Lumen fidei
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L'enciclica della fede

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L'enciclica della fede

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La prima enciclica di Papa Bergoglio a disposizione di credenti e persone in ricerca, in un'edizione introdotta da Bruno Forte, teologo e arcivescovo di Chieti-Vasto, e commentata da noti studiosi: Roberto Rusconi (storico), Piero Stefani (biblista), Fulvio De Giorgi (storico della pedagogia), Giovanni Santambrogio (giornalista), Salvatore Natoli (filosofo). La storia, la teologia, l'esegesi biblica, la filosofia, la pedagogia, l'impatto mediatico di un testo che ha al centro il tema cristiano per eccellenza: la fede.
Introduzione di: Bruno Forte, La luce della fede.
Commenti di: Roberto Rusconi, Dall'Enciclica Ubi Primum all'Enciclica Lumen fidei; Piero Stefani, Gesù, «colui che crede»; Fulvio De Giorgi, Lumen de lumine. La pedagogia della fede; Giovanni Santambrogio, La fede: comunicazione e testimonianza; Salvatore Natoli, La Lumen fidei per un non credente.

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Informazioni

Editore
La Scuola
Anno
2013
ISBN
9788835035664
Bruno Forte
La luce della fede
Un’introduzione all’Enciclica di Papa Francesco
1. La luce della fede
La prima Lettera Enciclica di Papa Francesco, dedicata al tema della fede, porta la data del 29 giugno 2013. Si intitola Lumen fidei ed è indirizzata «ai vescovi, ai presbiteri, ai diaconi, alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici». Colpisce nell’indicazione dei destinatari la mancanza di un’espressione che si trovava ad esempio nell’intestazione della Caritas in veritate di Benedetto xvi e in altre lettere (anche se non nella due precedenti encicliche del Papa emerito): «e a tutti gli uomini di buona volontà». Ha un significato questa assenza? La risposta è senz’altro sì, e sta a indicare non una chiusura nei confronti di coloro che non hanno il dono della fede, ma un evidenziare sin dall’inizio e onestamente che un discorso sulla fede è comprensibile e fecondo solo se di essa si ha una qualche esperienza, in forma di vissuto credente o almeno di desiderio consapevole e di ricerca. Al tempo stesso, l’assenza indica il rispetto e la delicatezza che Papa Francesco sa mostrare nei confronti di quanti non credono e ai quali la fede può essere solo proposta, mai imposta. A credere s’impara credendo, nell’esercizio pieno della libertà e nel rischio, consapevolmente accettato, della fiducia dell’amore! Il Dio della fede non è l’oggetto di una dimostrazione matematica o di una prova scientifica legata a ciò che si vede: nell’atto di credere, il “cogito ergo sum” di René Descartes – “penso, dunque sono” – deve cedere il posto al “cogitor ergo sum” – “sono pensato, dunque sono” – e ancor più all’“amor, ergo sum” – “sono, perché sono amato”. Quando si parla di fede bisogna capovolgere l’ordine consueto della ricerca: l’oggetto deve divenire soggetto e il soggetto deve accettare di lasciarsi interrogare, sfidare, turbare, dalla sovranità e dalla trascendenza dell’Oggetto puro (come lo chiamava il grande teologo evangelico Karl Barth), che è il Dio vivente.
La fede – esordisce l’Enciclica – è luce: «Lumen fidei»! «Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta» (n. 1). Non si tratta di una luce di questo mondo, paragonabile al sole che illumina ogni cosa, ma non arriva a scrutare le profondità dei cuori e gli abissi misteriosi del reale: la luce della fede viene da altrove, dall’alto del dono di Dio, che nel Suo Figlio incarnato è venuto a illuminare le nostre tenebre perché – raggiunti da questo “lumen” – gli uomini vedessero oltre il buio della morte e aprissero così il cuore alla speranza dell’eternità, non come vaga attesa, ma come sicura promessa di partecipazione alla vita divina. Per una simile luce si può vivere e morire, dando senso alle opere e ai giorni. «Per la sua fede nel sole – afferma il martire san Giustino1, citato dal Papa – non si è mai visto nessuno pronto a morire». Ad alcuni questa luce sembra essere soltanto un’illusione, una luce “consolatoria”: essa appagherebbe il desiderio profondo del cuore di spiegare in maniera pacificante il mistero della morte, l’insopportabile interruzione rappresentata dal suo silenzio senza ritorno. L’Enciclica richiama quest’obiezione e lo fa citando una delle voci più autorevoli del dramma dell’umanesimo ateo, Friederich Nietzsche: «Il credere si opporrebbe al cercare» (n. 2). La vita umana verrebbe così privata di «novità e di avventura» e l’intelligenza condannata ad assopirsi in un tranquillizzante letargo…
Sul filo di questo ragionamento, la ragione è chiamata a occupare ogni spazio del reale e la fede è destinata a riservarsi soltanto le ombre, quei domini del vuoto e del-l’irraggiungibile, cui il vero conoscere finisce col rinunciare: «La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino» (n. 3). Scrive quel grande pensatore cristiano, che fu Søren Kierkegaard: «“Scandalo” è una categoria specificamente cristiana che si rapporta alla fede. La possibilità dello scandalo è una specie di bivio ovvero è ciò che pone davanti a un bivio. Da questa possibilità si partono due vie, l’una porta allo scandalo e l’altra alla fede, ma non si giunge mai alla fede senza passare attraverso la possibilità dello scandalo»2. La ragione si muoverebbe dunque sugli spazi luminosi dell’intelligibile, la fede su quelli numinosi dell’emozione, passata comunque attraverso la pietra d’inciampo dell’inevidenza. La parabola della modernità ha però dimostrato che le cose non stanno veramente così: «Poco a poco si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto» (ibidem). Come Benedetto XVI, così Papa Francesco non fa sconti alle presunzioni dell’ideologia moderna: ne richiama con lucidità le aporie; indica senza tentennamenti i “sentieri interrotti” di una pretesa – quella dei Lumi – che voleva dominare ogni cosa, che ha raggiunto significative conquiste, ma che ha anche prodotto inaudite violenze, di cui il “secolo breve” – il Novecento “stretto” fra le due guerre mondiali e le crisi dei totalitarismi – è stato pieno.
Altra è la luce della fede: essa non è frutto di carne e di sangue, non nasce dalle nostre capacità o semplicemente dai nostri bisogni. La fede non è proiezione del desiderio, arsura dell’anima che cerca di dissetarsi alla facile consolazione di un sogno. «La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro» (n. 4). La fede si genera nell’arco di fiamma di una vera alterità, nella relazione all’Altro che viene a noi, e non unicamente di qualcosa che diviene in noi. E che questo rapporto non sia illusione, ma lotta, consegna e umile abbandono alla Presenza reale e misteriosa del Dio che viene, sta a provarlo ogni autentica esperienza di fede: l’Anno della fede, indetto da Benedetto XVI, ha avuto perciò come prima finalità quella di purificare e ravvivare la fede dei credenti, liberandola da ogni forma di vuota consolazione o di ingenua rassicurazione, per nutrirla alle sorgenti della rivelazione divina, trasmessa dalla Chiesa, lì dove siamo raggiunti e trasformati dalla Grazia, se nella libertà del cuore e nell’assenso dell’intelligenza aperta al Mistero ci lasciamo raggiungere e abitare dal Dio tre volte santo. In questa luce, Papa Francesco rilegge anche il più grande evento ecclesiale del XX secolo, il Concilio Vaticano II, di cui abbiamo da poco celebrato il cinquantesimo anniversario dall’apertura: esso «è stato un Concilio sulla fede, in quanto ci ha invitato a rimettere al centro della nostra vita ecclesiale e personale il primato di Dio in Cristo […]. Il Concilio Vaticano II ha fatto brillare la fede all’interno dell’esperienza umana, percorrendo così le vie dell’uomo contemporaneo. In questo modo è apparso come la fede arricchisce l’esistenza umana in tutte le sue dimensioni» (n. 6). In questa chiave di lettura preziosa del magistero conciliare, il Papa venuto “quasi dalla fine del mondo” si riconosce in piena sintonia col suo Predecesso-re, e non esita a presentare le riflessioni stesse della sua Enciclica come frutto di un lavoro “a quattro mani”, nel quale ha ripreso ciò che Benedetto aveva iniziato e lo ha completato e integrato senza fatica, per una sorta di avvertita e profonda armonia intellettuale e spirituale.
È a partire da queste premesse che la lettera Lumen fidei sviluppa in maniera organica la sua riflessione sulla fede, percorrendo quattro tappe, altrettanti registri dell’unico messaggio che intende proporre: nel primo capitolo, intitolato “Abbiamo creduto all’amore” (cfr. 1 Gv 4,16), il Vescovo di Roma fa una sorta di “storia della fede”, dalla chiamata rivolta ad Abramo, nostro padre nella fede, alla fede di Israele, fino alla pienezza della fede cristiana, nella sua duplice valenza di salvezza ricevuta in dono e condivisa nella necessaria e vitale “forma ecclesiale”. Nel secondo capitolo – che ha come titolo “Se non crederete, non comprenderete” (cfr. Is 7,9) – viene approfondito il rapporto fra fede, verità e amore, che si nutre di una conoscenza frutto di ascolto e di visione. In questa luce, il dialogo tra fede e ragione si illumina di tutta la sua fecondità, e la fede non solo non esclude, ma suppone e alimenta la continua ricerca di Dio. Voce di questo pensiero della fede è in forma significativa la teologia, che si nutre della fede e a sua volta la nutre. Nel terzo capitolo – intitolato “Vi trasmetto quello che ho ricevuto” (cfr. 1 Cor 15,3) – Papa Francesco approfondisce la natura ecclesiale della fede, presentando la Chiesa come «madre della nostra fede», e soffermandosi sul rapporto fra i sacramenti, la preghiera, la vita morale e la fede. Infine, nel quarto capitolo – che ha come titolo una formula ispirata alla Lettera agli Ebrei: «Dio prepara per loro una città» (cfr. Eb 11,16) – la riflessione è portata sulle “ricadute sociali” della fede, analizzando successivamente il rapporto fra la fede e il bene comune, la fede e la famiglia, la fede e la vita in società, la fede e la sofferenza. L’icona finale dell’Enciclica presenta Maria, donna della fede, non a caso salutata nel Vangelo come colei che è beata perché ha creduto (cfr. Lc 1,45). Un im-pianto chiaro e lineare, quello della Lumen fidei, che merita di essere approfondito – sia pur in maniera solo iniziale – nei suoi quattro snodi portanti: la storia della fede; la conoscenza della fede; l’ambiente ecclesiale del credere; e la portata sociale della fede, oggi più che mai attuale.
2. La storia della fede
È di grande significato che l’Enciclica si apra con un capitolo di natura prevalentemente biblica, che presenta una sorta di “storia della fede”. L’espressione non deve meravigliare, perché in realtà la fede ha avuto un suo inizio nella storia, di cui è testimone autorevole proprio la narrazione del libro della Genesi. È il grande storico delle religioni, Mircea Eliade – in una ricerca divenuta classica sull’immagine che l’uomo delle società arcaiche si è fatto di se stesso e del posto che occupa nel mondo – a osservare che la differenza principale tra quest’uomo e quello delle società moderne, fortemente segnate dal giudeo-cristianesimo, «consiste nel fatto che il primo si sente solidale con il cosmo e con i ritmi cosmici, mentre il secondo si considera solidale solamente con la storia»3. Certamente anche per il mondo arcaico c’è una storia: si tratta però di una “storia sacra”, indefinitamente ripetibile sul modello esemplare custodito e trasmesso dai miti. È come se si avvertisse una «rivolta contro il tempo concreto, storico», una «nostalgia di un ritorno periodico al tempo mitico delle origini, al “grande tempo”»4. Il gesto acquista senso in quanto è ripetizione di un’azione primordiale. «Con la ripetizione dell’atto cosmogonico, il tempo concreto […] è proiettato nel tempo mitico, in illo tempore, in cui è avvenuta la fondazione del mondo»5. I modi di essere, di pensare e di agire del mondo arcaico sono stati elevati a dignità filosofica da Platone, il cui grande merito è consistito «nello sforzo di giustificare teoricamente questa visione dell’umanità arcaica con i mezzi dialettici che la spiritualità della sua epoca gli offriva»6. Dietro questo sforzo speculativo c’è l’ansia di rispondere all’eterna domanda posta dal dolore: come salvare la storia e ancorarla a un fondamento che le dia consistenza, dignità e durata?
Nel ciclo dell’eterno ritorno la forza di questa interrogazione viene come esorcizzata: diventando un momento del processo, che sarà annullato nella ripetizione dell’archetipo, la sofferenza diviene “normale”. La “normalità” del dolore, il suo ritorno ciclico e la sua ciclica scomparsa, l’accettazione che fa di necessità virtù, sono l’ideale del saggio, la rassegnazione di chi si abbandona – come un puro caso dell’universale – al processo eterno della vita, all’eterno ritorno dell’identico originario e sempre bramato. L’uomo diventa un “caso” dell’universale e il suo futuro non è che un ritorno, senza vera novità o sorpresa. Il mondo arcaico, come la cultura greca, non conosceranno la dignità irripetibile della persona, soggetto storico unico e singolare propriamente definito solo nei dibattiti cristologici del IV-V secolo, né l’attesa di un nuovo giorno, che colori ogni cosa della sua luce. Ciò che propriamente manca al mito dell’eterno ritorno è la dimensione del futuro: «La teoria pagana è priva di speranza, perché speranza e fede sono per essenza legate al futuro e non vi può essere un vero futuro se i tempi passati e venturi sono concepiti come fasi equivalenti entro una ricorrenza ciclica senza principio né fine. Sulla base di una continua rivoluzione di cicli determinati possiamo attenderci soltanto una cieca rotazione di miseria e di felicità, di felicità illusoria e di miseria reale, ma non già un’eterna beatitudine – un’infinita ripetizione del-l’identico, ma nulla di nuovo, di risolutivo e di finale»7.
Sono i profeti ebrei a valorizzare la storia, concependo un tempo lineare, procedente a senso unico verso il futuro: per la fede d’Israele la rivelazione avviene nel tempo storico. La storia è il luogo dell’epifania di Dio e storiche sono le forme della Sua auto-comunicazione; in modo particolare è storia la parola in cui Egli si dice, pur senza in essa esaurirsi, ed è storia l’insieme dei gesti di salvezza che compie. Il tempo storico acquista dignità: la rivelazione come storia, la storia come epifania e nascondimento della Gloria, hanno come duplice immediata conseguenza la valorizzazione del tempo storico e la sua permanente apertura a un avvenire non ricavabile da alcuna premessa. L’atto in cui si esprime nella forma più alta la dignità del vissuto umano e la sua incondizionata disponibilità al futuro di Dio è la fede: Abramo è veramente il padre di un nuovo popolo, che non è più l’umanità arcaica legata all’eterno ritorno, ma il popolo di Dio affidato alla promessa dell’Eterno e perciò incondizionatamente aperto all’indeducibile novità del compimento. Se il sacrificio del primogenito era per il mondo paleo-semitico un’usanza dal significato pienamente intelligibile, gesto ripetitivo della cosmogonia, e quindi rito capace di redimere il tempo riproponendo l’inizio, in Abramo esso diviene un atto di fede: «Con questo atto, in apparenza assurdo, Abramo fonda una nuova esperienza religiosa: la fede»8. Grazie all’atto di fede nel Dio che sembra negare le sue promesse (“Deus contra Deum”!), il tempo è aperto all’impossibile possibilità divina, e la decisione umana di fidarsi dell’Eterno, anche quando Egli sembra restare silenzioso e nascosto, acquista il sapore di un’infinita dignità, tale da dare valore all’intero tempo storico. Come afferma l’Enciclica, «Abramo non vede Dio, ma sente la sua voce. In questo modo la fede assume un carattere personale. Dio risulta così non il Dio di un luogo, e neanche il Dio legato a un tempo sacro specifico, ma il Dio di una persona, il Dio appunto di Abramo, Isacco e Giacobbe, capace di entrare in contatto con l’uomo e di stabilire con lui un’alleanza. La fede è la risposta a una Parola che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome» (n. 8).
Alla concezione ciclica del tempo e della storia la fede d’Israele sostituisce una concezione “aperta”, “lineare”: lo sguardo del profeta è rivolto non all’eterno passato del-l’inizio, ma in avanti, verso il futuro della promessa di Dio, che illumina ogni cosa. La speranza prende il posto della nostalgia: «È vero che, in quanto risposta a una Parola che precede, la fede di Abramo sarà sempre un atto di memoria. Tuttavia questa memoria non fissa nel passato ma, essendo memoria di una promessa, diventa capace di aprire al futuro, di illuminare i passi lungo la via. Si vede così come la fede, in quanto memoria del futuro, memoria futuri, sia strettamente legata alla speranza» (n. 9). La valorizzazione della storia, come luogo in cui si rivela e si nasconde la gloria del Dio vivente, propria della concezione dei profeti ebrei del “tempo lineare” guidato dalla promessa e aperto nella speranza, tocca il suo vertice e la sua radicalizzazione nella rivelazione cristiana: «La storia di Gesù è la manifestazione piena dell’affidabilità di Dio. Se Israele ricordava i grandi atti di amore di Dio, che formavano il centro della sua confessione e aprivano lo sguardo della sua fede, adesso la vita di Gesù appare come il luogo dell’intervento definitivo di Dio, la suprema manifestazione del suo amore per noi» (n. 15). La sequela di Gesù, Signore e Cristo, è fede che apre al tempo stesso al futuro di Dio e al presente degli uomini, in cui Egli è venuto ad abitare col Suo avvento. Il fatto che Dio si sia fatto soggetto di una storia veramente umana fa scoprire il concetto di “persona”, soggetto consapevole e libero di storia, e aiuta a comprendere l’uomo stesso nell’ineludibi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Sommario
  4. Bruno Forte
  5. Papa Francesco
  6. Capitolo primo
  7. Capitolo secondo
  8. Capitolo terzo
  9. Capitolo quarto
  10. Commenti
  11. Roberto Rusconi
  12. Piero Stefani
  13. Fulvio De Giorgi
  14. Giovanni Santambrogio
  15. Salvatore Natoli
  16. Note