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Il pensiero di Rousseau presentato da uno dei maggiori specialisti attraverso l'analisi delle sue opere, le categorie chiave della sua filosofia e la storia degli effetti nei secoli.

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Informazioni

Editore
La Scuola
Anno
2013
ISBN
9788835037859
II
Analisi delle opere
«[…] che nessun cittadino sia così ricco
da poterne comprare un altro e nessuno
così povero da essere costretto a vendersi».
(Il contratto sociale, II, 11)
1. Discorso sulle scienze e sulle arti
È una calda giornata di luglio del 1749. Rousseau si sta dirigendo verso il carcere di Vincennes, dov’è recluso dal 24 giugno l’amico Diderot, punito per aver pubblicato la sua Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient, d’impostazione materialista e atea. Ha in mano il «Mercure de France» e, scorrendolo, gli cade l’occhio sul bando di un concorso bandito dall’Accademia di Digione. Titolo: «Se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a moralizzare i costumi». È lo stesso Jean-Jacques a raccontarci nelle sue Confessioni che, alla lettura di questo titolo, fu colto da una vera e propria «illuminazione». Accadde come se quelle parole gli rivelassero ciò che da tempo aveva vagamente sentito, genericamente avvertito, indistintamente intravisto, e che ora gli appariva all’improvviso chiaro. Il senso delle letture e delle riflessioni disordinatamente fatte sino a quel momento veniva di colpo a concentrarsi in un’intuizione chiara come il bagliore di un fulmine. Che cosa chiedeva l’Accademia? In sostanza, un giudizio su tutto quanto la civiltà dei “lumi” aveva prodotto sino a quel momento. Si domandava, infatti, di pronunciarsi sul rapporto tra progresso delle conoscenze scientifiche e delle «arti», da un lato, e miglioramento dei «costumi», dall’altro.
Coustume (o coutume), ci dice il Dizionario Furetière (ed. 1725), significa “abitudine”, “corso della vita” (train de vie), e anche l’insieme di norme, regole, atteggiamenti che si sedimentano nel tempo e che gli uomini finiscono per seguire quasi automaticamente (il Dizionario precisa che la «facilité de faire» contraddistingue il «costume»). Il costume di un popolo conferisce agli individui che ne fanno parte un certo carattere, un certo tono, uno spirito condiviso, che è insieme morale e spirituale: non il tono delle Accademie, dei philosophes, certo, ma il tono tipico di quello che oggi chiameremmo il senso comune, il comune sentire, qualcosa che si avvicina all’ethos, per dirla con l’antico termine greco.
In cosa consiste l’«illuminazione» di Rousseau a fronte dell’interrogativo proposto dagli accademici di Digione? Lo possiamo apprendere dalle pagine del Discorso in cui Rousseau le dà forma esplicita e che gli vale, il 10 luglio 1750, il premio del concorso. Consiste nel ribaltare il modo in cui il rapporto tra scienze, arti, lettere e costumi era inteso nella mentalità corrente dei philosophes. Rousseau mette in atto questo rovesciamento attraverso un’interpretazione della storia che non abbandonerà più in tutto il corso della sua riflessione successiva. Potremmo affermare, con un certo margine di approssimazione, che in questo primo Discorso si trova già un’embrionale filosofia della storia. Ciò che la caratterizza è l’idea secondo cui, nella vicenda dell’Europa, la rinascita delle conoscenze scientifiche e delle varie arti, avvenuta dopo i tempi oscuri del medioevo, non ha coinciso con il miglioramento dei «costumi», ma con la loro progressiva decadenza. Detto in altri termini: la civiltà avanza, ma il grado di moralità collettiva degli uomini e delle donne che abitano questa parte del mondo, l’Europa, diminuisce. E ciò avviene, a parere di Rousseau, per almeno tre motivi fondamentali:
– Le scienze e le arti distraggono dalla cura per la «virtù», giacché tendono a mettere in primo piano il successo mondano più che la rettitudine interiore; proiettano l’uomo nel teatro del mondo, dove l’importante è brillare, far mostra di sé, esibire le proprie qualità. Rousseau, dicendo questo, non guarda unicamente al valore intrinseco delle opere scientifiche e artistiche, ma ne ha presenti e ne denuncia le conseguenze sociali; si situa quindi tra il sociologo della cultura e il moralista, erede della tradizione del moralismo seicentesco (pensiamo a Montaigne, La Rochefoucauld, Pascal, Nicole). E il giudizio è radicalmente negativo: «Si è vista la virtù svanire nella misura in cui la loro luce [delle scienze e delle arti] si elevava sul nostro orizzonte, e questo stesso fenomeno è stato osservato sempre e dovunque»1.
– Le scienze e le arti sono state e sono ancora troppo spesso al servizio del potere, nel senso che non solo vengono utilizzate per legittimare il dominio, ma lo abbelliscono in modo che la sua durezza possa, per quanto possibile, rimanere nascosta: «Il bisogno elevò i troni; le scienze e le arti li hanno rafforzati»2.
– Per un altro motivo ancora, oltre che per il precedente, Rousseau mette allo scoperto e smaschera la non-innocenza del sapere e delle arti. Entrambi, infatti, si accompagnano inevitabilmente al lusso, cioè a una condizione sociale in cui le classi privilegiate hanno il tempo e il gusto per gli esercizi dello spirito, mentre la maggioranza della popolazione versa nel bisogno. Una società di costumi semplici, frugali, morigerati, come per esempio quella spartana3, non è certo il terreno più propizio per il loro sviluppo, ma rimarrà sempre, almeno così pensa Rousseau, il modello della società virtuosa, in cui al posto dello sfarzo e dell’inutile erudizione dominano la sobrietà, il coraggio e la dedizione al bene della patria4.
Tutto questo non significa che Rousseau rifiuti ciò che lo spirito umano può produrre di buono. Egli cerca di far vedere che, come accadeva in alcuni popoli antichi (primi fra tutti, i Romani al tempo della repubblica), coltivare la conoscenza e apprezzare le arti non va necessariamente a scapito della virtù. Ma ciò può avvenire solo a certe, precise condizioni.
In primo luogo, che lo spirito umano impari a esercitarsi senza orgoglio, ma con umiltà e modestia, perché il cammino della conoscenza è arduo, lungo, pieno di rischi, non adatto a tutti5. L’esempio, suggerisce Rousseau, ci sta davanti, basta saperlo guardare e, soprattutto, capire: è Socrate. Egli ci insegna a comprendere i nostri limiti, cioè ci insegna che, per quanto si sforziamo di accumulare conoscenze in ogni campo, quello che non sappiamo sarà sempre di più di ciò che abbiamo conquistato. Il vero sapere consiste, in realtà, nel sapere di non sapere. Ritroviamo il tema della docta ignorantia di Cusano6, che Rousseau può aver mutuato, oltre che dal testo di Cusano stesso, anche da altre fonti, compreso il giansenismo7. C’è pure l’influenza stoica; la si può cogliere nell’idea che ogni tipo di conoscenza non è un bene in sé, non produce progresso per forza propria (questa è l’illusione che Rousseau imputa ai philosophes), ma esclusivamente se si accompagna alla pratica della virtù. E virtù vuol dire morigeratezza e severità dei costumi, dedizione al bene comune, attaccamento alla patria; ma significa soprattutto senso del limite e della finitezza umani, della fragilità di tutto ciò che costruiamo attraverso il padroneggiamento tecnico del mondo.
In secondo luogo, una buona pratica della conoscenza comporta che questa stia in rapporto con l’autorità politica, ma non per meglio garantire il dominio, quanto per creare condizioni che consentano agli uomini di «agire bene di buon grado» e di raggiungere la loro felicità entro istituzioni giuste8. L’obiettivo è l’alleanza di «virtù», «scienza», «autorità»9, che invece, come Rousseau evidenzia, hanno quasi sempre proceduto separatamente10.
Infine, l’autore del Discorso attira l’attenzione sul rapporto che sussiste tra il fiorire delle scienze, delle arti… e quello che, con il linguaggio attuale, potremmo definire il contesto sociale in cui esse trovano così tanto spazio e così tanto successo. Quando risponderà alle obiezioni fatte al suo Discorso dal re di Polonia Stanislao Leszczynski, Rousseau osserverà che
«la prima fonte del male è la disuguaglianza: dalla disuguaglianza sono nate le ricchezze, giacché i termini di povero e ricco hanno valore relativo e ovunque gli uomini saranno uguali non ci saranno né ricchi né poveri. Dalle ricchezze sono nati il lusso e l’ozio: dal lusso si sono originate le belle arti e dall’ozio le scienze»11.
Si noti come il quadro, in questa lettera, si allarghi: scienze, lettere, arti, non sono più, come poteva sembrare dalla lettura del Discorso, le cause prime del decadimento dei «costumi», bensì la conseguenza di un assetto sociale ed economico nel quale domina la disuguaglianza e in cui il «lusso» di pochi denuncia l’abisso tra «ricchi» e «poveri».
In queste poche righe è già annunciato il tema del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, che Rousseau, partecipando ancora una volta alla nuova questione posta nel concorso dell’Accademia di Digione per il 1754, scriverà tra la fine dell’anno 1753 e il 1 giugno 1754. Stavolta non vincerà il premio, ma chiarirà alcuni problemi che il Discorso sulle scienze e sulle arti aveva lasciato aperti o irrisolti.
Come spiegare, infatti, i tanti mali che egli lega, nel primo Discorso, alla decadenza dei «costumi» attribuendoli unicamente all’orgoglio, alle passioni, alle illusioni che la conoscenza scatena in chi la coltiva e che presto si diffondono nella società intera? Il lettore non fatica molto ad accorgersi che gli effetti devastanti descritti in questo testo sono palesemente sproporzionati, nella loro enormità ed estensione, rispetto alla causa da cui vengono dedotti (scienze-arti-lettere → corruzione morale e spirituale dell’intera società). Se però si fa attenzione a quanto Rousseau scrive nella lettera a Stanislao, allora il quadro diventa sicur...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. I. Biografia
  5. II. Analisi delle opere
  6. III. Concetti chiave
  7. IV. Storia degli effetti
  8. Bibliografia
  9. Indice dei nomi
  10. Sommario