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Una introduzione al pensiero di Martin Heidegger: i nuclei tematici delle principali opere, il rapporto con le altre scuole filosofiche, gli sviluppi delle elaborazioni teoriche (in autori come Gadamer, Ricoeur, Derrida, Sartre, Levinas), l'influenza su molti campi del sapere, la riflessione critica sulla nostra epoca, alla luce di quella che e, forse, la sua caratteristica fondamentale: il dominio tecnico. Sono presentati, in maniera sintetica, anche i nodi che hanno conosciuto diverse interpretazioni, per fornire una immagine completa del pensiero heideggeriano e della posta in gioco costituita dalle sue diramazioni teoretiche.

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Informazioni

Editore
La Scuola
Anno
2014
ISBN
9788835038733
II
Analisi delle opere
1. La dottrina del giudizio nello psicologismo (1914)
Il punto di partenza della riflessione di Martin Heidegger è rappresentato dalla questione della realtà, e cioè della possibilità da parte del soggetto conoscente di conoscere il reale. Nel 1912, agli albori della sua riflessione filosofica, egli avanzava, infatti, l’esigenza di recuperare il realismo (R, 134), poiché quando gli scienziati si occupano di corpi vegetali e animali, di cellule, di corpi celesti, essi sono certamente convinti «di non analizzare pure sensazioni o elaborare semplici concetti, ma di porre e definire oggetti reali indipendenti da loro stessi e dalla loro ricerca scientifica» (R, 135).
Su questa base egli si accosta al problema del rapporto tra leggi ideali della logica, che pretendono di essere assolutamente valide, e la struttura psichica degli individui, che è variabile e fattuale. Rispetto a questo problema egli individua l’errore di fondo della filosofia a lui contemporanea nello psicologismo, che riduce le oggettualità ideali e la totalità dell’essere a eventi materiali o di natura psichica.
Sulle prime, in opposizione allo psicologismo, Heidegger riprende la teoria dei due mondi sviluppata da Hermann Lotze, e cioè l’idea secondo cui le leggi logiche sono irriducibili alla struttura psicofisica. Per esempio, la necessità che mi costringe a trarre certe conseguenze da determinate premesse è di ordine diverso da quella che fa sì che un sasso non più sostenuto dalla mano cada per terra. Vi è dunque un’alterità radicale tra gli eventi della realtà e il modo di essere della verità ideale: i primi sono nel tempo e fattuali, mentre le verità ideali sono sovratemporali e assolute. Per questo, Lotze aveva notato che un enunciato non esiste come le cose. La sua realtà consiste nel fatto che «vale [gilt] e il suo opposto non vale»1.
Proprio questa problematica sta alla base del primo lavoro di ampio respiro di Heidegger: La dottrina del giudizio nello psicologismo (1914). In quest’opera giovanile egli prende le mosse dal rifiuto dell’analisi psicologica della logica. Infatti, al fine di determinare se un giudizio è vero o falso non ci serve sapere come si è sviluppato il processo psicologico che porta alla sua formulazione, per cui è «sbagliato assumere risultati dell’analisi psicologica entro le definizioni fondamentali della logica» (DGP, 35).
Il limite di una direzione psicologista consiste dunque nel ricondurre le leggi logiche a «una legalità della nostra natura psichica. Su questa via non sarà possibile indicare delle norme con la loro legittimità, ma soltanto dati di fatto» (DGP, 39). Infatti, solo il giudizio in senso logico può essere vero o falso, mentre riguardo al giudizio in quanto evento psichico ci si può solo domandare se esso esista o non esista, che cosa accade nella mente da un punto di vista fattuale, e non se a esso competa un valore di verità.
Da un punto di vista logico non dobbiamo accertare se un giudizio esiste, e se chi lo proferisce vi creda effettivamente o meno, ma se esso è vero, se è valido. La validità di un giudizio consiste nella sua pretesa di verità, e un giudizio può avere una pretesa di verità solo se ha un senso: «Il senso, il giudizio che autenticamente lo costituisce, sta ora anche nella disgiunzione d’essere o vero o falso» (DGP, 139). Quello che può essere vero o falso non è, infatti, quanto accade nella nostra mente, ma il senso che nel giudizio prende forma.
In tal modo sembrerebbe che Heidegger riprenda sostanzialmente le critiche già avanzate nei confronti dello psicologismo dal neokantismo del suo maestro Rickert. In realtà, già nel 1914 egli imbocca una via diversa: se per Rickert la pretesa di verità si aggiunge al collegamento tra i contenuti, secondo Heidegger essa scaturisce dal collegamento stesso tra i contenuti. Nel giudizio non si collega dapprima il soggetto “il libro” con “l’essere giallo” e poi si aggiunge la pretesa di verità, e dunque “è vero che il libro è giallo”. Invece, non appena un giudizio ha un senso, esso ha anche una direzione all’oggetto, e dunque può essere vero o falso.
Infatti, la frase “la copertina del libro è gialla” può essere vera o falsa perché avanza una pretesa di verità. In linea di principio potrebbe essere falsa, e tuttavia, in quanto dotata di direzione all’oggetto, continuerebbe ad avere un significato. In questo modo Heidegger da un lato prende le distanze dalla tesi rickertiana secondo cui prima vi è una connessione di rappresentazioni e poi una presa di posizione valutativa che conferisce una pretesa di verità all’enunciato, dall’altro salda in maniera strettissima la nozione di senso, o di significato, a quella di validità o pretesa di verità. Ogni giudizio vale, e valere significa avere una pretesa di verità, cioè una direzione all’oggetto: potere essere vero o falso. È per questo che la questione della verità del giudizio è un problema logico e non psicologico: il riferimento alla verità è intrinseco alla sua costruzione logica. Il senso regge una relazione, poiché il modo di realtà del senso è quello del valere:
«La specifica relazione ad esso [al senso] immanente deve necessariamente partecipare di questa forma di realtà. A questa esigenza si soddisfa dicendo che qualcosa vale di un oggetto. Ciò che vale dell’oggetto nello stesso tempo lo determina. Il giudizio utilizzato sopra: “La copertina è gialla” ha questo significato: l’essere giallo della copertina vale. Questo significato si può con maggior precisione esprimere così: l’essere giallo vale della copertina» (DGP, 139).
Questo significa che in ogni giudizio è originariamente implicita la relazione alla verità, sicché “la copertina è gialla” significa “è vero che la copertina è gialla”. La nozione di verità è originaria, è intrinseca alla struttura del giudizio, e se non è presente esplicitamente è perché è ridondante. Un significato esiste nel modo della validità, cioè in quanto è una pretesa di verità. Un giudizio è dotato di un senso in quanto pretende di essere vero, e il suo senso è proprio questa pretesa di verità. Comprendere il senso di un giudizio non significa dunque entrare nel vissuto del soggetto che lo enuncia, ma sapere in quali condizioni saremmo disposti a dire che è vero oppure falso.
2. La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto (1916)
Questa impostazione viene sviluppata ne La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, dove Heidegger chiarisce che «la conoscenza, la cui verità ha per opposto la falsità, è il giudizio. Il giudizio è ciò che si può chiamare vero in senso proprio e autentico» (DCS, 91-92). Ora, le ragioni per cui la verità appare soltanto nel giudizio, e non per esempio nella mera esperienza percettiva, sono da ricercare proprio nella paroletta “è”, nella copula. Questa, in primo luogo, è la condizione di possibilità del giudizio, dato che mette in relazione un soggetto con un predicato. In secondo luogo, la copula fa sì che il giudizio sia un senso, e in terzo luogo, come abbiamo accennato, fa sì che il modo di esistenza di questo senso sia quello di una pretesa di verità:
«E invero l’est non significa, poniamo “esistere”, essere reale alla maniera degli oggetti sensibili e soprasensibili. Si intende invece il modo di realtà (esse verum) per la cui designazione oggi abbiamo a disposizione la felice espressione “valere”» (DCS, 92-93).
Il senso del giudizio vale, ha cioè una pretesa di verità e dunque un riferimento intrinseco all’oggetto, e questo riferimento è costitutivo dell’idea di verità. Ogni senso giudicativo, se è tale, porta in sé un riferimento al suo poter essere vero e falso: «La relazione di validità [Geltungsbeziehung], propria della copula, l’esse quale relazione tra soggetto e predicato, risulta come ciò che propriamente porta, sostiene la verità» (DCS, 93).
Questa teoria del giudizio e della verità implica però una presa di distanza dal tipo di realismo presente nel 1912. Se il significato del giudizio consiste nella pretesa di verità in esso immanente, allora la maniera in cui l’oggetto entra nella relazione conoscitiva dipende da come noi, attraverso il giudizio, ci dirigiamo verso di esso. Se il senso dell’asserzione è la sua pretesa di verità, questo senso enunciativo è anche la maniera in cui l’oggetto entra nella nostra esperienza conoscitiva, dato che esso diventa oggetto conosciuto solo nella misura in cui ci dirigiamo verso di esso attraverso un senso.
Per esempio, se dico “la copertina del libro è gialla”, l’oggetto entra nella relazione conoscitiva sulla base della categoria dell’essere-giallo, mentre se dico “la copertina del libro è costituita da particelle elementari” l’oggetto si rende manifesto in un altro modo di datità. Proprio per questo Heidegger può affermare che «l’oggetto determinabile subisce da parte della conoscenza una messa in forma [Formung]» (DCS, 90). È infatti decisivo notare che già ne La dottrina del giudizio nello psicologismo Heidegger aveva notato che «ciò che vale dell’oggetto nello stesso tempo lo determina» (DGP, 139).
Si tratta di una posizione che avvicina Heidegger al neokantismo. E tuttavia, mentre nell’impostazione neokantiana le categorie vengono imposte dal soggetto a un materiale caotico e privo di forma, per Heidegger le cose stanno in maniera diversa, perché – a suo parere – un giudizio diviene possibile solo se un certo ambito categoriale si è aperto, rendendosi manifesto.
Possiamo chiarire questo aspetto chiedendoci: la legge di gravitazione poteva essere enunciata nel 1223? Poteva, in quel contesto, avere una validità, cioè pretendere di essere vera? Per Lotze e Frege, come anche per l’Husserl delle Ricerche logiche, questa legge è vera indipendentemente dal fatto che noi la conosciamo o meno. Già in questo scritto del 1916 Heidegger si orienta invece verso una concezione olistica del significato e delle categorie che si distanzia da ogni forma di realismo.
Per Heidegger, una categoria non è data isolatamente, né lo sono i significati. Hegel aveva richiamato l’attenzione sul carattere mediato di ogni significato, sull’importanza del contesto all’interno del quale qualcosa può emergere. Ed è proprio questa impostazione che, nelle conclusioni, Heidegger esplicita come l’asse portante del suo lavoro. A una prospettiva secondo la quale le categorie possono essere isolate e analizzate una dopo l’altra egli obietta che
«esse si condizionano a vicenda e che ciò che apparentemente risulta immediato e non mediato [Unmittelbare und Unvermittelte] è in realtà qualcosa di mediato [ein Vermitteltes]; e ciò che in seguito viene fissato come elemento individuale acquista il suo senso pieno solo nella totalità» (DCS, 244).
Un significato può emergere solo all’interno di una totalità di significati. Per esempio, per tornare a qualcosa cui abbiamo già accennato, la legge di gravitazione non può emergere nel 1223, né in quell’anno può emergere la nozione di massa, con il senso che essa ha in quella teoria. E ciò significa che, in quel contesto, un soggetto non avrebbe potuto comprenderli. Per potere avanzare una pretesa di verità un’asserzione deve poter essere compresa.
Ma la comprensione non ci riconduce nell’alveo della soggettività psicologica. Proprio al contrario, essa implica – già in quest’opera del 1916 – una messa in discussione del soggetto gnoseologico come si è andato costituendo nel corso della modernità. Infatti, se dobbiamo chiarire perché la nozione di massa non poteva emergere nel 1223, dobbiamo richiamarci a un contesto di significati transsoggettivi, all’apertura di un modo di pensare, ed è per questo che «il soggetto nel senso della teoria della conoscenza non spiega il significato metafisicamente più importante dello spirito, tanto meno il suo pieno contenuto» (DCS, 251).
Anche se noi mettiamo a nudo le più intime strutture della soggettività gnoseologica, non riusciamo a dare ragione del perché la nozione di massa era in linea di principio incomprensibile nel 1223. A questa problematica riusciamo invece a dare una risposta soddisfacente se prendiamo in considerazione lo spirito di un’epoca, la totalità di significati di una costellazione storica, all’interno della quale i singoli soggetti vivono. Certi significati possono essere compresi e determinati giudizi possono essere formulati solo perché un soggetto è parte di una vita o di uno spirito vivente.
In altri termini: non dobbiamo partire da un soggetto psichico, per esempio dal funzionamento della mente, per poi chiederci come questo soggetto possa afferrare dei significati. Dobbiamo, invece, interrogarci su ciò che produce una certa comprensione e un determinato ordine di significati. Pertanto, Heidegger scrive che «non è possibile vedere nella sua vera luce la logica e i suoi problemi in genere, se il contesto, a partire dal quale essa viene interpretata, non diviene un contesto translogico» (DCS, 249).
La fondazione della logica e del pensiero sta dunque altrove: nella vita. Bisogna pertanto prendere in considerazione lo spirito di un’epoca, all’interno del quale un ambito categoriale può essere compreso, e tornare all’apertura storico-epocale all’interno della quale i significati valgono e i soggetti possono comprenderli. Ciò, secondo Heidegger, emerge appunto se «si prende sul serio la “tesi d’immanenza” – da intendersi non, poniamo, “individualisticamente” – la cui ultima fondazione, necessaria ed eseguibile solo metafisicamente, a mio vedere, è da realizzare sulla base del già indicato concetto dello spirito vivente» (DCS, 250).
Heidegger interpreta dunque la soggettività conoscitiva semplicemente come espressione particolare dello spirito di un’epoca, per cui la problematica logica e gnoseologica incontra la storia. Lo spirito vivente rappresenta la condizione di manifestatività degli enti, per cui bisogna partire dall’idea secondo cui vi è una «formazione storica dei concetti» (DCS, 246). È chiaro, infatti, che è l’idea di una ragione e di una soggettività astorica a essere in questo modo messa in discussione, dato che «lo spirito vivente è, come tale, essenzialmente spirito storico nel senso più ampio del termine» (DCS, 251).
3. Per la determinazione della filosofia (1919)
Questi aspetti, emersi nelle conclusioni del libro su Scoto, verranno sviluppati da Heidegger nelle lezioni del periodo friburghese (1919-1922), nelle quali egli avvia un confronto serrato con il neokantismo di Windelband, Rickert e Natorp. Il problema può essere illustrato in breve attraverso una discussione della questione degli assiomi, che del resto rappresenta la strada imboccata da Heidegger.
Ogni ambito conoscitivo si muove, infatti, all’interno di certi concetti, principi e assiomi ultimi, i quali determinano il campo di ricerca, rappresentando dunque l’origine e il fondamento delle relative conoscenze. La filosofia – in quanto scienza originaria del fondamento – dovrebbe occuparsi, nella misura in cui tende alla fondazione della ragione (teoretic...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Citazione
  5. I. Biografia
  6. II. Analisi delle opere
  7. III. Categorie chiave del pensatore
  8. IV. Storia della ricezione
  9. Bibliografia
  10. Indice dei nomi
  11. Sommario