E la casa dov'è
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E la casa dov'è

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E la casa dov'è

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Informazioni sul libro

Ospiti temporanei, occasionali; docce e sportine con cena e colazione; lavanderia e spesa settimanale. Uomini e donne che qui hanno trovato un letto in cui dormire, pasti caldi, abiti puliti e ascolto. Questo è il Re di Girgenti, un dormitorio pubblico gestito dai volontari del Comitato cittadino antidroga di Ravenna. Con paziente discrezione da allenata professionista del racconto della realtà, Carla Baroncelli si mette in ascolto e dà voce, volto e memoria a ciascuno di questi espropriati della vita che hanno smarrito lavoro, soldi, casa, famiglia, e la coscienza di sé. Una scrittura prensile che costruisce con abile misura narrazioni di vite in transito.

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Informazioni

Editore
Ediesse
Anno
2012
ISBN
9788823016927
Questo è il dormitorio, la nostra casa
L appuntamento è per le quindici. A Ravenna in via Mangagnina 61. Parcheggio poco lontano. Attraverso la strada. Il 61 corrisponde a una palazzina d’angolo di due piani, un parallelepipedo decoroso, anni cinquanta. Una serie di finestre lunghe e strette a pochi centimetri da terra fanno intuire un seminterrato. Appesa al muro una targa di mosaico su cui è scritto: «Re di Girgenti 2003». Prima di venire qua ho cercato su internet per sapere l’origine del nome. È la citazione dell’omonimo romanzo storico-fantastico di Andrea Camilleri: racconta del contadino Zosimo che, nel 1718, il popolo acclamò re di Girgenti, oggi Agrigento. I nobili però lo catturarono e condannarono. Ma un attimo prima del taglio della testa, Zosimo s’attaccò alla corda di un aquilone e s’involò nel «libero cielo della fantasia».
Accanto al cancello c’è una fila di campanelli: uffici, vuoto, custode, Associazione S. Apollinare, Asilo notturno. Suono. Dalla finestra del piano rialzato si affaccia una testa maschile, che subito si ritrae. Qualche minuto e dal portone esce un uomo alto, magro e flesso che mi guarda con aria interrogativa e ispida, come la sua barba sfatta.
– Cerco la signora Carla Soprani, ho un appuntamento con lei. – dico educata.
– Non c’è. – la sua voce è secca.
– Posso aspettarla dentro? Fa un gran freddo oggi.
– Fino alle cinque e mezza non posso far entrare nessuno.
Non mi resta che rispondere:
– Va bene, aspetto.
Chiamo Carla al cellulare, che risponde affannata:
– Scusami sto arrivando, due minuti e sono lì.
Oggi fa proprio un gran freddo e su questo marciapiede d’angolo si concentrano gli spifferi delle strade che si incrociano. Il vento scuote anche gli alberi del cortile della palazzina. Nulla di strano meteorologicamente parlando, visto che siamo a metà gennaio. Sui cartelli vicino al campanello ci sono scritti gli orari delle entrate per le docce e i pasti. Dietro l’angolo destro, sul retro, c’è un cortile. Parcheggiato di traverso a cavallo del cancello c’è un furgone di un gruppo di volontari. Due uomini stanno scaricando degli scatoloni: probabilmente sono i volontari dell’Associazione S. Apollinare. In fondo al cortile c’è un capannone parzialmente coperto da teli di plastica e una tettoia. Tre file di panni sono stesi ad asciugare. Stesi, per modo di dire, sono piuttosto appesi e rannicchiati come se stando stretti gli uni agli altri si scaldassero. Torno sul davanti dell’edificio. M’appoggio alla ringhiera con le mani in tasca e il cappuccio del piumino tirato sul naso. Proprio oggi ho dimenticato i guanti a casa.
Carla Soprani, che sto aspettando, è la responsabile del Comitato cittadino antidroga che gestisce questo dormitorio, in convenzione con l’Azienda servizi alla persona. Carla e suo marito Gianremo, oltre a dodici volontari, sette donne e cinque uomini, s’alternano ogni giorno dell’anno per accogliere chi non ha più nulla.
Il pelo che borda il cappuccio mi solletica il naso, lo tiro indietro e soffio in su. Carla ancora non si vede. Siedo sotto i cartelli, sul bordo del muretto, appoggiata alla rete metallica. Il cappuccio mi ritorna sul naso. Dal naso al collo mi copre la sciarpa. Mi rannicchio e mi scaldo col respiro. Solo alle natiche sento uno spiffero maledetto. Dovrei tirar giù il piumino, accidenti al piumino corto! Dovrei togliere le mani dalle tasche, non ho i guanti. Mi ci vorrebbe un sacco a pelo. Sento la frenata di una bicicletta. Protendo gli occhi da sotto al pelo e vedo un ragazzo altissimo, occhi immensi che illuminano la sua pelle scura. Sicuramente senegalese. È giovane, bellissimo, con una berretta bianca calata sugli occhi. Mi guarda incuriosito. Credo mi abbia scambiato per una barbona in cerca di un riparo. Barbona? Riaffondo la testa nel collo. Il ragazzo suona il campanello. La solita testa s’affaccia:
– Cosa vuoi? Si entra alle cinque e mezza.
– Ho il permesso, sono stato a lavorare, apri. – la sua voce ha una inflessione fra il francese e il dialetto romagnolo.
– Torna alle cinque e mezza.
– Non posso stare in mezzo alla strada fino allora, apri che fa freddo.
Poco dopo l’uomo s’affaccia al portone e si apre il cancello.
Il ragazzo mi guarda, come per dire «io ho diritto di entrare» ed entra sbuffando e imprecando. Porta la bicicletta nel cortile a destra della casa. Poi entrano entrambi. Io ancora lì seduta, aspetto.
Girando la testa, vedo che Carla sta arrivando.
Piccola, capelli corti bianchi, colorita d’incarnato o di freddo, sorride e socchiude le palpebre dietro gli occhiali da vista.
– Scusami ancora. – ripete cercando qualcosa nella borsa.
– Non importa. Ho suonato ma non mi hanno fatto entrare.
– Hanno fatto bene, perché io non avevo avvisato che saresti venuta. Non ho avuto un attimo per respirare.
Carla apre il cancello. L’uomo di prima s’affaccia al balcone.
– Quello è il custode? – chiedo.
– No, no. È uno dei nostri ospiti. Esce pochissimo e non parla volentieri. È un uomo solitario.
Quattro passi e si arriva al portone di legno. Un’altra chiave, e Carla lo spalanca:
– Questo è il dormitorio, la nostra casa.
Appena dentro ci si trova di fronte a due scale di graniglia, con la ringhiera in muratura. Una sale, l’altra scende. Carla mi precede e sale. Dieci gradini.
– Dopo ti faccio fare un giro. Passiamo prima in cucina.
L’odore ci guida in fondo a destra.
Si entra in un gran salone.
– Ciao…– dice Carla rivolta all’Uomo solitario, che sta mettendo a posto le stoviglie.
A destra c’è una grandissima cucina con sei potenti fornelli, un forno doppio e un ripiano in basso per tener calde le vivande.
– Questa cucina ce l’ha regalata la Consar di Ravenna, vedi è proprio come quella dei grandi ristoranti – illustra Carla – Manca ancora la cappa sopra ai fornelli, ma arriverà presto anche quella. Ce l’ha promessa il Lions.
Anche il lavello è doppio e molto profondo. Una porta finestra si apre su un balconcino. Tende bianche a velare i vetri. Un tavolo lungo con due panche di legno addossate alla parete. Tutto è pulito e ordinato.
L’Uomo solitario è ancora alle prese con le stoviglie e non alza la testa, neppure quando Carla gli dice:
– Queste sono le sportine. Sono 45, spero che bastino per stasera. Sai – continua rivolgendosi a me – ci sono delle sere che distribuiamo anche cinquanta, sessanta pasti.
Poi mi presenta come una giornalista venuta per raccogliere le storie degli ospiti del dormitorio. L’Uomo solitario continua a mescolare il sugo che bolle.
Carla controlla la lista appesa al muro coi turni della settimana e legge ad alta voce i nomi di chi oggi cucinerà e cosa, a pranzo e a cena, di chi rigovernerà e di chi farà le pulizie delle stanze.
– Nel 2003, quando è stata aperta questa casa, era un dormitorio con prima colazione. Solo in un secondo tempo, pian piano, è stato trasformato in un luogo di accoglienza. Potendo così seguire gli ospiti anche durante il giorno, è stato possibile stimolarli anche a cercarsi un lavoro. In questo periodo però, non si trova nulla, e il problema si è ingigantito. È facile che finiscano in depressione o che entrino in giri poco piacevoli. Allora si cerca di coinvolgerli di più all’interno della struttura: c’è chi cucina a mezzogiorno, chi alla sera, chi riordina, chi pulisce la stanza, chi lava. Difficile è convincere gli uomini, sia italiani che stranieri, a fare i lavori domestici: per cultura, in casa, i maschi non fanno niente. Queste sono le regole: a turno, ogni ospite interno ha qualcosa da fare in casa. E non si ammettono deroghe, altrimenti non si può vivere così in tanti in poco spazio.
A sinistra, nello stesso ambiente c’è il salotto, con tre tavoli tondi, un divano. Un alto finestrone dal quale si vede il vento che strapazza la testa degli alberi. I vetri appannati rivelano il freddo che fa fuori.
Carla continua a parlare uscendo dalla cucina e salendo le scale, sempre con me dietro.
– In questi giorni, stabilmente, ospitiamo quindici maschi e due femmine. Il clima in casa è molto buono in questo periodo. In questo periodo, ripeto, ci sono poche tensioni. C’è un regolamento che va fatto rispettare e va rispettato da tutti. Però, come in ogni grossa famiglia, c’è sempre quello che cerca di prevalere sull’altro, che vuole primeggiare.
C’è comunque più conflitto fra le donne che fra gli uomini. Ho sempre detto che preferisco diciotto maschi, a tre femmine. Adesso no, perché le due donne sono pacate e sensibili fra loro. In passato abbiamo avuto donne più giovani che creavano zizzania anche fra loro, ma sono momenti che abbiamo imparato a gestire. Quando abbiamo cominciato spesso facevamo intervenire le forze dell’ordine, ora le chiamiamo poco perché l’esperienza ha reso, noi volontari, più maturi. La cosa più bella è che se qualcuno dà in escandescenze od offende gli operatori, c’è una forte alleanza degli ospiti in difesa della struttura stessa. Qualche anno fa è stata qui una donna croata che ci ha creato diversi problemi: non faceva niente tutto il giorno e si faceva servire dagli altri ospiti. Contro di lei si è scatenato tutto il dormitorio. Fino a che siamo riusciti a mandarla in un’altra struttura. Saltuariamente, quando c’è un po’ di fibrillazione interna facciamo delle riunioni di casa, di gruppo: cerchiamo di aiutarli ad aiutarsi.
Arriviamo al secondo piano e varchiamo una porticina.
– Questo è lo studiolo, ma ci sto proprio poco. È una specie di confessionale. Registriamo al computer le presenze giornaliere, ma spesso c’è qualcuno che ha bisogno di confidarsi, di un conforto o di una spinta per tirarsi su.
Un tavolo coperto di carte e carpette, un computer spento con la stampante vicina, una bacheca con degli avvisi puntati sopra, uno schedario alto con un cassetto aperto.
– Cos’è un dormitorio? – chiedo a Carla, appena ci siamo sedute al tavolo.
– Io lo vedo come una casa che accoglie le persone per un periodo di tempo, in un momento di difficoltà, come se dovessero attraversare un ponte da una sponda all’altra. Dalla sponda dove sono, nel disagio, devono passare di là. Siamo arrivati a traghettarne fino al 70 per cento. A qualcuno è bastato un mese, ad altri c’è voluto qualche anno. Ognuno ha i propri tempi. Io non giudico.
– Come arrivano qui gli ospiti?
– Questo è un dormitorio pubblico. Le persone che vengono qui ci sono segnalate dai servizi sociali del Comune. Vieni che ti faccio vedere.
Carla ha una velocità nel fare che a volte ci si confonde. Si muove, fa tante cose contemporaneamente: copia appunti, trascrive annotazioni, mette una cartellina nello schedario e intanto parla con me. Faccio fatica a starle dietro. A occhio avrà sui sessant’anni, piccolina, bianca con la pelle pallida e vellutata. Dietro gli occhiali, fissa gli occhi dritti nei tuoi.
– Uno arriva qui perché è costretto: non ha casa, né lavoro e spesso si trova in mezzo alla strada. Qualcuno bussa alla nostra porta per ricevere una mano, molti invece sono restii a chiedere aiuto, per orgoglio, forse. Prendono la sportina a testa bassa e se ne vanno.
Entra un uomo e porge a Carla un mazzo di chiavi.
– Io vado a prendere la biancheria. Queste sono le chiavi. Ci vediamo dopo. Buonasera. – dice poi rivolgendosi a me.
– Questo è mio marito, Gianremo. Anche lui volontario come me. – dopo la stretta di mano, come se non fossimo state interrotte, Carla riprende a parlare dal punto in cui si era fermata.
– Gli ospiti arrivati più di recente sono quelle persone, e ce ne sono sempre di più, che, una volta perso il lavoro, non hanno più potuto pagare l’affitto e sono stati sfrattati. Gli sfrattati, per me sono i casi più dolorosi e faccio fatica ad accettare questa realtà. Case popolari, poi non ce ne sono. L’ufficio case del Comune non ha più niente. E dove vanno le famiglie sfrattate? Il fatto terribile è che così si smantellano le famiglie, perché non ci sono neppure strutture che prendono tutti, in blocco. Qui, al dormitorio, possono stare solo i maggiorenni, quindi, se nella famiglia ci sono dei bambini, la donna coi figli viene mandata da un’altra parte, come per esempio, al Maggese sulla Romea, gestito dal Ceis. E l’uomo sta qui da noi. Chi non accetta di dividere il proprio nucleo famigliare, va per un po’ da amici, oppure dorme con la famiglia in macchina. Abbiamo un caso così, e magari te lo fai raccontare da Mohammed, se vuole. Qui, in ogni modo, non sarebbe salutare per i bambini convivere con dei tossicodipendenti, alcolizzati, o persone con problematiche mentali. Ognuno ha il proprio medico di base, per le urgenze chiamiamo la guardia medica o il 118. Ultimamente c’è una dottoressa volontaria. È ancora ai primi passi e prescrive le medicine più semplici. Abbiamo anche un avvocato, che volontariamente sostiene chi ha problemi con la giustizia.
Carla ha finito di mettere in ordine la scrivania.
– Vieni che ti faccio vedere il resto della casa. – continua avviandosi verso la porta – Qui di fronte c’è un bagno per gli uomini. E questa è una delle stanze per gli uomini. Invece, in fondo al pianerottolo, c’è l’altra stanza. I maschi stanno tutti in questo piano.
Entriamo nella camera più vicina. In uno dei letti c’è sdraiato un ragazzo che dorme con un braccio ripiegato sulla faccia.
– Ehi Paolo, lo sai che non si sta a letto durante il giorno, a meno che uno non sia ammalato.
– Ho mal di testa – bofonchia Paolo da sotto il gomito.
Intanto un uomo tarchiato, con gli occhi a fessura e due guance paffute, si alza dal letto a fianco e ci viene incontro sorridendo.
– Sono venuto su a fare il letto solo adesso, perché stamattina sono s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Prefazione
  5. Presentazione
  6. Nota
  7. E la casa dov’è?
  8. Questo è il dormitorio, la nostra casa
  9. Qui siamo sempre in emergenza
  10. Complimenti al cuoco
  11. Sono stata tre giorni e tre notti a Las Vegas, sempre a giocare alle macchinette
  12. Loro, loro chi?
  13. Quando è morto mio figlio la famiglia si è sfasciata
  14. Dopo qualche anno sono diventato tossicodipendente anch’io
  15. Ormai lo sanno tutti che le divise mi fanno saltare la mosca al naso
  16. Ehi, Carla mi dai anche due uova per la frittata di mio padre?
  17. Non lo so il mio nome vero, perché mi hanno trovato a Faenza con un’amnesia
  18. Pensavo ci fosse una grande squadra di basket, ma non è stato così
  19. C’è l’Uomo che saluta le bandiere
  20. Le carote e le zucchine per il couscous
  21. Sai come?
  22. Adesso sarei maresciallo coi binari rossi
  23. Augustina non era un filo d’erba
  24. Io aspetto la sera
  25. Se non fumo cosa faccio tutto il giorno?
  26. Carla va su e giù per le scale
  27. Si sentiva solo che la nave andava
  28. Finalmente stasera riuscirai a parlare col sindaco
  29. Sai il detto: «La pazienza di Giobbe»?
  30. Mi sono detto: vado a fare la mia vita
  31. Riconosco la voce ma non capisco ciò che dice
  32. Volevo sapere da te, se devo essere contento
  33. Con questi pensieri sono uscito dall’Afghanistan
  34. Sono aumentati esterni per docce e sportine di nazionalità tunisina
  35. La primavera araba
  36. Io sono uno che cerca
  37. Siamo in uno stato di «intossicazione cerebrale»
  38. Ringraziamenti