Il comico della politica
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Nella comunicazione politica di Berlusconi il momento retorico del comico ha assunto una funzione sempre più prevalente, annullando irreparabilmente qualunque specificità della comunicazione politica. Ridotta a chiacchiericcio del tutto irriflessivo, la politica si svuota di ogni senso e allora per il ritrovamento dei significati pubblici bisogna rivolgersi altrove, al mondo dell'azienda, del denaro, degli interessi particolari. Il nichilismo del comico, che sbeffeggia la rappresentanza politica tradizionale, evoca dunque l'aziendalismo di un imprenditore che si propone agli elettori come il supremo decisore monocratico infastidito dagli stanchi riti della separazione dei poteri.

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Note
Capitolo primo Il comico nelle istituzioni
1 Quintiliano, Institutio oratoria, Milano, 2001, p. 945. Per l’analisi della comunicazione politica (intesa nel suo tratto differenziale di discorso linguistico-verbale per rendere credibile un messaggio costruito attraverso uno stile adeguato e con segni verbali o dispositivi visivi, immagini che portano in pubblico idee e interessi) servono ancora alcune ipotesi della retorica classica (quale discussione pubblica di politici o retori). «La parola retorica non deve sgomentarci. È difficile tradurre questo termine in una lingua moderna; esso indica l’arte del parlare in assemblee politiche» (S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Roma-Bari, 2000, p. 409).
2 P. Musso, Sarkoberlusconismo, Firenze, 2008.
3 Le etiche cognitivistiche postulano interazioni fondate sul parlare argomentativo attorno ad una ricerca cooperativa di soggetti che ricorrono ad asserzioni linguistiche con pretese di validità controverse. Ci sono però nella politica, in quanto spazio conflittuale, anche la necessità di non comunicare, il bisogno di rinunciare a valori di informazione e a pretese di verità. Di norma anche in politica la comunicazione è essenziale, al pari di altre scienze sociali. «La comunicazione rappresenta il punto cruciale nella costruzione di una semiotica rispetto alla semiologia. Dunque, se non c’è comunicazione, non c’è semiologia» (C. Brandi, Teoria generale della critica, Roma, 1998, p. 109). Non si può tuttavia esaurire la politica nella parola chiara e distinta, nella razionalità trasparente e vederla solo sub specie comunicationis.
4 Aristotele, Retorica, Milano, 1996. La retorica in Aristotele mostra una attenzione psicologica, sociologica, demografica alle differenziali caratteristiche del pubblico (S. Auroux, La filosofia del linguaggio, Roma, 1998, p. 50). Sui generi del discorso politico come specifica pratica di persuasione adattata ai caratteri dell’uditorio cfr. P. Desideri, Teoria e prassi del discorso politico, Roma, 1984, p. 35.
5 Come nota C. Pavese (Il mestiere di vivere, Roma, 2008, p. 334) per certi versi «un discorso di comizio ha la natura del rito religioso. Si ascolta per sentire ciò che già si pensava, per esaltarsi nella comune fede e confessione». Il comizio ha cioè una forza confermativa e rafforzativa (di credenze già solide) più che una potenza persuasiva e creatrice (di nuovi modi di sentire). Il comizio suppone un soggetto che compie una deliberata scelta recandosi in piazza. Con i media questa componente di volontarietà è solo apparente. Inoltre anche il contenuto decade, le parole diventano facili, lo slogan orecchiabile e tale da non essere respinto dalla maggioranza dell’uditorio. Ciascuno può seguire l’evento con distacco e senza l’attenzione che malgrado tutto si richiede per assistere a un comizio. Se, come nota Pavese, il comizio possiede una ritualità, una componente mitico-religiosa, nella comunicazione politica che avviene nella TV si perde questa dimensione poiché declina la compartecipazione, la presenzialità fisica accanto ad altri.
6 Sull’eloquenza attica cfr. D. Hume, La regola del gusto, Roma-Bari, 1981, p. 120. Un oratore deve essere preparato sui diversi argomenti oggetto della discussione. Se nel dibattito «capita qualcosa di nuovo, deve rimediarvi con la sua capacità inventiva, e la differenza fra le sue composizioni elaborate e quelle estemporanee non deve apparire troppo» (ivi, p. 121). Questa attitudine adattiva non pare molto sviluppata in Berlusconi ed egli, in caso di interruzione o domanda provocatoria, non mostra prontezza di spirito e cade sul piano dell’insulto, dell’irritazione, del gesto plateale. O si dilunga in un monologo infinito oppure sprofonda nell’incidente causato da un uso poco sorvegliato della lingua e da battute velenose.
7 G. Leopardi (Zibaldone, Roma, 1997) ricorda, a questo riguardo, che storicamente l’uso pubblico della lingua a fine di persuasione esige una straordinaria sorveglianza e senso del limite soprattutto quando i primi media rendono di valenza pubblica o nazionale le discussioni in parlamento. Infatti «la lingua inglese è parlata in parlamento in modo in cui possa essere scritta, dovendosi pubblicare le orazioni dei membri» (Zib., 2107). La pubblicità, assicurata dalla stampa, ha ancora un significato costruttivo, le istituzioni svolgono una funzione in certa misura pedagogica e moderatrice rispetto ad ogni eccesso verbale. Sulla costruzione della sfera pubblica cfr. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, 1977. Sul passaggio dalle sedute chiuse (a protezione anche della venalità dei parlamentari) alle sedute pubbliche (con resoconti dettagliati delle discussioni redatti da giornalisti ammessi in aula ma senza la possibilità di prendere appunti) cfr. J.-N. Jeanneney, Storia dei media, Roma, 1996.
8 C. Perelman, L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione, Torino, 1989. Secondo Perelman (Il dominio della retorica, Torino, 1981, p. 29) «un discorso convincente è quello le cui premesse e i cui argomenti sono universalizzabili, vale a dire accettabili, in linea di principio, da tutti i membri dell’uditorio universale». Una siffatta condizione è però irraggiungibile per l’argomentazione politica per il peso che nello spazio pubblico hanno sempre le risorse di potere, gli interessi, il conflitto, il pathos.
9 «Non che la volgarità sia l’essenza del comico, ma per qualche aspetto vi rientra» (H. Bergosn, Il riso, Milano, 2002, p. 33). Nondimeno la comicità, con i suoi giochi di parole, con le scenette che il politico organizza sul palco, non può identificarsi con il divertimento grossolano e con la perdita della specificità del ruolo istituzionale di chi parla.
10 Aristotele, Ret., cit., 1412a. Sulla teoria aristotelica del comico cfr. L. Olbrechts-Tyteca, Il comico del discorso, Milano, 1977.
11 Lo stile berlusconiano è diverso da quello usato dal commediografo Giannini che, nell’immediato dopoguerra, fu un inesauribile coniatore di nomignoli con i quali deformava l’identità degli avversari. Un quadro del linguaggio politico in Italia in E. Leso, Momenti di storia del linguaggio politico, in L. Serianni e P. Trifone (a cura di), Storia della lingua italiana, Torino, 1994, pp. 703 sgg.
12 «Il gesto esprime la maggior parte dei significati anche senza le parole», esso con il corpo svolge «la funzione del linguaggio verbale» e, entro certi limiti, esprime significati (Quintiliano, Institutio oratoria, cit., p. 1885). Il linguaggio del corpo può avere una funzione di integrazione, non di sostituzione integrale della parola.
13 Sul problema cfr. C. Brandi, Teoria generale della critica, Roma, 1998. Egli sottolinea che ogni fenomeno è simbolo, messaggio, segno, ma «la conversione in segno è un atto di intellezione, non di percezione» (p. 21). Occorre cioè una coscienza che «istituisca» l’attitudine significante di un segno, di una immagine. Per quanto riguarda la politica, la descrizione del segno non può essere separata dal significato dei segni.
14 Questa storiella è stata raccontata nelle più svariate occasioni da Berlusconi che sembra ignorare che «la peculiarità dei motti di spirito consiste nel fatto che essi producono il loro effetto pieno sul pubblico solo se sono nuovi per lui, se per lui sono una sorpresa» (S. Freud, Il motto di spirito, in Opere, Roma, 1992, I, p. 1142). Ma, evidentemente, il pubblico di Berlusconi è di tipo speciale, ride anche dinanzi alla reiterazione degli stessi suoni ascoltati già.
15 Il ridicolo, il ricorso al riso, le battute di spirito sono forme espressive raccomandate con grande cautela dalla retorica classica, che vede nell’umorismo un qualcosa di arcano, un «moto dell’animo che temo indescrivibile», che sfugge a «criteri razionali». È arduo stabilire da dove nasce il riso perché «si ride infatti di affermazioni e gesti non soltanto arguti e garbati, ma anche stupidi, rabbiosi o incerti, e perciò la natura del riso è ambigua, poiché esso non dista molto dalla derisione» (Quintiliano, Institutio oratoria, cit.,p. 1037). Nel discorso politico non può predominare il momento comico perché riguarda pur sempre interessi in conflitto.
16 Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari, 2001, p. 378. Se per Hegel «la pubblicità è il maggiore mezzo di educazione» (che suppone deputati che parlano tra loro sapendo che «devono servire da modello» per la cittadinanza), per la politica odierna, abituata al clima sovraeccitato della campagna elettorale permanente, quel momento di pubblicità per cui «le camere si connettono con il resto dell’opinione pubblica» esalta invece la demagogia, e persino la propaganda a sfondo commerciale. Non esiste comunque un’età dell’oro dell’oratoria parlamentare. Leopardi (Zib., 3440) rimarca la differenza tra antica retorica e moderna discussione parlamentare. Tra «gli oratori attici, spicca Demostene di cui s’ha e si legge dopo 2000 anni un’orazione per una causa di 3 pecore: mentre le orazioni fatte oggi a’ parlamenti o da niuno si leggono, o si dimenticano di là a due dì, e ne son degne, né chi le disse pretese né bramò né curò ch’elle avessero maggior durata».
17 Sulle caratteristiche del parlato cfr. M. Berretta, Il parlato italiano contemporaneo, in Serianni, Trifone, Storia della lingua italiana, cit., p. 267. Il parlato «seleziona una gamma di elementi lessicali che esclude la fascia più alta per registro (parole auliche e molto formali), ma include potenzialmente tutta la gamma dei sottocodici (termini tecnici)» (ivi, p. 267).
18 Aristotele (Ret., 1419b) ricorda che «Gorgia affermava correttamente che si deve screditare la serietà degli avversari con il riso, e il riso con la serietà». Berlusconi utilizza solo il primo aspetto dell’accorgimento di Gorgia, il secondo gli è estraneo del tutto perché la sua serietà è costruita come una postura, frutto di uno sforzo visibile e non pare mai come il suo più congeniale atteggiamento. Per Aristotele lo stile poetico è sconsigliato e anche gli eccessi nell’uso di metafore sono da scongiurare. Sulla eloquenza muta, ovvero sulla reticentia o interruptio e la sua efficacia comunicativa cfr. Cicerone, De oratore, Milano, 1999, III, 53, 205.
19 «Lo scritto è l’idealità astratta del linguaggio, il senso di uno scritto è perciò fondamentalmente identificabile e ripetibile» (G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, 1986, p. 451). Come nota Aristotele (Ret., p. 347) lo scritto ha uno stile assai diverso dal discorso improvvisato e orale in cui sono ricorrenti ripetizioni, asindeti». Berlusconi arriva ad esaltare la sua attitudine a parlare a braccio al punto da prendere dei fogli e leggere quanto aveva sostenuto in un suo discorso pronunciato senza un testo scritto
20 L’ethos ha a che fare con la reputazione, il prestigio, il carisma, l’autorità del politico e non con le mere componenti private e psicologiche della sua biografia. Quintiliano (Institutio oratoria, cit., p. 1021) rende il momento dell’ethos con «le qualità morali dell’oratore» che il pubblico reputa «credibili». Soprattutto «nelle assemblee conta moltissimo l’autorità dell’oratore» (ivi, p. 563) e l’effetto del discorso dipende dalle qualità di chi parla (la sua autorevolezza rende il pubblico più disposto verso i suoi argomenti). L’ethos che richiama la fiducia con cui il pubblico si rapporta all’oratore diventa anche una dimensione interna al discorso, una sua forma stilistica. Rientra cioè in quella costruzione artificiale del carattere di cui parla Machiavelli allorché suggerisce che il problema del politico non è quello psicologico o morale di essere buono o cattivo ma quello pubblico di sembrare buono o cattivo in relazione alle circostanze e alle tendenze dell’uditorio cui adattarsi per spingerlo con successo ad agire nelle maniere progettate.
21 L’amplificatio retorica in Berlusconi non è ben contenuta e quasi sempre sfugge alla sorveglianza critica: «Come si fa a non commuoversi in questo momento?». Egli dà libero sfogo all’inverosimile con le forme leggere del mito. Ripropone sempre l’idea fiabesca di un paese in preda ad una malattia mortale che un capo proveniente dal lontano e immacolato mondo dell’impresa ha la bontà di curare con dono di sé e eroico altruismo.
22 L’aggancio aristotelico tra retorica e persuasione è il principio di specificazione del linguaggio politico. Critico su questo nesso è però Quintiliano (Institutio oratoria, cit., p. 91), il quale coglie il connotato collettivo della retorica: «l’eloquenza nella realtà umana non avrebbe luogo, se parlassimo soltanto con singole persone».
23 Sulla dialettica tra illuminazione e nascondimento cfr. M. Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, 1979, p. 39.
24 Già Quintiliano (Institutio oratoria, cit., p. 1293) ammonisce che altro dovrebbe essere il linguaggio usato in assemblea rispetto a q...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Capitolo primo. Il comico nelle istituzioni
  5. Capitolo secondo. Politica e gioco
  6. Capitolo terzo. La comunicazione non concettuale
  7. Capitolo quarto. Il linguaggio del corpo
  8. Capitolo quinto. Il pubblico del nichilismo politico
  9. Capitolo sesto. Discorsi encratici ed acratici
  10. Capitolo settimo. La costruzione retorica di Berlusconi
  11. Capitolo ottavo. Il codice dell’economia
  12. Capitolo nono. Il successo della retorica degenerata
  13. Capitolo decimo. Una comunicazione politica deteriorata
  14. Capitolo undicesimo. Il comico getta la maschera?
  15. Note