Il trombettiere di Custer
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Chi era Joe Gallo, il gangster spietato soprannominato «crazy», il pazzo, che amava Camus e Nietzsche? E il calabrese Mike Porco che lanciò il giovane Bob Dylan nel suo locale Gerde's, nel cuore del Greenwich Village? Sono alcuni dei personaggi epicamente romanzeschi che Mastrandrea ha strappato dall'oblio e ritratto in questo libro intitolato al più bizzarro di loro, John Martin, originario di Sala Consilina, «il trombettiere di Custer», unico superstite del l'eroica disfatta di Little Big Horn. L'autore ricostruisce vite vere di emigranti italiani colte nei rispettivi contesti storici, e narrate con stile brillante e incisivo come fossero storie di finzione, rinnovando l'epopea del nostro sogno americano, la nostra scoperta della «Merica».

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Informazioni

Editore
Ediesse
Anno
2011
ISBN
9788823015753
La repubblica popolare di Zì Tomasi
Tutti presero d’un tratto
Garibaldi un suo ritratto
E lo appesero al balcone
Dal Comune alla stazione.
Paolo Pietrangeli, Sanza
La rivoluzione di zì Tomasi si avverò una mattina di ottobre, quando trovò ad aspettarlo sotto casa una piccola folla plaudente di qualche centinaio di persone che lo portò in trionfo fino al comune per acclamarlo all’unanimità Commissario del popolo. A fugare ogni dubbio sulla natura di quella rivolta ci pensavano un bandierone rosso in apertura del corteo, impugnato dalla compagna Milina, e una gigantografia di Garibaldi che le camminava accanto. Qui la storia si potrebbe concludere trionfalmente ancor prima di cominciare, con la manifestazione che montò come un’onda man mano che risaliva le stradine del paese dalla via Estravento, da anni cuore pulsante dell’antifascismo locale, fino a raggiungere il suo apice su alla piazza, dove zì Tomasi venne fatto affacciare al balcone del Municipio per proclamare l’inizio di una nuova stagione politica, nel segno della dittatura del proletariato e non più delle ca-mice nere. Se però quello non fosse solo il primo atto di una serie di peripezie che resero l’esperienza della Repubblica popolare di Sanza unica nel suo genere, rendendo giustizia, un secolo dopo, al tentativo abortito di Carlo Pisacane che proprio qui aveva visto infrangersi nel sangue e nella mancata insurrezione contadina la sua utopia socialisteggiante.
La mattina del 16 ottobre fu solo il punto di arrivo di una lunga marcia, e il giorno prima della rivoluzione non fu certo il 15, quando zì Tomasi aveva fatto convocare gli antifascisti ma si erano presentati solo in un centinaio perché gli altri nel frattempo erano andati nei campi a lavorare e non li avevano avvisati per tempo; e nemmeno il 14 quando lui stesso era stato arrestato per timore che andasse a finire come poi andò davvero e scarcerato in giornata a furor di popolo.
Tutto aveva avuto inizio quando il giovane Tommaso Ciorciari, ultimo di sei figli di una famiglia contadina in uno dei paesi più poveri e sperduti del Meridione, proprio all’ombra del monte più alto della Campania, il Cervati, circondato da bellissimi boschi che avevano fatto la fortuna di generazioni di briganti e lontano da ogni rotta di viaggio o commerciale, decise di emigrare come all’epoca era buona norma per buona parte dei suoi concittadini. Due suoi fratelli, Giovanni e Giuseppe, opteranno per Cuba dove la morte li aspetterà sotto forma di una malattia tropicale; lui finirà in Argentina e sarà decisamente più fortunato, non solo per essere riuscito a sopravvivere.
Non che Oltreoceano si sia distinto per alcunché di particolare. Della sua permanenza in America Latina, per quattordici anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la prima decade del Novecento fino alla vigilia della Grande guerra, non rimarrà traccia particolare. Gli unici elementi certi a disposizione sono che da quelle parti imparò a leggere e scrivere, privilegio raro nel suo paese d’origine dove il Comune non garantiva l’istruzione primaria a tutti, anzi in qualche occasione la disincentivava, e così i figli dei possidenti venivano mandati a studiare dai preti e quelli del popolo erano considerati indispensabili per il lavoro nei campi e pertanto condannati a rimanere analfabeti a vita. E, soprattutto, che entrò in contatto con ambienti rivoluzionari dove apprese le nozioni fondamentali del marxismo e della lotta di classe. Ma la sua esperienza oltreoceano gli risulterà decisiva una volta tornato a casa. Per anni in paese coloro che lo acclamarono leader supremo rimasero convinti che al di là dell’Oceano avesse stretto amicizia nientemeno con Lenin, con il quale avrebbe lavorato tre mesi a stretto contatto, e andarono fieri di essere discendenti diretti della rivoluzione bolscevica. Peccato la storia insegni che Vladimir Ilič non si avventurò mai da quelle parti e dunque è altamente improbabile che il giovane rivoluzionario di origini italiane l’avesse incontrato se non negli insegnamenti che gli erano stati impartiti, ma la leggenda non aveva bisogno di conferme e non ne patì più di tanto. Anche perché zì Tomasi non fece mai nulla per smentire la diceria, anzi secondo alcuni addirittura la accreditò per accrescere la sua fama di leader rivoluzionario, anche se solo di paese.
Più probabilmente, la formazione del giovane Tommaso risentì del clima di politicizzazione diffusa dell’emigrazione dall’Italia, che portò oltreoceano socialisti, comunisti e anarchici a elevato tasso di radicalità, mazziniani e garibaldini. In qualche misura a quegli ambienti dovette anche partecipare. Comunque, tanto bastò per rientrare in patria incazzato e rivoluzionario, e soprattutto comunista a tutto d’un pezzo. In tempo per assistere dall’inizio alla parabola del ventennio fascista. E per non rimanere con le mani in mano.
Quando ritornò a Sanza, Tommaso Ciorciari non trovò un paese molto cambiato rispetto a quando lo aveva lasciato, quattordici anni prima. Il potere politico era spartito sostanzialmente tra due schieramenti: i liberali che avevano come simbolo una stella a cinque punte proprio come i brigatisti quasi un secolo dopo, e la borghesia proprietaria che si era appropriata degli antichi feudi dopo la cacciata dei Borbone e, ancora prima, con l’insurrezione del 1848. Le figure dominanti nella società locale, come nel resto dei paesi del Sud, erano fondamentalmente il sindaco, gli assessori, il segretario comunale, il medico condotto, il farmacista, l’avvocato, il notaio, l’arciprete e i latifondisti. Non rimaneva spazio per il resto. Eppure già alla fine dell’Ottocento si erano susseguite le occupazioni di terre da parte dei contadini, spinti però più dalla disperazione che da motivazioni politiche o sindacali. La vita per la gran parte della popolazione non era cambiata dalla seconda metà dell’Ottocento e le spinte a emigrare rimanevano tutte. A garantire l’approvvigionamento idrico al paese ci pensava un’unica fontanella che convogliava l’acqua da un monte vicino cui si aggiunse un collegamento con un’altra sorgente, le scuole erano umide e senza luce, le strade non esistevano e la spazzatura non veniva raccolta. La prima guerra mondiale non fece che peggiorare la situazione, tanti pastori e braccianti che non erano mai usciti dai confini del paese partirono, in cinquantuno non fecero più ritorno, altri quarantasei furono fatti prigionieri. Eppure saranno i reduci della Grande guerra che torneranno con una bozza di coscienza politica e daranno vita a una serie di lotte sociali che non si fermeranno con la marcia su Roma e che vedranno protagonista anche Tommaso Ciorciari.
Non che fosse un posto sordo ai conflitti, quel piccolo comune in una terra di nessuno verso il golfo di Policastro. Per oltre mezzo secolo almeno, briganti di ogni sorta vi avevano fatto tappa e trovato rifugio sui monti che lo sovrastano. Da quando a inizio dell’Ottocento i francesi inviarono il generale Lamarque a portare ordine fino allo sterminio della banda di Ciccotunno nel 1861 e ancora oltre, non ci fu soluzione di continuità. Una storia ammantata di leggende, come quella di Giuseppe Tardio che il 16 ottobre del 1862 fece uccidere 44 pecore per i suoi uomini rilasciando regolare ricevuta al malcapitato pastore; del gruppo capeggiato da Nicola Marino che il 6 luglio 1866 uccise a fucilate tre pastori accusati di aver parlato con le autorità; della banda di Michele Notaro che tagliava l’orecchio ai sequestrati e lo recapitava ai familiari per sollecitare il pagamento dei riscatti; o ancora, di Barbato Coccaro che fu preso a tardissima età e sorrise al giudice che lo condannava a trent’anni rispondendogli: «Signor giudice, farò il possibile». Vicenda che merita una breve digressione, quella del brigante Coccaro. Un tipo solitario, narra la tradizione orale, originario di Valle dell’Angelo, un paesino del Cilento dall’altra parte del monte Cervati rispetto a Sanza. Brigante che trascorse la vita tra i monti e che flirtava con la donna di un signorotto del luogo, guardato con un’aura di rispetto perché in galera aveva imparato quel po’ di italiano che lo distingueva dai compaesani e contemporaneamente temuto per i suoi trascorsi. Ma la sua storia rimarrà scolpita nella memoria di Valle dell’Angelo per quello che accadde il giorno in cui, scendendo come tutti i giorni dai monti per fare ritorno a casa, si imbatté nelle solite tre comari che al suo passaggio occhieggiavano alla relazione amorosa nascosta. Quel giorno non fece finta di nulla e non passò oltre, aprì la giacca sotto la quale portava un’ascia e troncò con un solo colpo la testa della prima delle tre donne, né più né meno come avrebbe fatto con un albero. Poi intimò il silenzio alle altre minacciandole della stessa sorte se avessero aperto bocca e scomparve per un decennio. Quando fu ritrovato, a valle del Cervati tra Sanza e Buonabitacolo, tradito dall’esigenza di andare a lavare i panni al fiume, era ormai alle soglie dei settant’anni e il processo al Tribunale di Salerno fu un piccolo evento.
Poi c’era stato Pisacane, ucciso all’altro capo del paese rispetto a quello da cui sarebbe partita la rivoluzione di zì Tomasi. Sulla morte di Carlo Pisacane da quel 2 luglio del 1857 circola una leggenda che vagheggia di un cappello con un foro al centro custodito in chissà quale casa da chissà quale discendente e di una formidabile schioppettata che avrebbe inchiodato tra i boschi qualsiasi speranza di insurrezione socialista, almeno fino ai giorni di zì Tomasi. La vicenda è piuttosto nota: Pisacane, figlio di una nobile famiglia partenopea decaduta, militare, patriota e socialista utopistico, il 25 giugno 1857 si imbarcò con una quarantina di guerriglieri su un traghetto diretto a Tunisi, riuscendo a impadronirsene e a dirottarlo verso l’isola di Ponza, dove, tricolore alla mano, gli insorti liberarono 323 detenuti, alcuni dei quali in carcere per motivi politici e altri per reati comuni, e li trascinarono con loro nell’impresa di liberare il Sud Italia. Prima di partire lasciò un testamento che fu pubblicato da un giornale francese subito dopo l’uccisione e nel quale si leggevano cose come questa: «I miei principi politici sono abbastanza conosciuti: io credo nel socialismo, ma nel socialismo differente dai sistemi francesi, che tutti più o meno sono fondati sull’idea monarchica, o dispotica che prevale nella nazione; è l’avvenire inevitabile e prossimo dell’Italia, e forse di tutta Europa. Il socialismo, di cui io parlo, può riassumersi con queste due parole: libertà e associazione». I ribelli sbarcarono a Sapri e da lì presero ad addentrarsi nel cuore del Regno delle due Sicilie, con l’obiettivo di spingere le popolazioni locali alla rivolta e di dare le terre ai contadini. Ma la notte del 1° luglio, attorno alla Certosa di Padula dove si erano imprudentemente fermati a pernottare, furono circondati dalle truppe borboniche. Chi non fu massacrato venne arrestato, e poco meno di un centinaio, tra cui Pisacane, riuscì a scappare nei boschi tentando di ripiegare verso il mare. Ma il tentativo si interruppe appunto a Sanza, dove in ventisette ci lasciarono la vita e i rimanenti furono catturati.
Fin qui la storia conosciuta. Ma come fu ucciso Pisacane? Suicida con la propria arma come vuole una versione semi-ufficiale, trucidato dal popolo cui era stato fatto credere che i fuggitivi sarebbero venuti a togliergli il pane oppure dai gendarmi? La versione più attendibile racconta di una guardia armata, Sabino Laveglia, che all’alba del 2 luglio avrebbe guidato una spedizione, in parte anche composta da contadini e pastori, che avrebbe fatto strage di Pisacane e compagni. Una leggenda che si potrebbe benissimo incastonare in questa versione parla di un pastore particolarmente preciso nella mira che avrebbe risposto a un tiro di schioppo che gli aveva trapassato il cappello senza però nemmeno scalfirlo. La vulgata comune parla più semplicemente di una rivolta degli stessi contadini che Pisacane avrebbe voluto vedere ribellarsi contro i Borboni. E non aiuta a risolvere l’enigma l’iscrizione sul cippo che commemora il fatto: Pisacane è paragonato a Publio Decio Mure, il console plebeo romano, figlio del tribuno militare costretto all’umiliazione delle Forche caudine, immolatosi agli dei per propiziare la vittoria nella terza guerra sannitica. Il testo recita: «Da queste glebe livide di strage ruinava alla morte», che può alludere all’uccisione tanto per mano altrui quanto per mano propria. Aggiunge pomposamente l’iscrizione che mai un più eroico cuore fu strappato all’avvenire della patria. E il mistero rimane irrisolto. Comunque sia andata di preciso, saranno i discendenti di quei contadini e pastori ad animare, quasi un secolo dopo, la rivoluzione di zì Tomasi.
Tutto ciò non lo pensò nessuno, la mattina del 16 ottobre 1943. Non lo pensò la compagna Milina che sventolava la bandiera rossa, non lo pensarono tutti quelli che lungo la strada e per i vicoli esponevano ritratti di Garibaldi in segno di solidarietà e partecipazione. Più di uno tra loro si ricordava invece del 1927 e di quelle 37 lire per ogni capra che il governo fascista aveva imposto di pagare a una popolazione che pure era stata tra le prime nella zona a rimanere abbindolata dal fascino delle camicie nere. Anche allora, a capeggiare la protesta contro una tassa che avrebbe strangolato la pastorizia e gettato ancora più nella miseria gli allevatori c’era l’emigrante di ritorno Tommaso Ciorciari, insieme al figlio Felice. Il podestà Radice fu prima costretto a chiedere rinforzi «pel mantenimento dell’ordine pubblico» ai carabinieri e militari della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che intervennero pesantemente arrestando otto persone e saccheggiando la casa di Tommaso Ciorciari, che si diede alla macchia per otto giorni per sfuggire al rastrellamento. Poi, di fronte alla tenacia della protesta, Radice dovette capitolare. Così i manifestanti ottennero la possibilità per ogni capofamiglia di allevare tre capi di bestiame senza pagare la tassa. Non era la prima volta che i contadini di Sanza scendevano in piazza e non sarà nemmeno l’ultima, ma la vittoria del 1927 innescherà forse la scintilla che coverà per 16 anni fino a divampare in un vero e proprio incendio. Da allora, e nonostante il regime, le lotte sociali animate da Tommaso e dai suoi compagni non si fermeranno: nel 1933 un’altra rivolta scoppierà per la mancanza di terre coltivabili e il podestà sarà costretto a chiudere un occhio in più di una occasione sulle coltivazioni «abusive» di boschi e i «dissodamenti abusivi», pur di mantenere buona la popolazione. Per questo, la mattina in cui sorse il sol dell’avvenire la gran parte si ricordava di come il percorso per la rivoluzione fosse stato tutto in salita, e non solo perché per arrivare al Municipio bisognava inerpicarsi per qualche tornante. E di tutto ciò fu grata a zì Tomasi, ormai quasi settantenne ma come sempre in prima linea.
Eppure il fascismo era arrivato come una tormenta nel piccolo paese alle falde del Cervati che portava impresso come un indele-bile marchio di fabbrica quello di aver ucciso Carlo Pisacane a colpi di forcone e schioppetta. Alle elezioni del 1923 la cittadinanza si era risvegliata improvvisamente nera, dopo aver dato il voto in maniera plebiscitaria al fascio emergente, che aveva così conquistato maggioranza e opposizione. L’idillio era durato però poco più di un anno, visto che già alle politiche del 1924 quasi la metà di quelli che potevano votare aveva voltato le spalle alle camicie nere. Ma nel frattempo la fascistizzazione totale avanzava, il regime si consolidava e diventava totalitario e tutti i notabili erano passati dalla sua parte, per cui i margini di manovra degli oppositori diventavano sempre più ridotti. L’unica cosa che faceva paura erano le ribellioni popolari legate alle pessime condizioni di vita delle classi più povere che esplodevano di tanto in tanto e che si faceva fatica a contenere. Per il resto, una volta abolita la figura del sindaco, le famiglie più benestanti si contendevano la carica di podestà, almeno finché non arrivarono a susseguirsi una serie di commissari prefettizi, alle 18 di ogni pomeriggio si svolgevano le esercitazioni delle milizie volontarie in camicia nera e la popolazione veniva chiamata a raccolta nella scuola del paese per le prove di esercitazione antiaerea. Nella raccolta dell’oro per la patria finirono ben duecento fedi nuziali e un pugno di giovani partirono militari prima per l’E-tiopia e in seguito a combattere nella seconda guerra mondiale così come i loro padri erano stati inviati alla prima. E chi voleva far carriera era bene che prendesse la tessera del partito. Questo fu quanto accadde fino all’anno di grazia 1943, non diversamente da quanto andava avvenendo nel resto d’Italia.
Il giorno buono per la rivoluzione d’ottobre fu il 16. Era sabato, terzo giorno della festa di Succot che ricorda la vita nel deserto durante il viaggio verso la Terra promessa per gli ebrei che nelle stesse ore vedevano le Ss naziste bussare e sfondare le porte delle loro abitazioni nel Ghetto di Roma, caricarli tutti, vecchi e giovani, donne e bambini, sani e malati, su camion grigi e deportarli ad Auschwitz. A Sanza la rivolta era nell’aria, se è vero che già due giorni prima Ciorciari era stato imprigionato per evitare che andasse al potere e scarcerato a stretto giro e a furor di popolo per le proteste dei suoi compagni. Già il giorno precedente un primo tentativo non era andato a buon fine. Il pretesto fu il bando per lo «svolgimento delle elezioni» che avrebbero dovuto nominare un commissario prefettizio. A decidere era stato il Comando alleato che si era stabilito a Vallo della Lucania; a eseguire l’unica forza rimasta in piedi dopo il crollo del fascismo: i carabinieri. I quali avevano ricevuto l’ordine di «incanalare i vari movimenti di popolo per evitare fatti di sangue e disordini» e per far questo provavano ad appoggiarsi alle figure più rappresentative del paese. Esclusi i più esposti con il regime, rimanevano alcuni personaggi meno compromessi che avrebbero potuto garantire una transizione con pochi scossoni. Se non fosse andata in maniera diversa e se la caserma dei carabinieri non fosse stata assediata fin dall’alba da una moltitudine di comunisti, in massima parte pastori e contadini. Il resto è storia nota: Tommaso Ciorciari acclamato commissario, del popolo più che prefettizio, portato in corteo su per i tornanti che conducevano al Municipio, la gente che esponeva i ritratti di Garibaldi e i compagni che rispolveravano le insegne della vecchia Società di mutuo soccorso che qualcuno aveva gelosamente conservato per tutti quegli anni bui. Zì Tomasi si affacciò al balcone e si abbandonò al popolo. Al suo fianco una figura che era stata decisiva nell’organizzare la locale resistenza antifascista e il cui ruolo nei 37 giorni di repubblica popolare sarà decisivo: Aniello Buoniconti. Maestro elementare e uomo di cultura in un paese in cui un terzo della popolazione era analfabeta, un padre messo a riposo e un fratello licenziato dalle ferrovie perché avevano rifiutato di prendere la tessera del Partito fascista, Buoniconti era ex segretario comunale e gran conoscitore della macchina amministrativa: un vero e proprio subcomandante. Era stato lui che, immediatamente dopo l’8 settembre, era riuscito a impedire che un gruppo di militari tedeschi in ritirata riuscisse a minare i serbatoi d’acqua che rifornivano il paese; era stato sempre lui a organizzare il movimento che porterà zì Tomasi ad affacciarsi dal balcone del Municipio, quella mattina del ’43. E fu a casa sua che dal 17 ottobre cominciò la costruzione del socialismo in un solo paese, sul modello sovietico e senza alcun legame con le altre esperienze comuniste italiane. Dalle prime riunioni emersero subito le priorità politiche: ricostruzione dopo la devastante guerra, liquidazione dei notabili fascisti «moderati» che erano sopravvissuti alla caduta del regime e che volevano accomodarsi per mantenere potere e proprietà, redistribuzione delle terre ai contadini e ripristino degli usi civici contro i grandi proprietari terrieri. Si decise infine di creare una «milizia» che curasse il rispetto del coprifuoco e che si dedicasse a riparare i danni della guerra e ad effettuare lavori pubblici.
Così, il primo atto del nuovo Commissariato popolare fu quello di fare piazza pulita della «cricca» cui veniva attribuita la responsabilità dello stato di povertà in cui si trovavano i contadini. Il criterio adottato fu quello dell’antifascismo: chiunque avesse avuto un legame organico con il regime fu licenziato e allontanato dal paese. Poi si passò alla riforma agraria: il primo provvedimento fu quello di consentire ai contadini di non consegnare il raccolto ai proprietari terrieri e di tenersi il grano che avrebbe dovuto essere dato per l’ammasso. Infine, venne restaurato e ampliato il diritto civico di pascolo e di raccolta di legna su tutti i terreni di proprietà del Comune. Inoltre, fu costituita una «commissione» per gli affari amministrativi che si occupava di organizzare la manodopera volontaria per rimettere in sesto il paese. Il nuovo esercito popolare per prima cosa si occupò della ricostruzione di un ponte distrutto dai nazisti. Più in prospettiva, si cominciò a pensare a un giornale da diffondere in tutta l’area interna del salernitano, con la lungimirante idea di «generalizzare» la rivoluzione per non rimanere isolati. Il socialismo non in un paese solo, ma almeno in mezza provincia.
Il consenso al nuovo regime era talmente alto che nemmeno il Comando alleato, che aveva sede a Vallo della Lucania, osò opporsi. E tantomeno riuscirono a organizzare una controffensiva i notabili spodestati. Ma era chiaro che a zì Tomasi e compagni non sarebbe stato consentito di operare a lungo, soprattutto nella situazione autarchica in cui si trovavano. Il primo scontro avvenne una quindicina di gio...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Il trombettiere di Custer
  5. Il padre calabrese di Bob Dylan
  6. Don Felipe e il Venezuela italiano
  7. Alla riscoperta dell’Europa
  8. L’anarchico che fece saltare Wall Street
  9. Il libertario che incendiò Berkeley
  10. Il mafioso che leggeva Camus
  11. Il cuoco del re ciccione
  12. La repubblica popolare di Zì Tomasi
  13. Retroscena
  14. Postfazione
  15. Tiziana Rinaldi Castro…