Note
Introduzione: Analisi e interpretazione dell’Eutifrone
1 Cfr. Eutifrone, 2 a.
2 Cfr. Eutifrone, 3 b, 5 a, 6 a.
3 Cfr. Eutifrone, 2 c-3 a.
4 Cfr. Eutifrone, 4 b-c.
5 Cfr. Eutifrone, 4 a-b.
6 Cfr. Eutifrone, 4 a-b; 4 e-5 a.
7 Cfr. Eutifrone, 5 a-b.
8 Eutifrone, 5 c-d.
9 Eutifrone, 5 d-e.
10 Cfr. Eutifrone, 5 e.
11 Cfr. Eutifrone, 6 a-e.
12 Cfr. Eutifrone, 6 e.
13 Eutifrone, 6 e-7 a.
14 Cfr. Eutifrone, 7 a-8 b.
15 Cfr. Eutifrone, 9 b-9 d.
16 Cfr. Eutifrone, 9 d.
17 Cfr. Eutifrone,10 a-11 b.
18 Cfr. Eutifrone,11 b-d.
19 Cfr. Eutifrone, 11 e-12 d.
20 Eutifrone, 12 e.
21 Cfr. Eutifrone, 13 a-d.
22 Eutifrone, 13 e.
23 Cfr. Eutifrone, 13 e-14 a.
24 Eutifrone, 14 a-b.
25 Eutifrone, 14 b-c.
26 Eutifrone, 14 c.
27 Cfr. Eutifrone, 14 d-15 a.
28 Eutifrone, 15 b-c.
29 Eutifrone, 15 e-16 a.
30 Una interpretazione che accentua particolarmente il significato apologetico del dialogo è quella del Wilamowitz-Moellendorff, Platon, Berlin 1919. In questa stessa direzione muove, da noi, anche l’interpretazione di Manara-Valgimigli, Platone, Eutifrone, Bari, 3a ediz. 1950 (si confronti in speciale modo l’introduzione, passim).
31 Su questo punto ha giustamente insistito Gallo Galli nel saggio sull’Eutifrone, contenuto in Socrate ed alcuni dialoghi socratici, Torino 1958, pp. 183-203.
32 Eutifrone, 2 c-3 a.
33 Eutifrone, 3 a.
34 Eutifrone, 3 b.
36 Cfr., per es., Th. Gomperz, Griechische Denker, traduz. italiana, vol. III, Firenze 1953, p. 186. Si veda anche L. Stefanini, Platone, 2 aediz., Padova 1949, vol. I, p. 159.
37 Si veda quanto scrive il Galli in Socrate ed alcuni dialoghi socratici, cit., p. 188.
35 Eutifrone, 3 cd.
38 Cfr. ancora ibi, pp. 187 ss.
39 Eutifrone, 6 a.
40 Cfr. Eutifrone, 4 e-5 a.
41 Eutifrone, 14 b-c. L’importanza di questo passo è sottolineata a ragione dal Wilamowitz-Moellendorff, op. cit., II, p. 78. Cfr. anche Friedlaender, Platon, II, Berlin 1957, p. 82.
42 Eutifrone, 13 e.
43 Cfr. Wilamowitz-Moellendorff, op. cit., II, p. 78; Bumet, op. cit., p. 57; Friedlaender, op. cit., II, p. 81; Taylor, Plato, 6a ediz. 1949, pp. 154 ss.; Valgimigli, op. cit., p. 13.
44 Eutifrone, 15 a.
45 Non è esatto dunque dire, come voleva già lo Schleiermacher (Platons Werke, Berlin, 1855-1862, vol. I, parte II, 3a ediz., p. 38), che il fine dell’Eutifrone sia quello di ridurre la virtù della santità alla virtù della giustizia. Tale tesi è stata ripresa e portata alle estreme conseguenze da K. Hildebrandt, il quale afferma testualmente: «Nella forma (l’Eutifrone) è aporetico, ma risulta chiaramente che la santità è soltanto una parte della giustizia. Lo scopo, in contrasto con gli altri dialoghi, sarebbe puramente negativo: la religiosità non è una virtù indipendente, la sua ricerca particolare è inutile. In realtà da questo momento avranno valore soltanto le quattro virtù platoniche della sapienza, del coraggio, della temperanza e della giustizia» (Platon, Berlin 1933; trad. italiana, Torino 1947, p. 138).
46 Così lo Sciacca, Platone, Eutifrone, 2a ediz., Milano-Messina 1951, p. 6. Lo Sciacca interpreta il nostro dialogo prevalentemente in questa visuale della critica alla religione tradizionale (cfr. specialmente pp. 4-14).
48 Si veda il passo della Repubblica (377 e-378 c) che riportiamo nel paragrafo che segue.
47 Eutifrone, 6 b-c.
49 Repubblica, II, 377 e-378 c.
50 Eutifrone, 15 a.
51 Repubblica, II, 379 a-c.
52 Cfr., per es., Wilamowitz-Moellendorff, op. cit., II, p. 80.
53 Così, J. Zürcher, Das Corpus Academicum, Paderbom 1954, p. 34.
54 Così, per es., il Burnet, op. cit., p. 31; Stefanini, op. cit., I, p. 152; Valgimigli, op. cit., pp. 19 ss.
55 Cfr. Eutifrone, 5 c-d.
56 Cfr. Eutifrone, 6 d-e.
57 Cfr. Eutifrone, 6 e.
58 Eutifrone, 11 a-b. (Si veda anche, per questa stessa distinzione fra essenza e accidente, Ippia Maggiore, 302 c-e).
Platone: Eutifrone o della santità
1 Il Liceo, com’è noto, era una palestra, così denominata perché dedicata ad Apollo Licio. Essa si trovava al di fuori del recinto delle mura di Atene, nel sobborgo orientale, nei pressi dell’Ilisso. Le altre due famose palestre, pure situate fuori delle mura, erano l’Accademia (dove Platone insedierà, più tardi, la propria scuola) e il Cinosarge. Il Liceo doveva essere il luogo che Socrate prediligeva per le sue discussioni usuali, come risulta, oltre che da questo passo, anche da Liside, 203 a; Eutidemo, 271 a; Simposio, 223 d. (Il Liceo, come si ricorderà, sarà poi sede di una nuova scuola, che Aristotele, nel 335-334 a.C., fonderà in opposizione all’Accademia).
2 L’Arconte re era un magistrato che deteneva quelle funzioni religiose che, anticamente, erano proprie dei re (donde il nome rimasto a qualificarlo e a distinguerlo dagli altri Arconti). Egli aveva il compito dell’officiatura nei solenni riti dei pubblici sacrifici. Inoltre, tutti i processi, in qualche modo connessi con la religione, rientravano nella sfera delle sue competenze: egli doveva condurre tutta la fase istruttoria di questi processi ed accertare la regolarità di tutta la loro procedura (cfr. Burnet, op. cit., p. 2).
3 “Causa” corrisponde al termine greco “δίκη”, mentre “accusa” corrisponde al termine “γραφή”. Causa designa un’azione giudiziaria limitata ad interessi privati, accusa designa, invece, un processo che riguarda interessi pubblici. Burnet richiama opportunamente, a questo proposito, il seguente passo del libro vi delle Leggi di Platone, che chiarisce molto bene la differenza in parola: «... vi siano due tribunali: l’uno per quando un privato cittadino, incolpando un altro privato cittadino di avergli fatta ingiustizia, gli intenti causa perché gli sia resa giustizia; l’altro, invece, per quando un cittadino ritenga che lo Stato sia danneggiato da un altro cittadino, e intenda agire per il pubblico interesse» (767 b-c).
4 Lo stupore che Eutifrone esterna, così come l’illazione che egli non esita neppure un istante a trarre, hanno senza dubbio, negli intentidi Platone, lo scopo di avviare quella difesa o “apologia” del Maestro, di cui abbiamo detto nell’Introduzione (cfr. pp. 25 ss.). Socrate, infatti, era a tutti noto per non aver mai avuto a che fare con la giustizia: «... mi sono presentato oggi per la prima volta in tribunale, ed ho ormai ben settant’anni», egli dirà ai suoi giudici, in sua difesa al processo (Apologia, 17 d). Di più, egli doveva anche essere noto per la sua volontà di fare solo bene al prossimo e per la sua bontà d’animo, al punto che Eutifrone, udito che Socrate ha un processo, conclude che, dunque, egli deve aver parte di accusato e non di accusatore. (In Grecia, alcuni facevano l’accusatore per mestiere, ed erano le persone moralmente più abiette).
5 Su Meleto, responsabile per l’accusa di Socrate, non si sa molto. Com’è noto, egli ebbe complici, in questa accusa, Anito – un uomo politico esponente della corrente democratica, che nell’Atene di allora godeva di una certa notorietà (cfr. Menone, 90 a ss.), e Licone – un oratore che godeva pure di una certa fama (cfr. Apologia, 23 e). La responsabilità maggiore, tuttavia, – quella, cioè, di depositare la causa presso l’Arconte re – fu di Meleto: per questo, Socrate, qui, si riferisce solo a lui. Nell’Apologia Platone ci dice che Meleto era un rappresentante dei poeti (24 a), dunque, poeta egli stesso. Pare certo, tuttavia, che egli non possa identificarsi con il poeta Meleto al quale fa allusione il poeta Aristofane. Infatti, se così fosse, Platone non avrebbe di certo potuto qualificarlo come giovane pressoché sconosciuto, come invece fa nel passo che stiamo leggendo: le persone attaccate da Aristofane erano tutte assai note e, in qualche modo, erano tutti personaggi (cfr. M. Croiset, Platon, Oeuvres complètes, Paris 1920-1935, p. 123, n. 1). E neppure sembra che possa identificarsi con l’autore di una trilogia su Edipo, come risulterebbe da uno scolio antico all’Apologia, e come ha sostenuto anche qualche studioso moderno (così, ad es., Wilamowitz - Moellendorff, Platon, sein Leben und seine Werke, 5a ediz., Berlin 1959, p. 116), per le medesime ragioni di cui sopra (cfr. le giuste osservazioni del Burnet, op. cit., p. 9). Si resta probabilmente nel vero solo accettando alla lettera quello che ci dice Platone: Meleto non è che un giovinastro con ambizioni poetiche, uno sconosciuto che cerca di farsi pubblicità attirando su di sé l’attenzione a tutti i costi, per potere entrare nella vita politica ed iniziare la “carriera” in modo vistoso.
6 Il demo, in Atene, era la divisione della tribù (si ricordi la riforma di Clistene).
7 Si noti con quanta vivezza venga sbozzato l’aspetto fisico del volto di Meleto.
8 Tutto il passo, in questa sua ironia, e in questo dire la cosa alla rovescia, riesce assai più efficace, al fine di smascherare i veri intenti di Meleto e al fine di metterne a nudo la meschinità, di quanto non sarebbe se fosse tradotto in forma di esplicita accusa, come per es., nell’Apologia: «Meleto dice che io sono colpevole di corrompere i giovani. E io dico, invece, o cittadini di Atene, che proprio Meleto è colpevole, in quanto tratta alla leggera cose che vanno prese con serietà, e con faciloneria trae uomini in tribunale, dandosi l’aria di preoccuparsi seriamente e di darsi pensiero di cose delle quali, in realtà, non gli è mai importato nulla» (24 c). Si legga, anche, Apologia, 25 c.
9 Il testo dice «ἀφ' ἑστίας». Estia è, qui, indubbiamente da intendersi in senso simbolico: nel senso, cioè, di cuore, anima, centro della Città.
10 L’atto di accusa è formulato da Socrate stesso, nell’Apologia, in questo modo: «Socrate è colpevole di corrompere i giovani e di non credere in quegli Dei in cui crede la Città e di introdurre altre nuove divinità» (24 b-c). Anche Senofonte riassume l’accusa pressoché con le stesse parole: «Socrate è colpevole di non credere negli Dei in cui crede la Città e di introdurre altre nuove divinità; è colpevole anche di corrompere i giovani» (Memorabili, i, l). Non si tratta, dunque, di causa privata, ma di pubblica accusa: infatti è la Città nei suoi Dei e nei suoi giovani ad essere danneggiata.
11 «τὄ δαιμόμιου» dice il testo. Che cosa sia, propriamente, questo “demone” di Socrate, non è facile dirlo. Gli studiosi si sono sbizzarritia dare di esso le più diverse e strane interpretazioni. Vediamo, in primo luogo, di chiarire la cosa con altri testi dello stesso Platone. Nell’Apologia, Socrate dice di essersi sempre astenuto dalla vita politica, proprio perché questo segno divino glielo impediva: «La causa di questo [cioè di non essersi dato alla vita politica] è ciò che voi mi avete sentito dire più volte: che in me avviene un segno divino e demoniaco – e questo Meleto ha appunto messo nella sua accusa, in tono beffardo –. E in me questo segno ha incominciato a farsi sentire fin da fanciullo: è come una voce che, quando si fa sentire, mi distoglie sempre dal fare ciò che sono sul punto di fare, mentre non mi sollecita mai a fare qualcosa» (31c-d; cfr. anche 40 a-c). Nel Fedro leggiamo: «Mentre mi accingevo a varcare il fiume... mi si fece sentire il solito segno demoniaco – esso sempre mi trattiene quando sto per fare qualcosa – e mi parve di udire una voce da lui proveniente, che non mi permetteva di andarmene, prima che mi fossi purificato...» (242 b-c). Del tutto analoghi sono gli accenni al segno divino o segno demoniaco che si leggono nel Teagete (128 d), nell’Eutidemo (272 e), nella Repubblica (496 c) e nel Teeteto (151 a).
Ora, da tutti questi passi, si desume, con tutta chiarezza, che il Demone socratico non è affatto un Dio, cioè una “nuova Divinità”, come sostiene Meleto nell’accusa. Nel passo dell’Eutifrone che stiamo leggendo, Platone lo ribadisce, facendo dire allo stesso Eutifrone – che pure si mostrerà così attaccato agli Dei della religione tradizionale – che quella di Meleto è una calunnia. Lo stesso sacerdote Eutifrone, dunque, trova che Meleto è completamente fuori strada.
Che cos’è, allora, questo famoso Demone di Socrate?
1) Le parole che Platone stesso usa per esplicarlo, cioè segno (σηυɛῖου) e voce (φωυή) sono sufficientemente rivelative: il Demone è un segno interiore ed una voce intima. 2) È segno e voce che solamente trattiene Socrate dall’agire, che mai lo spinge né sollecita ad agire (Senofonte, nei Memorabili, i, 1, 4; iv, 8, 1, dirà che il Demone, in certi casi, spingeva Socrate anche ad agire; ma è quasi certo che si tratta di una indebita amplificazione della realtà, operata da Senofonte stesso). 3) È segno o voce che Socrate sente nel suo intimo, ma che non proviene solamente dalla sua coscie...