Italia no, Italia forse
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Perché i talenti fuggono e qualche volta ritornano

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Perché i talenti fuggono e qualche volta ritornano

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Tanti giovani italiani vanno all'estero per lavorare, spesso proprio quelli che più hanno meritato negli studi e dovrebbero guardare con fiducia al futuro. Solo alcuni (pochi) ritornano. Questo libro, nato all'interno del Collegio Universitario "Lamaro Pozzani", racconta sette storie di studiosi ed esplora le vere ragioni del declino italiano – risorse inadeguate, persecuzioni burocratiche, ma anche allergia alla cultura della valutazione e della sfida –, che non è un destino ineluttabile ma una condizione da cambiare, anche per l'Università e la ricerca.

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Informazioni

Editore
La Scuola
Anno
2014
ISBN
9788835036562
Stefano Semplici
Sette storie per una strategia
L’idea di questo lavoro nacque durante un viaggio in treno insieme a Paolo Busco, che era allora uno degli allievi più brillanti del Collegio “Lamaro Pozzani”, del quale sono direttore scientifico ormai da molti anni1. Paolo, oggi, è lontano dall’Italia e sta lavorando come Consigliere giuridico aggiunto presso la Corte permanente di arbitrato dell’Aia. È un contratto che dovrebbe durare un anno e concludersi con il suo ritorno, dopo un’esperienza straordinariamente formativa in una grande istituzione internazionale, senza diventare un’ulteriore dimostrazione dell’attualità del tema che discutevamo quel giorno. Se dovesse finire così, non potrei meravigliarmi. Ci ponevamo domande così scontate da apparire quasi banali. Perché tanti giovani italiani se ne vanno per sempre? E perché se ne vanno proprio quelli che più hanno meritato negli studi e dovrebbero avere meno difficoltà nel coltivare le loro aspirazioni e guardare con fiducia al futuro? E ancora: cosa si dovrebbe fare per accreditare il nostro Paese non solo come fabbrica di talenti destinati a contribuire allo sviluppo di altri, ma anche come polo di attrazione in grado di richiamare dall’estero almeno alcune delle intelligenze e delle passioni migliori? Il problema era ed è che mancano le risposte e l’Italia sembra diventare sempre più terra di “fuga” anziché di “circolazione” di cervelli, per riprendere un’alternativa ampiamente diffusa nella letteratura sull’argomento. Diminuisce progressivamente il numero di coloro che sostengono che il fenomeno è del tutto normale, non ci deve preoccupare e costituisce comunque una fra le tante conseguenze inevitabili della globalizzazione.
Questo libro nasce dalla convinzione che per trovare le soluzioni non basta accumulare numeri, grafici e confronti internazionali, che restano naturalmente indispensabili. L’idea è quella di raccontare delle storie. Anzi: di lasciare che i protagonisti di storie di successo diano a quei numeri la sostanza di un’esperienza vissuta, raccontando se stessi e confrontandosi con giovani (tutti laureati del Collegio “Lamaro Pozzani”) che hanno iniziato un percorso analogo a quello da loro intrapreso tempo fa. Abbiamo pensato a studiosi che all’estero non hanno semplicemente perfezionato e portato a termine la loro formazione, ma hanno lavorato e raggiunto posizioni importanti nei rispettivi ambiti di ricerca. E lo hanno fatto negli Stati Uniti, nel Paese che ancora rappresenta la punta più avanzata del progresso scientifico e le cui università continuano a godere del più grande prestigio e a monopolizzare le prime posizioni delle graduatorie internazionali, anche se questo primato comincia ad essere avvicinato in molti campi dalle potenze emergenti della conoscenza. Studiosi che hanno dimostrato di saper affrontare la concorrenza più difficile e che, a un certo punto della loro vita, sono tornati. In città e in contesti istituzionali e di ricerca diversi, ma anche con competenze diverse: l’economia, la fisica, l’ingegneria, la medicina, la filosofia. Ci sono almeno alcuni, dunque, che ritornano. E non perché, semplicemente, negli Stati Uniti non c’era posto per loro.
Sbaglierebbe – lo dico subito – chi pensasse ad un esito consolatorio di questo esperimento: le differenze fra i due “mondi” sono profonde e i ritardi dell’Italia molti e gravi. Fermo restando, ovviamente, che anche dall’altra parte dell’Atlantico ci sono problemi e che la pedissequa imitazione di un modello rischia sempre di riprodurne i vizi senza importarne le virtù. È proprio questa duplice consapevolezza che rende significativa la convergenza di queste voci intorno a punti cruciali, che indicano altrettante priorità per l’agenda dei decisori politici e per i comportamenti concreti di chi condivide questa responsabilità per il futuro dell’università e della ricerca. Non è ovviamente questo l’unico settore che ha bisogno di riequilibrare i flussi in entrata e in uscita delle competenze più qualificate. Una recente ricerca del censis, in collaborazione con la Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro, ha sottolineato l’importanza delle iniziative di alcune aziende finalizzate proprio a trattenere e valorizzare giovani talenti: il loro contributo è indispensabile per sostenere la speranza di lavoro e i diritti di tutti. Le linee di riflessione e le proposte che possono nascere dalle storie raccontate in questo libro sono solo una parte – importante e in qualche modo esemplare – di un impegno che deve essere pervasivo per risultare efficace. Proverei a raccoglierle in quattro famiglie di questioni, fra loro strettamente intrecciate.
1. Il sapere fa la differenza. Soprattutto quando molti se ne vanno e pochi arrivano
Il brain drain, in italiano fuga di cervelli, è un fenomeno di migrazione molto particolare, perché riguarda un segmento specifico della popolazione e coinvolge numeri piccoli rispetto a quelli che scavarono anche in Italia solchi profondi in intere generazioni. La sua definizione è abbastanza intuitiva e comunemente accettata: a spostarsi sono persone altamente qualificate, che, dopo essersi formate in un Paese, si trasferiscono in un altro per lavorare, magari dopo aver ulteriormente perfezionato lì la loro preparazione2. Il riferimento all’attività lavorativa è fondamentale, per non cadere nell’equivoco di considerare il brain drain una questione che riguarda in fondo solo le università e i loro professori. Una formazione di livello universitario (che nel linguaggio degli addetti ai lavori si definisce “terziaria”) è il presupposto che indica e circoscrive la popolazione coinvolta nel fenomeno, ma non c’è “fuga” – ammesso che questo termine sia appropriato – quando un giovane va all’estero per conseguire un dottorato e poi ritorna a casa per mettere a frutto le competenze di più alto livello così maturate, così come non sono solo docenti universitari e ricercatori, come ho appena sottolineato, i “cervelli” dei quali si parla. Le storie raccontate in questo libro, proprio perché hanno avuto come teatro principale aule e laboratori, non pretendono di offrire risposte esaustive sulla reale ampiezza e sulle conseguenze del brain drain, intorno alle quali si confrontano tesi anche molto diverse. Esse sono la testimonianza diretta e inequivocabile di una asimmetria che ha spinto questi studiosi verso gli Stati Uniti semplicemente perché volevano sapere e fare di più. Questo è il primo dato sul quale occorre riflettere. Il capitale finanziario, nel mercato globale che possiamo immaginare di riformare ma non certo di smantellare, si colloca là dove gli investitori intuiscono le migliori possibilità di farlo fruttare. Analogamente, non si può pensare di ingabbiare il capitale umano all’interno delle frontiere nelle quali esso è cresciuto. L’Italia sembra aver perso da tempo la capacità di attrarre investimenti dall’estero. E quando si tratta del sapere, purtroppo, le cose non vanno meglio.
Gli Stati Uniti, in realtà, non sono la meta principale dei laureati in uscita dall’Italia. I dati ISTAT sul numero dei cittadini che si sono cancellati dalle liste dei residenti perché trasferiti all’estero evidenziano come siano oggi i Paesi europei ad attirare il maggior numero dei nostri lavoratori più qualificati. Nell’ordine: Regno Unito, Svizzera, Germania, Francia. Si tratta, a dire il vero, di numeri che potrebbero apparire quasi tranquillizzanti. Considerando, dall’altra parte delle tabelle, il numero di coloro che si sono iscritti, che sono rientrati, il saldo negativo per il 2011 si riduce a meno di 5.000 unità. Ci sono due ulteriori elementi che non possono essere trascurati. Il primo è che la quota dei laureati sul totale degli emigranti italiani è andata progressivamente aumentando. Il secondo aspetto che dovrebbe far scattare un segnale di allarme sulla capacità del Paese di competere sui mercati internazionali ai livelli di più alta competenza e qualificazione, oltre che su quella di offrire possibilità adeguate proprio ai giovani sulla cui formazione ha investito di più, è l’ampiezza del saldo negativo in questo particolare rapporto di “scambio” con i Paesi più avanzati. Considerando soltanto i quattro europei appena citati, i rientri equivalgono a meno del 40 per cento del flusso in uscita. Per trovare un numero di iscritti alle liste di residenza che avvicini o superi quello dei cancellati occorre scorrere l’elenco fino all’Argentina e al Venezuela3. La “fuga” verso gli Stati Uniti, in questo contesto, si caratterizza proprio per l’elemento che accomuna le esperienze che vengono proposte nel volume. Ad essere particolarmente significativo, in questo caso, non è il complessivo saldo negativo del flusso di circolazione del capitale umano più qualificato, che è anzi inferiore a quello, per esempio, del Brasile, ma il fatto che il mondo accademico e della ricerca statunitense è ancora quello più “attrattivo” per i giovani di tutto il mondo. L’Italia, viceversa, sembra richiamare (e poi magari maltrattare) molti turisti per i suoi monumenti, ma assai pochi studiosi nelle sue università, anche rispetto ad altri Paesi europei. Con il risultato che anche per gli italiani più bravi diventa più difficile restare o ritornare dopo un periodo di vita e di lavoro all’estero.
I dati elaborati dalla National Science Foundation degli Stati Uniti sul numero dei dottorati conseguiti nelle diverse aree di studio sono eloquenti. Nel periodo 1981-2011 il loro numero totale è aumentato di circa il 60 per cento, passando da poco più di 31.000 a quasi 50.000. Contemporaneamente, quello dei dottori che non sono cittadini statunitensi o residenti permanenti ma semplicemente titolari di un visto temporaneo è passato da poco meno di 4.000 a oltre 14.000. Venti anni fa questa cifra corrispondeva a poco meno del 13 per cento del totale; oggi siamo quasi al 30 per cento (tenendo conto del fatto che per quasi 3.000 dottori del 2011 il dato della cittadinanza e dell’eventuale visto non è disponibile). E mentre il numero degli stranieri rimane relativamente modesto nel settore Education e in quello delle Humanities (dove si colloca comunque fra il 15 e il 20 per cento), l’attrattività del sistema statunitense al livello apicale della formazione sale in modo impressionante nel settore delle scienze fisiche, matematiche, dei computer e dell’informazione e in quello dell’ingegneria. In quest’ultimo, in particolare, il numero dei dottori stranieri sopravanza addirittura – e nettamente – quello dei cittadini USA, anche se la differenza si è significativamente ridotta nel quinquennio 2006-2011. Non sembra però collocarsi a questo livello il problema, sia per i numeri assoluti coinvolti sia per la sostanziale comparabilità fra la situazione italiana e quella europea4. Più interessante è semmai riflettere sul tasso di “ritorno” di questi lavoratori qualificati della conoscenza. Oltre 2/3 dei giovani che si erano trasferiti dall’Europa negli Stati Uniti per un dottorato (i dati sono in questo caso del 2008) rimangono nel Paese di adozione. Una percentuale molto inferiore a quella di cinesi e indiani, ma molto superiore a quella di Corea del Sud, Taiwan e Turchia (che nel 2011 risultano rispettivamente al terzo, quarto e quinto posto per numero di dottorati negli USA). Questi Paesi, come gli altri Paesi asiatici e quelli dell’America centrale e meridionale, hanno potuto contare sul rientro di percentuali di giovani formati al più alto livello nelle università statunitensi comprese fra il 37 e il 48 per cento5. E non è difficile immaginare che ciò abbia contribuito in misura rilevante al loro sviluppo.
Tutta l’Europa continua a soffrire la concorrenza degli Stati Uniti. E questo vale, in particolare, per il settore scientifico e tecnologico, nel quale il brain drain verso l’altra sponda dell’Atlantico è stato valutato addirittura in percentuale a doppia cifra sul totale dei ricercatori per quasi tutti i Paesi del continente6. L’Italia aggiunge un più marcato deficit di attrattività, che rischia di marginalizzarla progressivamente rispetto alle dinamiche di circolazione del sapere. La capacità attrattiva delle nostre università, almeno nel confronto con i Paesi più avanzati, è addirittura inferiore a quella che il sistema-Paese dimostra, come ho già sottolineato, rispetto all’insieme dei lavoratori più qualificati. I dati presentati nell’edizione 2013 di Education at a glance, la pubblicazione dell’OCSE, sono impietosi. Prendendo in considerazione la formazione di terzo livello nel suo complesso, quasi il 20 per cento degli italiani che studiano all’estero lo fa nel Regno Unito. Seguono Germania (14,1), Austria (12,3), Spagna (11,9), Francia e Svizzera (9,8) e Stati Uniti (6,8). Per questi Paesi, viceversa, l’Italia quasi non esiste come meta7. È vero che i nostri studenti all’estero non sono moltissimi (il 3,2 per cento del totale, rispetto, per esempio al 3,8 della Francia o al 4,8 della Germania), ma questa constatazione non fa altro che sottolineare quanto siano pochi quelli che dall’estero hanno scelto l’Italia. L’indice che misura il rapporto fra il numero degli stranieri che studiano in un Paese e quello degli studenti che da quel Paese si sono trasferiti altrove è infatti fra i più bassi: 1,2, rispetto al 2,1 della Germania e al 3,4 della Francia, per non citare la doppia cifra di Australia, Regno Unito, Nuova Zelanda e Stati Uniti, per i quali, ancor più che per la Francia, il fattore linguistico contribuisce ovviamente in misura determinante8. Il 18 per cento dei laureati stranieri in Italia, limitatamente agli atenei coinvolti nell’Indagine 2013 di AlmaLaurea (63), viene dall’Albania, seguita a notevole distanza da Cina, Romania, Camerun e Grecia9.
Le ricadute anche economiche di questo ritardo sono evidenti. A livello internazionale, è aperto il dibattito sulla legittimità di considerare la conoscenza scientifica come un bene escludibile anche se non rivale, soprattutto quando da essa dipende la tutela di diritti fondamentali delle persone, come la salute. Essa non è, e prevedibilmente non diventerà, un bene pubblico nel senso degli economisti: la proprietà intellettuale e i brevetti che la proteggono continueranno a scavare solchi di competitività fra i Paesi, a tutto vantaggio di quelli che riescono ad attivare intorno a centri di eccellenza quegli scambi e trasferimenti di sapere che generano esternalità positive e sviluppo, facendo della scienza un caso paradigmatico della capacità del capitale umano di generare valore economico laddove «vi è una maggiore presenza di infrastrutture a supporto della produzione di conoscenza». La scienza «genera ricchezza nel luogo in cui si trova» e questo diventa tanto più vero «se si prende in considerazione la nozione di conoscenza tacita, cioè l’insieme di tutte quelle conoscenze che non possono essere codificate e trasmesse come informazione attraverso documentazione, pubblicazioni accademiche, lezioni, conferenze e altri canali di comunicazione. Tale conoscenza è più efficacemente trasmessa tra gli individui che risiedono nello stesso luogo»10.
Hanno ragione coloro che sostengono la necessità di abbandonare l’espressione brain drain, perché essa veicola facilmente l’idea che si tratti di un fenomeno da arginare, anziché della libertà con la quale il talento cerca le migliori condizioni per fiorire, come è giusto che avvenga. Michael Clemens la liquida come il risultato di un pregiudizio semplicemente assurdo, come sarebbe stato il definire “abbandono della famiglia” il fatto che le donne abbiano lasciato la cucina per il posto di lavoro verso la metà del secolo scorso o Great Farm Drain, anzi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Stefano Semplici – Sette storie per una strategia
  5. Carla Bagnoli – Una doppia responsabilità: produrre e trasmettere il sapere: a cura di Martina Zollo
  6. Antonio Baldini – La ricerca ha bisogno di una massa critica: a cura di Matteo Paoletti
  7. Giancarlo Logroscino – Portare nel Sud la sfida dell’eccellenza: a cura di Sofia Toniolo
  8. Roberto Perotti – I pregiudizi che gli studenti per primi dovrebbero superare: a cura di Noemi Nocera
  9. Pantaleo Raimondi – Nel mondo della scienza non c’è posto per il provincialismo: a cura di Martina Gerbino
  10. Luca Salgarelli – Dai laboratori e dall’università all’impresa: a cura di Giorgio Mazza
  11. Enrico Spacone – Qualcosa sta cambiando. Più mobilità e più valutazione aiutano a crescere: a cura di Antonio Castiello
  12. Note su autori e curatori
  13. Sommario