Due pacifisti e un generale
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Informazioni sul libro

Vincenzo Camporini, capo di stato maggiore della Difesa racconta a due giornalisti pacifisti, Armeni e Giordana, tutte le tappe della rivoluzione che si è prodotta nelle forze armate italiane dalla caduta del muro di Berlino ad oggi. Un cambiamento che non è stato solo organizzativo, ma anche concettuale e ideologico: ha riguardato l'idea di pace, di guerra, di disciplina, di gerarchia, di comando e di tempo. Nel libro ci sono molte domande scomode, ma anche verità finora mai svelate sulle missioni italiane all'estero, sulla lunga guerra afgana, sui rapporti con gli eserciti degli altri paesi e con le organizzazioni non governative.

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Informazioni

Capitolo primo
L’esercito ha fatto la rivoluzione?
All’aeroporto di Albateen, dove gli italiani hanno una base logistica ospitata dagli Emirati arabi, la coda è lunga per tornare a casa. Il C-130 grigio fumo apre i portelloni e un ufficiale dell’aeronautica spiega, con voce ferma, che nel percorso dalla casermetta al velivolo le armi non devono essere esposte perché siamo in un paese amico e ci sono alcune regole da rispettare. I militari, che ci stanno dando un passaggio da Kabul a Roma via Abu Dhabi, si mettono a trafficare con gli zaini appena traghettati da un altro C-130 e uno fra loro, un ragazzone dal viso aperto con cui abbiamo appena scambiato quattro chiacchiere, comincia a far posto nel suo per metterci non sappiamo quale diavoleria automatica. Nel farlo tira fuori una massa di libri sull’Afghanistan che ci lascia di stucco: dai saggi di Rashid ad «Afghanistan» di Elisa Giunchi, dalle raccolte di «Limes» ai viaggi di Chatwin. Quel giovane soldato espone una piccola libreria dotta e ricercata. Che cosa gli ha fatto preferire l’apparentemente inutile volume cartaceo a qualche bel tappeto turcmeno? E perché, ci chiediamo, un militare che pensavamo abituato a distrarsi con Tex Willer o che, al più, dovrebbe leggersi Von Clausewitz e Sun Tzu si documenta con tanta passione sul paese dove è appena stato per i suoi quattro mesi di missione? Quello zaino, stracolmo di libri come una piccola ma raffinata libreria di quartiere, spiazza immediatamente una convinzione radicata. Quel giovane è la dimostrazione che qualcosa è cambiato, che ci troviamo di fronte a un militare diverso: che sta preparando la sua tesi di laurea sull’Afghanistan o che ha scelto di capire meglio il paese dove opera e la gente che lo abita. Capiremo poi che questa scelta, solo in parte soggettiva ed esplicitata da quell’esibizione involontaria di sapere, fa parte di un piano coerente delle Forze armate e anche di una umanità diversa, più colta e più attenta. Lo zaino di quel soldato darà la stura a un interesse e una curiosità latenti. Scopriremo da quello zaino, come poi il generale Camporini spiega, che le Forze armate hanno fatto una «rivoluzione». Termine forte, ma seducente, e, di fatto, vero. Ancorché questa rivoluzione culturale e sociale strutturale, sia quantitativamente sia qualitativamente – nel senso di una modificazione quasi «genetica» della figura del soldato –, sia stata essenzialmente silente. O, almeno, non notata dai nostri media. Prende probabilmente le mosse dalle intuizioni di Beniamino Andreatta, il ministro della Difesa democristiano (nel primo governo Prodi dal 1996 all’ottobre 1998) che iniziò la riforma ridisegnando ruolo e funzioni degli stati maggiori. Una riforma che passa poi, essenzialmente, dalla fine della leva obbligatoria (1999) ma anche dalla presa di coscienza che, dopo il 1989, il mondo era cambiato. Era sparito il nemico storico della guerra fredda e si affacciavano, invece, le grandi missioni multinazionali con bandiera ONU e dunque una nuova sfida politica, diplomatica e militare che anche un esercito deve saper affrontare. Come?
Nelle Forze armate italiane è avvenuta una rivoluzione. Non lo diciamo noi, l’ha detto lei. Si tratta di una parola impegnativa soprattutto se pronunciata da un generale e, ancora di più, da un generale che è il capo di stato maggiore della Difesa, cioè il militare più alto in grado. Che cosa intende dire quando parla di rivoluzione?
È vero, ho parlato di rivoluzione. E uso questa parola a ragion veduta perché negli ultimi vent’anni, dalla caduta del muro di Berlino, il soldato ha assunto un ruolo diverso e ha imparato un mestiere differente rispetto al passato. Dalla fine della guerra fredda tutto è cambiato e le Forze armate hanno avuto una presenza attiva nella politica estera che ha richiesto e richiede comportamenti e ruoli culturali diversi dal passato. Il soldato del 2009 ha poco in comune con quello del 1989. Il suo compito oggi non consiste solo nel conseguire, come qualche anno fa, un risultato puramente operativo. Il soldato non è più colui che ha un nemico da sconfiggere per diventare padrone del campo di battaglia. La sua capacità – per questo parlo di mestiere – deve essere quella di intrecciare un dialogo con attori estranei al mondo militare, appartenenti, ad esempio, a quello delle istituzioni o delle organizzazioni non governative. Si deve misurare con questa nuova platea e, per farlo, si è dotato di una cultura diversa, radicalmente differente.
Il suo ruolo si è allargato, è diventato multidimensionale. Oggi fa parte di un fronte più ampio e ha degli interlocutori di cui deve sapere tener conto. Se il militare vuole fare bene il suo lavoro, questi altri attori diventano rilevanti. Il soldato deve imparare a misurarsi anche con loro e quindi deve usare strumenti diversi dal fucile: strumenti culturali, economici, imprenditoriali. Se si vuole che il paese consegua il suo obiettivo in un conflitto è necessario che lo strumento militare sia in grado di interloquire con tutti gli attori. Per questo mi pare giusta la parola rivoluzione.
Il militare di oggi è diverso, lei dice, ma in che cosa esattamente? Anche oggi usa le armi e, se parte per missioni all’estero, si trova a combattere. Come accadeva in passato.
È il fine che è differente, radicalmente differente. Fino al 1989 l’obiettivo del militare era quello di vincere la battaglia o le battaglie. Oggi il suo fine è quello di conseguire un obiettivo politico, cioè un livello di stabilità idoneo allo sviluppo delle attività umane, garantendo condizioni di sicurezza. Faccio un esempio: per le comunità che vivevano nei Balcani nel 1991 pareva che non ci fossero prospettive e l’unica possibilità sembrava il conflitto o uno stallo in cui tutt’al più si poteva rimanere padroni del proprio orticello. L’intervento militare è servito a dare a queste comunità una prospettiva inimmaginabile prima: quella dell’Europa, dell’Alleanza atlantica e, dunque, prospettive di sviluppo economico che erano inconcepibili.
Un pacifista le direbbe che sia il vecchio soldato sia il nuovo usano le armi e la forza. Che, insomma, non è cambiata la sostanza.
È vero, in entrambi i casi si può usare la forza, cioè lo stesso o gli stessi strumenti di prima. Ma questi possono essere utilizzati per vincere una battaglia o per garantire sicurezza e stabilità. Dopo il 1989 il compito delle Forze armate è quello di garantire condizioni di sicurezza. Insisto: è una rivoluzione. E aggiungo che neppure le condizioni di sicurezza sono fini a se stesse, ma a loro volta servono – questo il nostro compito, il compito del nuovo soldato – a far sì che altri, gli Stati, i governi, le istituzioni possano svolgere il loro lavoro. Di qui la necessità del dialogo, che non è un mezzo subdolo per raggiungere un accordo, ma lo strumento per capire le rispettive esigenze. In questo quadro il militare è attore in un palcoscenico molto più complesso in cui di comprimari ce ne sono molti altri e in cui gli scenari si modificano e cambiano. Cambia per esempio la stessa nozione di tempo… Fino al 1989 i tempi delle nostre azioni si susseguivano e a un’azione militare ne seguiva un’altra, dopo una battaglia ne veniva un’altra, dopo il raggiungimento di un obiettivo ce ne ponevamo un altro… una sequenza di eventi. Oggi, invece, i nostri sforzi si devono svolgere contemporaneamente. Non possiamo pensare, ad esempio, a un’azione di sicurezza che non garantisca anche sviluppo economico e sociale. L’una non può esistere senza l’altro.
Questi cambiamenti di cui lei parla riguardano solo le Forze armate italiane o anche quelle degli altri paesi? Insomma la rivoluzione è stata compiuta solo in Italia o risponde ad una consapevolezza generale degli eserciti europei e non solo europei?
La nuova situazione internazionale, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del pericolo che poteva venire dall’URSS, è stata recepita e compresa da tutti, quindi dalle Forze armate italiane come da quelle di altri paesi. La rapidità con cui le Forze armate dei vari paesi si sono adeguate ai cambiamenti internazionali dà il segno della loro efficienza e la misura della loro maturità. L’esercito italiano può essere orgoglioso del modo in cui ha affrontato la situazione dopo l’89. Di chi è il merito? Intanto del nostro sistema educativo che, con tutti i suoi difetti, forma ragazze e ragazzi che, completato il ciclo di studi superiori, hanno acquisito una capacità di pensare e una maturità che permette loro non solo di essere buoni esecutori, ma soprattutto di essere esecutori consapevoli. Una nuova e migliore formazione c’è anche in altri paesi, ma ci sono milieux culturali in cui è più difficile la sua applicazione. Per noi è stato più facile.
Possiamo quindi dire che la differenza fra le Forze armate italiane e quelle degli altri paesi sta nella rapidità con cui hanno compreso il cambiamento della situazione mondiale dopo la caduta del muro e si sono adeguate?
Sì, possiamo dirlo. E aggiungo che da aviatore devo constatare soprattutto il cambiamento delle Forze di terra. Nella marina e nell’aeronautica la capacità di interloquire con altre realtà era già sviluppata. Avevano già vissuto la guerra fredda nel rapporto con altri paesi. Io, negli anni Ottanta, volavo per tutta Europa. I miei colleghi della marina conoscevano tutti i mari del pianeta. L’esercito era ancorato, invece, alla soglia di Gorizia e il rapporto che aveva con il resto del mondo era sporadico. Il timore, quindi, che, messo di fronte alla necessità di proiettarsi all’estero, avrebbe perso in funzionalità era reale. Ma così non è stato. Oggi abbiamo soldati, ufficiali e sottufficiali che lavorano con efficacia fianco a fianco con altri contingenti dal Bangladesh agli Stati Uniti.
Quali ritardi oggi si possono constatare negli altri eserciti?
Paradossalmente chi faceva meglio il suo mestiere di soldato prima oggi ha avuto qualche difficoltà in più. Era abituato, come dicono gli anglosassoni, ad essere un warfighter e basta. Anche noi avevamo questa attitudine, ma l’avevamo in modo meno marcato e questo ha finito per agevolarci. Le difficoltà maggiori le ha avute il mondo anglosassone: americani, inglesi, australiani… Gli italiani, inoltre, sono stati avvantaggiati dal fatto di avere uno strumento come l’Arma dei carabinieri, un anello di congiunzione fra le capacità militari e le capacità civili, intendendo per capacità civile quella di operare sul terreno. Stare in mezzo alla popolazione porta a comprenderne i bisogni. Noi abbiamo questa struttura da quasi due secoli e indubbiamente è un valore aggiunto. Altri paesi hanno organizzazioni simili, la Francia, ad esempio, con la Gendarmerie, la Spagna con i Carabineros. Paesi che, non a caso, hanno dimostrato capacità di adattamento alle nuove necessità strategiche.
Ha sicuramente contribuito al cambiamento che cerchiamo di descrivere il passaggio dall’esercito di leva a quello professionale. È stato un passaggio importante, al quale molti sono stati contrari e che, a suo tempo, ha provocato una discussione nel nostro paese. Che cosa ha significato? Che cambiamenti ha comportato?
È stato un passaggio critico, un’opportunità di cambiamento reale. Credo che la trasformazione in Forze armate volontarie sia stato un grande atout. Oggi abbiamo una capacità di selezione dei nostri soldati e delle nostre soldatesse particolarmente favorevole.
Ci sono da sei a otto candidati per ogni posto a bando. Sono ragazze e ragazzi che hanno ultimato le scuole superiori e che hanno quindi il livello di preparazione culturale che consente loro di misurarsi con popoli e realtà culturali lontane da noi in Libano, in Kossovo, in Afghanistan. Con quel passaggio, inoltre, abbiamo dovuto modificare completamente e radicalmente gli assetti formativi e comportamentali delle Forze armate. Non posso dire che l’esercito di leva non fosse efficace. Le prove date in Mozambico e in Somalia sono state più che dignitose, per certi versi lodevoli. Ma è vero che la flessibilità di impiego del professionista è diversa da quella del soldato di leva. Ciò ha permesso di utilizzare le Forze con più agilità e con più efficacia. I nostri reparti sono cambiati. E sono cambiati molto. Il soldato ha la consapevolezza di fare qualcosa che ha un senso, un significato. Il suo atteggiamento non è e non può essere passivo, è molto più attivo di quello di un ragazzo che, nel passato, per forza doveva sottostare a un’attività che non aveva scelto. Nel professionista c’è un’assunzione di responsabilità del singolo che cambia il modo di essere. E che va di pari passo con i mutamenti tecnologici. È chiaro che l’introduzione delle tecnologie informatiche (e oggi c’è un uso massiccio di queste tecnologie) fa sì e rende necessario che ciascun operatore, dal soldato semplice in su, sia in grado di prendere delle decisioni. La conoscenza della situazione gli è assicurata proprio dagli strumenti informatici. Siamo di fronte, di nuovo, a un cambiamento radicale. Il soldato diventa quello che gli americani, con una immagine pittoresca, definiscono «sergente strategico»: un militare che è in grado di prendere decisioni importanti. E questo in passato non lo poteva fare.
Fermiamoci un momento. Perché già questo ci pare cambi moltissimo del modo di essere delle Forze armate. Se anche i gradi più bassi sono in grado di prendere delle decisioni, non viene di fatto intaccato l’ordine gerarchico, forse anche lo stesso concetto di disciplina? E questi due valori, disciplina e gerarchia, non sono di poco conto nel mondo militare. Non è così? E se è così quali sono le conseguenze?
È vero, molte cose stanno cambiando e altre cambieranno. Siamo di fronte a un processo. Il modello di disciplina e gerarchia di oggi non è quello del passato e neppure quello che si affermerà probabilmente in futuro. Ma il cambiamento non riguarda solo il soldato, che oggi obbedisce sapendo però perché lo fa e, quindi, con maggiore consapevolezza. Il cambiamento riguarda soprattutto il suo superiore, che nelle nuove Forze armate deve farsi rispettare guadagnando la fiducia dei suoi sottoposti. Il comandante di oggi è molto diverso dal capo di ieri. Comandare oggi è molto più difficile di quanto non lo fosse una generazione fa.
Ci sta dicendo che occorre più autorevolezza che autorità?
L’autorità è nelle nuove Forze armate un concetto vuoto. Solo l’autorevolezza permette di trasmettere al sott...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Da dove nasce questo libro
  5. L’esercito ha fatto la rivoluzione?
  6. Un esercito di generali?
  7. La fine dell’esercito dei «maschi»
  8. Guerrieri o soldati di pace?
  9. Iraq, Afghanistan, Balcani. Tra missione e guerra
  10. La differenza italiana
  11. La Caserma e il Palazzo
  12. Il tricolore e l’arcobaleno
  13. Sbatti il basco in prima pagina