APPENDICE
di Franca Merlo
Art therapy
Quella che segue è la relazione finale sui quattro anni di esperienza di art therapy, dal ’91 al ’95, che Franca Merlo ha vissuto con Paolo. Nella prima parte, destinata a una presentazione della storia di Paolo come caso di studio all’università di Roma, l’autrice ricorre allo pseudonimo di Pietro per garantire l’anonimato. Nella seconda parte della relazione, riservata agli operatori, si torna al nome vero. Il documento è di straordinario interesse ai fini della nostra vicenda, perché ripercorre con gli occhi di un’operatrice che utilizza lo strumento dell’arte per entrare nei meandri della psiche umana, molte delle vicende narrate nel libro.
Pietro
Pietro mi è stato presentato dall’équipe di una comunità terapeutica dove è ospite in trattamento. Ha 46 anni e ha trascorso la maggior parte della sua vita in ospedali psichiatrici, in uno di essi, anni addietro si dette fuoco in un letto di contenzione riportando gravi ustioni.
Anche presso la comunità che lo ospita Pietro, all’inizio, ha tentato il suicidio gettandosi dalla finestra riportando lesioni che lo hanno reso leggermente claudicante.
Pietro si ammalò verso i sedici anni e la diagnosi fu di schizofrenia che ormai si è stabilizzata.
Nel colloquio preliminare che abbiamo avuto, Pietro mi è sembrato subito interessato agli incontri di arteterapia che io gli ho proposto.
Alla prima seduta si è presentato puntuale, con atteggiamento mite e con gesti e andatura rallentati, sguardo timido e non diretto. Mi è sembrato anche totalmente privo di capacità di iniziativa sia nella parola che nell’azione.
L’ipotesi del quadro di personalità che ho fatto, dopo le prime notizie avute e le mie osservazioni, è stata quella di un’assoluta mancanza di un rapporto di fiducia e impossibilità attuale ad «arrischiarsi» nella relazione con l’altro; di un’immagine profondamente svalorizzata di sé intrisa di colpa; di inibizione corporea e della parola; con acting out autoaggressivi che sembravano rimandare a una subordinazione radicale dell’Io a un Super Io persecutorio fissato ad uno stadio arcaico-infantile (come un mago o uno spirito-padrone, onnipotente e malvagio).
Gli obiettivi che mi sono posta, pur prevedendo un percorso difficile, penoso e pieno di dubbi, sono stati certamente ambiziosi, però fin dall’inizio ero consapevole che anche il raggiungimento di alcuni di essi sarebbe stato comunque, per lui e per me, un buon risultato. Questi erano dunque i miei obiettivi: la possibilità di costituire una relazione di fiducia, a partire dalla quale poter sviluppare in Pietro la formazione di un’immagine meno svalutativa di sé, inoltre la possibilità di esplorare la natura del senso di colpa e del Super Io arcaico di tipo persecutorio (i tentativi di suicidio lo indicavano), che si era formato.
I nostri incontri sono stati settimanali.
La prima seduta ha dato subito alla relazione un chiaro significato interlocutorio. Il primo disegno occupava solo la metà superiore del foglio: a colori: una chiesa, un pagliaio, un albero e un carro condotto da un uomo che si dirige verso una grande strada che occupa la parte inferiore del foglio rimasto bianco. Questa strada mi è apparsa un invito: via aperta, in gessetto nero da percorrere insieme per iniziare un dialogo fatto di immagini e di simboli da cogliere ed elaborare (disegno 1).
Ho chiesto a Pietro quali degli elementi del disegno (carro, albero, chiesa, pagliaio) avrebbe voluto ingrandire e a quale avrebbe voluto dare più rilievo. Pietro ha scelto il pagliaio che ha riprodotto con segno sicuro e colori brillanti e su questo pagliaio giallo, due figure in verde su un carretto e arnesi da lavoro e lì accanto un grosso bue dall’aspetto paziente. A commento Pietro dice che le persone sul carretto sono un uomo e una donna, precisa che si tratta di due infermieri che discutono come fare il lavoro: il bue seduto aspetta di eseguire i lavori in discussione.
Questo disegno del bue paziente e in costante attesa delle decisioni altrui mi è sembrato l’immagine della passività di un animale potenzialmente forte e tollerante.
Si poteva dunque iniziare a lavorare ed entrambi siamo entrati in questo spazio dove le immagini, i materiali e i colori sarebbero stati gli strumenti centrali delle dinamiche interiori e interpersonali delle nostre future sedute.
Fin dall’inizio la partecipazione di Pietro è stata puntuale e attenta: ha disegnato sempre volentieri, con assiduità, all’ora stabilita era già lì, silenzioso dietro la porta, in attesa. Le immagini scaturivano con facilità dalle mani di Pietro che notavo particolarmente abili con i gessi e i pastelli.
È iniziata così una fase di intensa «luna di miele», che produceva in me sentimenti ambivalenti di fiducia e di ansia: un’ansia che cresceva man mano che la relazione si faceva più stretta. Mi sentivo la madre ansiosa della Malher che di fronte alla richiesta simbiotica del figlio risponde con segnali di allarme interno all’angoscia di incorporazione e di incerta definizione dei confini dell’Io. Sottolinea Benedek come la relazione simbiotica sia necessaria per il sano sviluppo del bambino e ricorda la Malher come l’elemento patologico rilevabile nella storia personale dello schizofrenico consista in molti casi nel fatto che la relazione simbiotica non si è mai affermata o non si è risolta nella prima infanzia. Proprio nel trattamento dei disturbi schizofrenici, la relazione simbiotica può dunque essere una fase iniziale necessaria al processo terapeutico, a cui il terapeuta deve saper acconsentire e a cui deve saper prendere parte insieme al paziente. A volte uscendo dalla seduta avvertivo un senso di estraneità, una chiara difesa contro la indifferenziazione della simbiosi, quasi un recupero dei miei confini attraverso l’ansia.
In questa fase le immagini fluivano con facilità presentando animali fallici non ben definiti quasi in cerca d’identità (dis. 2). Osservo una scena di accoppiamento anale che avviene in un «luogo» popolato da personaggi fantastici. Pietro parla molto poco e non accetta né stimoli né suggerimenti di sperimentazione di materiali diversi; è una fase di silenzio e immobilità, come se Pietro mi volesse lì ferma ad accogliere gli animali bizzarri che compaiono via via. Mi chiedevo se avrei avuto la forza di restare in silenzio, silenzio per me molto difficile da sostenere, e di non «fuggire».
Ripensavo a quanto scrive Searles a proposito del processo di crescita che la relazione terapeutica comporta: il paziente non riuscirà a identificarsi con un terapeuta che sfugge da tutte le parti per inseguire i vari frammenti di personalità, al contrario il terapeuta troverà che molto spesso la mossa più utile è quella di rimanere «immobile».
Il segnale della fine di questa prima fase è stato la comparsa di un disegno molto diverso dagli altri, che mi fece intuire che qualcosa di nuovo stava accadendo. Pietro lo aveva intitolato «otto volante». Apparivano dei cerchi «come le montagne russe», che diventavano concentrici e intricati sempre più come «le cose difficili e complicate dello studio in cui lui non riusciva a districarsi». Ad un tratto i cerchi in cui era impossibile districarsi si sono tramutati per Pietro negli occhi di suo padre (dis. 3).
E così Pietro per la prima volta mi ha parlato del padre, ammiraglio ed eroe della seconda guerra mondiale; un padre potente e inesorabile che lo rimproverava e lo faceva sentire debole e senza valore dinanzi ai suoi insuccessi scolastici.
Dopo questo disegno è iniziata la serie delle «navi ammiraglie». Conoscendo fin troppo bene tutte le imbarcazioni della Marina Militare, Pietro le ha riprodotte in gran numero con grande dovizia… finché un giorno è comparsa una piccola nave incendiata che cola a picco assaltata da tre grosse navi da guerra (dis. 4).
In questa fase i disegni di Pietro mi coinvolgevano sempre di più: il padre militare, la difficoltà di sopportare questa presenza più potente di quella di altri padri perché «comandante» per mestiere. Pietro aveva un Super Io tanto severo e autoritario quanto severa, rapida e autoritaria doveva essere stata la rimozione del complesso edipico attraverso un’educazione impartita rigidamente.
Il Super Io aveva conservato il carattere del padre? In questo periodo più di prima non riuscivo a parlare molto, né a dare stimoli, come in simmetria con Pietro, che non ne accettava e parlava poco. Alla fine ho rinunciato definitivamente a quasi ogni intervento. Tacevo, osservavo, accoglievo: ero il testimone. Finché di sua iniziativa, una volta, ha voluto farmi un ritratto: ed è comparsa una vecchia orribile, con un viso duro, e con gli «occhi del padre». Non mi sono piaciuta, ho chiesto a Pietro cosa diceva quella vecchia (perché lei, forse, avrebbe parlato, tra noi o per noi, immersi nel nostro reciproco silenzio nato dalle sovrastanti presenze delle navi ammiraglie). E allora è accaduta una cosa stranissima: Pietro ha cominciato a scrivere le domande della donna e le risposte che lui le dava; Pietro che di solito parla a monosillabi, scrivendo ha intavolato un dialogo con la donna molto fitto. Ha detto che la donna aveva occhi penetranti che avevano tanto sofferto e che rivelavano che lei era addolorata «per non aver conosciuto l’amore per lui». Poi le ha detto che lui non aveva quello che gli spettava. La donna aveva chiesto spiegazioni, e Pietro con improvvisa ostilità le aveva risposto che a lui spettava l’amore di una ragazza sia pure una prostituta, e non di stare qui «con una vecchia rimbecillita che stava a c...