Ateismi di ieri e di oggi
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L'ateismo costituisce una delle sfide più rilevanti per la fede, oltre che uno dei vettori lungo cui si è espressa la cultura occidentale.
In questa intervista, uno dei maggiori esperti sul tema, oltre che autorevole rappresentante della Chiesa Cattolica, svolge un'ampia analisi critica e si interroga con lucidità sul fenomeno. Ne esce un quadro articolato dove la riflessione spazia dall'antichità alla contemporaneità, attraverso un confronto con la filosofia e la scienza che permette di riconoscere precisi orientamenti culturali e pedagogici.

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Informazioni

Editore
La Scuola
Anno
2013
ISBN
9788835035787
Categoria
Ateismo
Capitolo secondo
Il problema dell’ateismo
Passando dalla sua formazione e dai suoi studi al problema specifico dell’ateismo, come spiegarne la genesi non tanto in un contesto specifico (quello antico oppure quello moderno), ma in riferimento alla condizione umana? In quale maniera vi è coinvolto il riconoscimento del “limite” che può rimandare al coglimento dell’esistenza di Dio, ma anche alla sua negazione se lo si prende come una condizione autosufficiente?
Il tema è delicato, ma fondamentale. Che cosa vuol dire “essere creatura”? Vuol dire non avere da se stessi il proprio “essere”, ma riceverlo da “altro”. Il mio concreto essere, quindi, è dono nel senso che è stato ricevuto. Questo significa prima di tutto dipendenza radicale. Poi facciamo l’esperienza dei nostri numerosi limiti.
Il limite vuol dire due cose: configurazione, mi dà la struttura, il contorno e la “forma”. Ma, oltre a questo, esclusione ossia distinzione dall’altro. Limite vuol dire “ostacolo” o, in alcuni casi, impossibilità di andare al di là.
Questo essere limitato che è l’uomo, l’essenza umana, è però un essere spirituale.
Che cosa significa?
Dire “spirito” significa dire “capacità di conoscere”, in tutta la sua ampiezza, la realtà (inclusa la dimensione etica, cioè il bene), anche se in modo limitato e imperfetto. Qui s’incontra il problema della libertà perché la libertà comporta sempre una forte tensione con il limite. Facciamo un esempio. Se prendiamo la nostra conoscenza sensibile, possiamo facilmente riconoscere che altro è il senso della vista, altro il senso dell’udito… abbiamo cioè dei campi molto ben delimitati. Ma, quando passiamo a considerare l’intelletto, troviamo che davanti a noi si squaderna l’essere – ovvero ciò che è – in tutta la sua ampiezza, dalla conoscenza degli esseri che mi stanno accanto (di cui faccio anche esperienza sensibile), fino all’Essere Assoluto. La libertà è correlata a questa apertura amplissima sul mondo, solo che, mentre l’intelletto la configura sul terreno teorico, la libertà lo esprime sul terreno pratico.
Questa apertura pratica tende verso ciò che è perfetto, il bene, l’ampiezza del bene, in cui consiste la bea-titudine: l’uomo – questo è il punto – è fatto per essere felice e la sua felicità è piena quando è saturato – in tutta l’ampiezza possibile – dal bene. L’essere umano non si accontenta di beni particolari, ma cerca il bene nella sua maggiore apertura.
L’analisi – anche fenomenologica – del desiderio umano è molto eloquente su questo punto: il desiderio – globalmente preso – non è mai soddisfatto perché cerca il bene come tale, nel suo significato assoluto.
C’è un certo paradosso nell’essere spirituale perché, pur essendo creato (cioè dipendente e limitato), partecipa con la sua attività più alta (che è l’attività spirituale come la esprimono l’intelletto e la volontà) al mondo dell’assoluto, cercando il bene nella sua ampiezza massima. Lì troviamo la libertà.
Nella libertà, poi, c’è un altro aspetto: la libertà vuol dire la padronanza dei propri atti – essere libero significa essere padrone, cioè responsabile, dei propri atti. Una delle tentazioni dell’ateismo è di concepire la libertà umana come assoluta. Se leggiamo un autore come Sartre, notiamo che mette in contrapposizione l’affermazione dell’esistenza di Dio e l’affermazione della libertà umana come totale autonomia. Il problema è legato al fraintendimento della libertà umana che non è assoluta: l’uomo è fatto per conoscere e amare l’assoluto, ma non nell’assoluto perché la sua condizione mondana non è tale. La vita umana fa i conti con i suoi limiti, da cui siamo partiti.
L’uomo, essendo limitato, non è creatore del bene e del male, li trova attraverso la riflessione dell’intelletto morale (la coscienza). L’uomo non è creatore dei valori, l’uomo deve rispondere ai valori i quali indicano qual è l’autenticità del suo essere e il cammino verso la felicità. Lì troviamo anche un problema fondamentale che è il problema del male.
Prima di arrivare a questo, non le sembra che il passaggio dall’idea antica di bene all’idea moderna di valore abbia comportato un equivoco?
In effetti, il concetto di valore rimanda all’avvaloramento, quindi può sorgere l’equivoco che una cosa abbia valore perché tale è resa dal riconoscimento umano, mentre il bene esprime da se stesso la sua positività. In proposito deve far riflettere il fatto che l’agire umano è continuamente sostenuto dal desiderio. Ma, se c’è desiderio, vuol dire che non c’è già il possesso dell’assoluto, che si è in tensione “verso”, in cammino “verso”. Su questo cammino la coscienza può riconoscere i segni che indicano qual è la via giusta.
L’alternativa – la via falsa – ha a che fare con il nulla e – sul piano pratico – con la distruzione morale di se stessi. Quando studiai le origini hegeliane dell’ateismo di Marx, rimasi colpito dal fatto che scoprii esserci, nella tradizione luterana, un forte accento sul peccato: la relazione fondamentale dell’essere umano non è riconosciuta nella dipendenza della creatura dal Creatore, ma nella relazione dell’uomo peccatore con Dio sicché Dio appare come il giudice, quello che condanna e che punisce.
Questa era la preoccupazione di Lutero, sentiva personalmente l’angoscia del giudizio divino…
…ma questo ha oscurato la relazione con Dio. Se il mio primo rapporto, che è quello con Dio, avviene all’insegna della coscienza del peccato, allora Dio e l’uomo diventano inevitabilmente rivali. Con simili premesse, non stupisce che l’affermazione della mia autonomia (perché la libertà è autonomia in quanto esprime il governo di sé) mi porti anzitutto a negare Colui che mi condanna. Penso che qui ci sia una delle radici dell’ateismo moderno.
Il mio riferimento a Lutero, dove insisto sul peso del suo dramma personale sulla sua dottrina, non deve essere inteso come un giudizio sull’insieme del suo pensiero e ancora meno sul luteranesimo.
La radice del problema è consistita nell’aver proiettato su Dio, anzitutto, la condizione di giudice?
Sì, questo è legato al fatto che l’uomo si percepisce anzitutto non come essere creato (la qual cosa è un bene), ma come peccatore. Ne risulta una disposizione negativa dinanzi alla legge morale, concepita all’interno di una opposizione come restrizione, costrizione, impedimento.
Quindi la ribellione a Dio si è espressa per affermare la propria libertà positiva, come una forma di emancipazione?
Emancipazione, esatto. Il concetto marxista di partenza (che proviene da Hegel) è quello di alienazione. Il primo rapporto con Dio implicherebbe l’alienazione dell’uomo. Qui siamo di fronte a una delle matrici dell’ateismo come grave deviazione della coscienza di sé dell’uomo.
Secondo lei, come ha preso forma, in Lutero, questo eccesso di sottolineatura del peccato umano?
Lo ha tratto dalla sua esperienza personale della colpevolezza, perché lui aveva un senso profondissimo, non pienamente corretto, del peccato, che però lo portava a viverlo con profonda angoscia. Infatti, è molto importante, a partire dal senso della colpevolezza, chiedersi quale idea ci si fa di Dio.
Nella Sacra Scrittura questo tema è affrontato con grande equilibrio, come mostra – ad esempio – l’insegnamento di San Paolo ai Galati e ai Romani. Possiamo constatare che, in questi testi, Dio non è anzitutto colui che punisce. La stessa cosa possiamo riconoscere nell’Antico Testamento, dove Dio anzitutto è descritto come colui che perdona perché è buono. La rivelazione del perdono divino è fondamentale nella Sacra Scrittura: anzitutto si manifesta l’amore di Dio, la sua misericordia.
Anche perché Dio ci ha creati.
Infatti, perché Dio ci ha creati? Non per necessità, ma per amore. E per amore non ci ha soltanto creati, ma ci ha salvati, come appare evidente fin dal momento della caduta. A quel punto, l’essere umano ha un forte senso di colpevolezza, si nasconde a Dio perché sa che merita la punizione. Qui può sorgere la tentazione di rigettare l’idea stessa di peccato. Forse qui c’è una fonte dell’ateismo: non voler riconoscere il peccato.
In effetti nel Nuovo Testamento questa condizione è esplicitamente manifestata, ad esempio da Pietro: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore» (Lc 5,8). Ma, se possiamo dire questo, è perché sappiamo che con la giustizia c’è la misericordia, possiamo dire: «Dio è amore» (1Gv 4,8). Non dobbiamo dimenticare che l’amore di Dio sa riparare il male che facciamo noi, è infinito. Il richiamo della giustizia di Dio senza tener conto dell’orizzonte della misericordia dà un’idea falsa di Lui. Dio – al limite – è considerato come il nemico.
Su questo nodo la psicologia ha sicuramente molto da dire. Infatti, non si tratta soltanto del senso della colpevolezza per una colpa precisa che si è compiuta. Se qualcuno commette un furto e dopo si pente, domanda perdono per il furto e restituisce ciò che ha rubato. L’idea a cui facevo riferimento prima è diversa: è l’idea che tutto sia corrotto dal male. Lutero vive questa situazione quando, ad esempio, vive tutte le pulsioni dell’uomo come peccati.
Come una corruzione. Ma, in riferimento a questo, non si dovrebbe osservare che, dal momento che noi esistiamo perché Dio ci ama, il fatto che il creato continui a esistere conferma che l’amore di Dio è più forte del Suo giudizio?
Certo. C’è un’affermazione teologica fondamentale: se il male fosse più forte, il mondo non continuerebbe a esistere. Ma il problema è che questo pregiudizio negativo nei confronti di Dio “Giudice” è molto radicato: è una delle matrici da cui è nato l’ateismo moderno. Ho già osservato che ha preso forma nel contesto del cristianesimo perché esso si è sviluppato attorno all’esperienza profonda del rapporto con Dio che è un rapporto molteplice: Dio è il mio Creatore, io sono creato a Sua immagine; è il mio fine e sono chiamato a raggiungere la beatitudine. Questa beatitudine è un dono della grazia: l’unione con Dio è partecipazione alla stessa vita divina, siamo figli adottivi nel Figlio. Dio è anche colui che ci indica qual è la via per andare a Lui. Tutto questo va ben articolato e tenuto insieme.
Quindi l’ateismo prende forma dopo il cristianesimo perché con il cristianesimo prende forma il rapporto personale con Dio.
Quando questo rapporto personale porta l’accento principale sulla colpevolezza, siamo su una via sbagliata. Non si tratta di diminuire la gravità del peccato, ma di non escludere la possibilità del perdono, sempre offerto.
Abbiamo detto: il sentimento della dipendenza frainteso porta a ritenere che il rapporto con Dio sia un rapporto di sudditanza e di schiavitù. Potremmo forse osservare che c’è anche un altro senso della dipendenza, cioè la dipendenza dalla persona che si ama: l’amore, infatti, crea dipendenza, ma non come sottomissione, bensì come ordinazione reciproca.
Penso che è molto importante nell’educazione cristiana insegnare anche al bambino il senso della gratitudine. È un sentimento che accompagna l’affetto. Prendiamo i bambini (a cui esplicitamente si riferisce Cristo quando parla della fede): vivono la dipendenza associandola all’amore per la persona da cui dipendono. Sono felici nel provare questo sentimento perché si sentono custoditi (cfr. Mt 18,1-5).
Il tema della gratitudine rimanda a quello del dono, a cominciare dalla vita come dono. In proposito, oggi si fa largo un equivoco: se la vita mi è stata donata, è un regalo di cui posso fare quello che voglio. Come possiamo mettere in crisi questo fraintendimento del senso del dono?
Penso che il senso del dono implica il senso della gratitudine. Il dono vuol dire gratuità: in questo caso rimanda al fatto che nessuno ha meritato di esistere. Si esiste, perché Dio ci ama. Ma qui c’è un problema enorme che può spiegare alcune forme d’ateismo.
Il dono della vita – come esseri umani – lo viviamo attraverso una mediazione. Non abbiamo soltanto il rapporto con Dio che è il rapporto fondamentale, metafisicamente presupposto da tutti gli altri: questo rapporto lo viviamo attraverso la mediazione dei rapporti umani. Riceviamo la vita dai nostri genitori; riceviamo l’educazione dai genitori, dalla scuola, dalla società e sappiamo che questo passaggio può essere anche molto problematico, con esperienze particolarmente negative. Ricordo una persona che aveva un’enorme difficoltà a recitare il “Padre Nostro” perché suo padre gli aveva lasciato un pessimo ricordo.
Come il padre di Kafka.
Infatti, un atteggiamento eccessivamente severo aveva guastato irrimediabilmente il rapporto. Ma ci possono essere anche altre cause: atti criminali e violenze, per esempio. In alcune società, ancora oggi, è comune trattare male i bambini e le conseguenze sono molto negative: è come iniziare un viaggio con un bagaglio che pesa, non che offre ciò di cui c’è bisogno.
L’età infantile, tendenzialmente, è gioiosa, curiosa, ama la scoperta, ma – se le cattive esperienze hanno spento la spontaneità del bambino – le conseguenze si fanno sentire durante tutta l’esistenza. Non bisogna dimenticare che i fattori psicologici influenzano la coscienza della propria identità.
La persona esprime una identità unitaria.
Per esempio, quando Aristotele dice che il primo atto umano è la meraviglia, riconosce un fatto fondamentale. La stessa cosa accade quando si fa una scoperta, quando l’uomo trova qualcosa di nuovo, ma alcuni non riescono a rallegrarsi di queste cose perché hanno fatto esperienze che li hanno resi tristi. Qui si tocca un nucleo di tipo psicologico che merita attenta analisi. Spesso le biografie (particolarmente le autobiografie) spiegano molto della persona, del suo itinerario. Anche per quanto riguarda l’ateismo, prima di qualificare qualcuno come ateo oppure di aderire a questa affermazione che lui fa di se stesso, occorre fare attenzione e domandarsi quale immagine di Dio questa persona ha ricevuto oppure si è formata, rispetto a quale idea di Dio ha reagito. Ad esempio, quando nelle famiglie si dice – forse è più corretto: si diceva – “Dio ti punirà!”, si commette un errore non perché Dio non sia anche giudice, ma perché Dio è giudice misericordioso e il suo agire non si commisura ai nervi dei genitori.
È interessante notare la frequenza con cui – negli ultimi decenni – è uscito il tema della misericordia. Giovanni xxiii parlò della “medicina della misericordia” aprendo il Concilio. Giovanni Paolo ii consacrò alla “divina misericordia” la domenica “in albis” ed è morto alla vigilia di que...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Introduzione di Giuseppe Mari
  4. La formazione e gli studi sull’ateismo
  5. Il problema dell’ateismo
  6. L’ateismo lungo la storia
  7. Dall’ateismo alla fede
  8. Che cos’è la fede?
  9. Nota bio-bibliografica
  10. Sommario