg. 215-223.

1. Del linguaggio

1.1 Proposizione prima: della lingua

Non contesto l’uso del pensiero matematico e della topologia nella trattazione psicanalitica ma non posso non evidenziarne i limiti, che sono propri e intimi al linguaggio nella sua generalità.
E questo senza scordare che la lingua in generale, e soprattutto quella relativa al linguaggio parlato, è un continuo tradimento e insieme un continuo sviamento perché, comunque la si giri, è legata alla sua sola possibilità espressiva che è la doxa. Per quanto attenti, ciò che si ascolta dipende dal valore intimamente soggettivo che hanno le parole e solo in minima parte riguarda ciò che si riceve dall’interlocutore. Questo avviene perché ogni ascolto è una traduzione, dove le parole ricevute cambiano di valore (e a volte anche di senso), e se possiamo parlare di soggetto è solo perché ciascuno è sub-iectŭs a tale valore.
Con doxa possiamo intendere in questo caso l’uso dei nomi impiegati per definire le cose (vedi § 3.3.1). Non è soltanto una questione di «opinione» ma di come i nomi funzionano a rappresentare il mondo e sé (cioè il parlante) nel mondo. È qui che la lingua finisce per tradirci, da un lato, nel definire ciò che si presenta nel reale e, dall’altro, ciò che ci rappresenta e intendo: di noi stessi in relazione agli oggetti e anche in relazione a… noi stessi.
Ci troviamo dunque di fronte a due condizioni obbligate. La prima è che la parola, e con essa ogni nome, è sempre una «cosa» di linguaggio, quindi esprime contenuti di linguaggio. Mi riferisco al fatto che il nome cerca, è vero, la realtà della cosa ma può soltanto avvicinarsi, e solo nel caso in cui sia cercata e usata la parola che più di altre è in grado di esprimere «letterariamente» il senso della cosa che il linguaggio le assegna. I sinonimi non sono tutti eguali ma sono deputati a esprimere concetti e sfumature differenti. Per questo è importante l’impiego dei termini nell’atto di traduzione, perché nel portare le cose alla lingua dei nomi si esprime la mia presenza e il senso del mio esserci fra le cose. Un esempio: un signore incontrato in treno molti anni fa mi dice, mentre scarta dolciumi, cioccolata e tira fuori dalla sua cartella bevande dolci, che quella è la sua «ultima» merenda prima della cena. E aggiunge che a quell’ora gli viene sempre «fame». La conversazione del mio interlocutore continua magnificando un ristorante, che anche io conosco, di Barcellona e i grandi vini della sua cantina. Ora è molto dubbio che questo signore abbia davvero fame. È molto probabile che lui chiami fame una sensazione, certo legata al corpo: un sintomo (completamente inascoltato) che traduceva in modo erroneo come fame e come sete, richiamando argomenti che insistono su questi temi.
La seconda è che il nome, e mi riferisco a tutti i nomi, appartiene gioco forza alla doxa, e non tanto perché il nome appartiene a un dizionario proprio a una specifica lingua, quanto al modo in cui quei nomi esprimono la realtà che si intende comunicare. Una qualunque espressione, per esempio, che mette in gioco la sessualità, il sentimento del desiderio e così via, è particolarmente complessa: vi gioca la cultura (o l’incultura), la religiosità, le inibizioni, le perversioni e le credenze che la traduzione, nascondendole al linguaggio, opera sulle parole e sugli atti. Ora, il problema più impegnativo è proprio quello di elaborare un linguaggio in grado di emendarsi dalla doxa, di lasciare cioè da parte credenze, luoghi comuni e superstizioni che impediscono alle parole di aderire alla verità dell’espressione, anche se questa «verità» non sarà mai perfettamente raggiungibile, il che non significa che non sia perseguibile: portarsi «nei dintorni della verità», secondo l’espressione di Parmenide.
Per questo occorre «essere onesti» con il linguaggio, secondo la proposizione di Giuseppe Pontiggia che, a questo livello, assume tutto il suo valore.
Da questo «pasticcio», che è fonte di frustrazione, non ne usciamo qualunque sia il linguaggio che adottiamo, che sia matematico o poetico. E a un tale pasticcio se ne aggiunge un altro, che riguarda essenzialmente il linguaggio delle «parole», e cioè che il significato dei termini è, spesso profondamente, diverso fra un parlante e un altro, ed è la ragione per cui si ascolta sempre in un’«altra lingua» in cui lo scivolamento degli equivoci della traduzione è una costante. La traduzione è propria del lavoro dell’inconscio, e la parola resta dunque una realtà assolutamente soggettiva benché riguardi tutti i parlanti e benché la lingua sia comune.
Lo sforzo importante che si attua sul piano intellettuale è proprio quel lavoro che consente quella traduzione che è in grado di portare, nella lingua di arrivo, e il più possibile con rigore, ciò che un autore intendeva trasmettere. È il lavoro del traduttore nel senso in cui lo hanno individuato e proposto Walter Benjamin e José Ortega y Gasset.
Questo lavoro di traduzione è anche l’impegno di un’esperienza psicanalitica, ed è ciò che si può intendere come interpretazione, il cui compito, in una psicanalisi, spetta esclusivamente all’analizzante. Allo psicanalista il compito di aprire interrogativi relativi al valore dei nomi e al loro senso, in particolare là dove questo sembra univoco e dato per ver...

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  4. Colophon
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