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Il pensiero di Aristotele presentato da uno dei massimi specialisti a livello internazionale, attraverso l'analisi delle sue opere, le categorie chiave della sua filosofia e la storia degli effetti nei secoli.

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Informazioni

Editore
La Scuola
Anno
2013
ISBN
9788835035978
II
Analisi delle opere
1. Caratteri generali
Di Aristotele ci è pervenuto un corpo imponente di opere, il corpus aristotelicum, costituito da una serie di trattati che egli scrisse non in vista di una vera e propria pubblicazione, per un pubblico qualsiasi, ma in vista del suo insegnamento, cioè per i suoi scolari. Si tratta quindi di appunti, stesi dallo stesso Aristotele o in parte anche da qualche discepolo, pertanto non curati dal punto di vista letterario, ma organizzati in trattati per argomento, per disciplina, e articolati in «libri», che dovevano essere originariamente dei rotoli («volumi») manoscritti. Ogni trattato sembra contenere gli insegnamenti di un corso, di una disciplina, o in qualche caso (per esempio nel caso della Metafisica) di più corsi, ma esistono anche più trattati, e quindi più corsi, di una stessa disciplina (per esempio nel caso delle Etiche, rispettivamente la Nicomachea e l’Eudemia). Non è detto che si tratti sempre di corsi tenuti nel Liceo, perché alcuni di essi (per esempio i Topici), o alcune parti di essi, possono essere stati tenuti già nel periodo trascorso da Aristotele nell’Accademia, o in quello trascorso ad Asso, dove egli ebbe ugualmente dei discepoli.
Questi trattati ebbero quindi una circolazione molto limitata nel periodo ellenistico (III-II secolo a.C.), mentre furono «editi», vale a dire ordinati e trascritti in numerose copie, nel I secolo a.C., pare da Andronico di Rodi, allora scolarca del Peripato, non si sa se ad Atene, dove la scuola si trovava, o a Roma, dove erano stati portati da Silla al momento dell’occupazione romana della Grecia. Strabone e Plutarco narrano che essi erano stati lasciati da Teofrasto, successore di Aristotele nella direzione del Peripato, a suo nipote Neleo, che li avrebbe portati a Scepsi, nell’Asia minore, e li avrebbe nascosti in una cantina, per salvarli dagli inviati del re di Pergamo, che facevano incetta di manoscritti. Essi sarebbero stati riscoperti da un certo Apellicone di Atene, portati da Silla a Roma, riveduti da Tirannione ed editi da Andronico, ma la veridicità di questo racconto è alquanto controversa.
Il testo dell’edizione del I secolo a.C. è stato trasmesso in vari manoscritti, di cui i più antichi in nostro possesso risalgono al X secolo d.C., poi è stato stampato a Venezia nel secolo XV ed è stato pubblicato in forma di edizione critica, mediante una «collazione» (raccolta e confronto) dei manoscritti disponibili, nel 1831 da Immanuel Bekker per conto dell’Accademia Prussiana delle Scienze a Berlino. L’edizione di Bekker costituisce il punto di riferimento obbligato per tutte le citazioni, che devono menzionare la pagina, la colonna (a o b) e le righe di essa, in cui si trova il passo citato, per esempio il famoso inizio della Metafisica, «tutti gli esseri umani per natura desiderano il sapere», si trova in Metaph. (abbreviazione del latino Metaphysica, perché è consuetudine citare i titoli delle opere in latino) 980 a 21, cioè a pagina 980, colonna a, riga 21, dell’edizione Bekker1.
Ma dai cataloghi antichi delle opere di Aristotele, trasmessi dalle antiche biografie e risalenti probabilmente alla famosa biblioteca del Museo di Alessandria, risulta che ad Aristotele erano attribuite molte altre opere, che non ci sono pervenute, alcune delle quali in forma di dialogo, altre in forma di note, liste, promemoria, cataloghi, riassunti, per un numero sterminato di libri, molti dei quali sicuramente dovevano essere apocrifi, non scritti da Aristotele. Il testo dei dialoghi non ci è pervenuto, anche se essi dovettero avere una grande circolazione fino al II secolo d.C., quando probabilmente furono messi da parte, ovvero non più trascritti, a causa del grande interesse suscitato dall’edizione dei trattati, e quindi andarono perduti. Di essi si conoscono infatti molte citazioni, alcune dello stesso Aristotele, altre di autori antichi, che li ebbero in mano, per esempio Cicerone, Filodemo, Filone, Seneca, Ateneo, Alessandro di Afrodisia, Plutarco, Diogene Laerzio, Giamblico, Proclo, e che oggi sono considerate «frammenti» (non intesi quindi in senso letterale). Questi dialoghi dovevano essere destinati al grande pubblico, perché erano scritti in uno stile molto accurato (che Cicerone chiama flumen aureum, «fiume d’oro»), ed erano in genere intitolati a un personaggio, come molti dialoghi di Platone, ma a differenza da questi comprendevano come interlocutore lo stesso Aristotele (espediente imitato da Cicerone).
Poiché Aristotele nei suoi trattati rinvia alcune volte a dei «discorsi essoterici» (logoi exôterikoi), «esterni», si è ritenuto che con questa espressione egli si riferisca ai suoi dialoghi, in quanto destinati all’esterno della sua scuola, e di conseguenza i suoi trattati sono stati chiamati «esoterici» (esôterikoi), «interni» alla scuola (espressione assente in Aristotele), o anche «acroamatici», destinati all’ascolto (akroasis). Ma «essoterici» potrebbe anche significare esterni alla disciplina di cui si sta trattando, ed «esoterici» non va assolutamente inteso nel senso di «segreti», o riservati a degli iniziati, come qualcuno ha creduto.
2. Dialoghi e altre opere perdute
Trascurati dalla tradizione dei commentatori, i dialoghi perduti di Aristotele sono stati rivalutati da Werner Jaeger, il quale ha sostenuto che Aristotele si sarebbe evoluto da una giovanile adesione al platonismo, di cui sarebbero espressione appunto i dialoghi, ad una fase intermedia, costituita da una prima critica al platonismo, di cui sarebbero espressione le parti più antiche dei trattati, e infine a una definitiva critica del platonismo, di cui sarebbero espressione i libri più maturi2. Benché la considerazione delle circostanze storiche in cui Aristotele visse sia fondamentale, le tesi di Jaeger non si sono dimostrate completamente vere, soprattutto quella per cui i dialoghi sarebbero l’espressione di una fase platonica del pensiero di Aristotele. Alcuni dialoghi sono sicuramente giovanili, composti nel periodo trascorso da Aristotele nell’Accademia di Platone. Per esempio il Grillo fu scritto poco dopo il 362 a.C., anno della morte di Grillo, figlio di Senofonte, quando Aristotele aveva poco più di 22 anni. Esso criticava il tipo di retorica, basato sulla mozione degli affetti, anziché sulle argomentazioni dialettiche, praticato da Isocrate, e con ciò aprì la porta ad un insegnamento di retorica tenuto da Aristotele nell’Accademia3. Giovanile si può considerare anche l’Eudemo, dialogo scritto da Aristotele poco dopo il 354 a.C., anno della morte del suo amico accademico Eudemo di Cipro (da non confondersi con Eudemo di Rodi, editore dell’Etica Eudemia), dove si sostiene l’immortalità dell’anima, ma è già presente la concezione della sostanza che troveremo nelle Categorie, secondo cui la sostanza non ha contrario.
Anche il Protreptico, che non si sa se fosse un dialogo o un discorso, dovrebbe essere stato scritto intorno al 353 a.C., anno in cui Isocrate pubblicò l’orazione intitolata Antidosis («Scambio dei beni»), che è una risposta al Protreptico, o è un discorso a cui il Protreptico risponde. In quel periodo Aristotele si trovava ancora nell’Accademia, ma aveva ormai 30 anni, quindi era un filosofo maturo. In esso Aristotele, rivolgendosi a nome dell’Accademia a Temisone, re di una delle città di Cipro, esalta l’ideale accademico di vita dedita alla filosofia e di filosofia utile alla politica, ma professa già una concezione finalistica della natura e una visione gerarchica delle facoltà umane che si ritroveranno negli scritti più maturi. Gli elementi di platonismo, presenti nel Protreptico (la concezione della morte come una liberazione) e soprattutto nell’Eudemo (la dottrina della reminiscenza, l’affermazione che sarebbe meglio non essere mai nati), potrebbero appartenere ad interventi fatti dal personaggio di Platone, che era uno degli interlocutori dei dialoghi aristotelici. Lo stesso si può dire del dialogo Sulla filosofia, di cui non si conosce la data, ma che appartiene molto probabilmente al periodo accademico. In esso Aristotele criticava già la dottrina platonica delle Idee e dei numeri ideali e negava la generazione del mondo sensibile narrata da Platone nel Timeo, sostenendo invece l’eternità del mondo. Inoltre professava la concezione secondo cui il cielo sarebbe fatto ruotare su se stesso da un motore immobile, concepito anche come una mente, e quindi come un dio, anche se in qualche momento del dialogo si parlava di questo dio come di un demiurgo concepito alla maniera del Timeo.
Al periodo accademico risale inoltre un’opera intitolata Sul bene, in cui Aristotele esponeva una conferenza, o un corso di lezioni, tenuto da Platone sull’argomento, dove si dividevano le cose sensibili in due grandi classi, quelle «per sé» e quelle «relative ad altro», riconducendole entrambe a Idee, indi si riducevano le Idee a numeri ideali e questi a due princìpi opposti, l’Uno, detto anche Bene, e la Diade indefinita, detta anche Grandepiccolo. Si tratta delle cosiddette «dottrine non scritte» (agrapha dogmata) di Platone, menzionate da Aristotele anche nei suoi trattati (Physica IV 2, 209 b 14-15), che secondo i commentatori Aristotele avrebbe trascritto. Ma risale quasi sicuramente al periodo accademico, perché è presupposto dalle parti più antiche della Metafisica (il libro I), anche un trattato, o un dialogo, perduto Sulle Idee, in cui Aristotele esponeva e criticava sia la dottrina delle Idee sia la dottrina platonica dei numeri ideali e dei loro due princìpi, cioè appunto le «dottrine non scritte» di Platone. Ciò dimostra che già nel periodo accademico Aristotele si era staccato Platone, quindi aveva elaborato una propria concezione filosofica originale, quella che si ritrova nei trattati.
Pertanto anche alcune parti dei trattati, come già detto, possono risalire al periodo accademico, così come alcuni dialoghi possono essere stati scritti in periodi posteriori (abbiamo già menzionato il dialogo Sul regno e l’Alessandro o sulla colonizzazione). A mio avviso, ad esempio, i Topici, trattato sulla dialettica, e il trattato intitolato Categorie, che fornisce molte nozioni ai Topici – per cui secondo alcuni commentatori antichi si intitolava anche Preliminari ai Topici (Pro tôn Topikôn, o Pro tôn topôn) –, risalgono molto probabilmente al periodo accademico. Ma a questo risalgono anche scritti come le Divisioni, ugualmente utili alla dialettica, anche se altri autori possono avervi introdotto in seguito alcune aggiunte (cosa molto facile nei manoscritti antichi)4.
3. Opere di logica e dialettica
Il corpus aristotelicum, che si suppone edito da Andronico nel I secolo a.C., si apre con una serie di trattati, Categorie, De interpretatione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Elenchi sofistici, considerati tradizionalmente le opere di logica di Aristotele. Per «logica» si intende una disciplina fondata dallo stesso Aristotele (anche se molti elementi di essa si trovano già in Platone), la quale avrebbe per oggetto il logos, che in greco significa pensiero, o discorso, o parola. Poiché secondo Andronico tale disciplina sarebbe servita da «strumento» per tutte le altre, la raccolta delle suddette opere di logica è stata chiamata Organon, che in greco significa appunto «strumento». In Aristotele tuttavia non c’è traccia di questa concezione, mentre la parola «logico», usata da Aristotele per indicare un certo tipo di discorso, è per lui sinonimo di «dialettico», e la «dialettica» è la tecnica del discutere con qualcuno allo scopo di confutarlo o di non farsi confutare da lui. Poiché si discute per mezzo di logoi, di discorsi, o di argomenti, e poiché tutti i suddetti trattati hanno a che fare con i logoi, si può dire che essi contengono la logica di Aristotele. Può essere anche giustificata la decisione degli editori di collocare tali trattati all’inizio del corpus, perché effettivamente Aristotele inizia lo studio della realtà partendo dal linguaggio, dal modo in cui le cose «sono dette» (legetai). Non a caso i filosofi del Novecento che considerano la filosofia come analisi del linguaggio, cioè i cosiddetti filosofi «analitici», considerano Aristotele un precursore di questo modo di intendere la filosofia, anche se Aristotele, come vedremo, non si arresta certo a questo tipo di analisi, ma se ne serve per conoscere e spiegare la realtà.
Nelle Categorie, termine che per lui significa «predicati» – dal verbo katêgorein, originariamente «accusare», ma poi «predicare» nel senso di dire qualcosa («predicato») a proposito di qualcos’altro («soggetto») –, Aristotele si occupa delle cose che «si dicono senza connessione», cioè per mezzo di parole singole, come i nomi o i verbi, prese in sé stesse e non come parti di un discorso. Vi sono cose, osserva Aristotele, che hanno in comune un nome usato con lo stesso significato, cioè con la stessa definizione («definizione» è il discorso che esprime l’ousia, l’essenza, ciò che la cosa è), per esempio l’uomo e il bue hanno in comune il nome di zôon, usato col significato di «animale», cioè riferito ad entrambi con la stessa definizione (poniamo «essere vivente capace di muoversi e di percepire»): queste cose si chiamano «sinonime». Vi sono invece cose che hanno ugualmente lo stesso nome, ma questo viene usato con significati, con definizioni, completamente diverse, per esempio un uomo e un dipinto hanno anch’essi in comune il nome di zôon (il quale in greco significa, oltre che «animale», anche «dipinto»), ma hanno evidentemente definizioni diverse: queste cose si chiamano «omonime»5. Si tratta di una distinzione che è importante tenere presente nelle discussioni, quando si esercita la dialettica, perché può accadere che un interlocutore voglia confutarci usando la stessa parola con significati diversi, nel qual caso la confutazione non è valida (cade nella fallacia della «omonimia»). Ma, come vedremo, questa distinzione si rivelerà importante anche per la metafisica.
«Delle cose che sono – continua Aristotele – alcune sono dette (legetai) di un soggetto, ma non sono in nessun soggetto, per esempio “uomo” è detto di un soggetto, cioè di “un certo uomo”, ma non è in nessun soggetto»6. Con queste parole si introduce la distinzione fondamentale tra soggetto e predicato. «Soggetto» (in greco hypokeimenon, letteralmente «ciò che sta sotto», o «sostrato») è la cosa di cui si parla, per esempio «un certo uomo», poniamo Socrate. «Detta di un soggetto» è la cosa che si predica del soggetto, per esempio «uomo». Gli esempi rivelano che il soggetto, per Aristotele, è un individuo, mentre il predicato è un «universale», ossia qualcosa che si dice di molti individui. Per Platone la vera realtà erano appunto gli «universali», da lui chiamati «forme» o «Idee» (scrivo questo nome con la maiuscola perché in Platone si riferisce non a contenuti mentali, come nel linguaggio moderno, ma ad oggetti universali), esistenti in sé, separati dalle cose sensibili, mentre per Aristotele gli universali sono semplici predicati, esprimono l’essenza delle cose individuali, senza esserne separati. Questa distinzione serve dunque ad Aristotele per criticare la dottrina platonica delle Idee.
«Altre cose – prosegue Aristotele – sono in un soggetto, ma non si dicono di nessun soggetto», per esempio un certo bianco è in un soggetto, cioè nel corpo, perché ogni colore è in un corpo, ma non si dice di nessun soggetto»7. Qui vengono introdotte cose che in seguito saranno chiamate «accidenti», le quali sono in un soggetto nel senso che non possono esistere se non in un soggetto, non esistono «in sé», ma sono diverse dagli universali menzionati sopra, perché non sono predicati di molti individui. L’esempio di «un certo bianco» mostra che non si sta parlando del «bianco» in generale, che può essere detto di molti corpi, ma del bianco che è proprio di un certo individuo, per esempio il bianco di Socrate, cioè un bianco particolare. Anche gli accidenti tuttavia possono essere universali, come per esempio «bianco» detto in generale, quando sono predicati di accidenti particolari, per esempio di molti bianchi particolari. Con questa seconda distinzione Aristotele ha introdotto, desumendoli dall’analisi del linguaggio, due criteri, per così dire, incrociati tra di loro, la distinzione verticale tra predicati universali e soggetti individuali (verticale perché gli universali sono in un certo senso «sopra» i particolari) e la distinzione orizzontale tra accidenti e soggetti esistenti in sé, che saranno chiamati «sostanze» (orizzontale perché gli accidenti sono in un certo senso a fianco delle sostanze), i quali gli permettono di classificare tutte le cose che sono dette senza connessione, cioè tutte le cose che sono.
Gli universali possono predicarsi direttamente degli individui, nel qual caso sono «specie» (per esempio «uomo»), oppure ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Biografia
  4. Analisi delle opere
  5. Concetti chiave
  6. Storia degli effetti
  7. Bibliografia
  8. Indice dei nomi
  9. Sommario
  10. Note