La missione di educare
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La riflessione sull'educazione negli scritti di Giovanni Battista Montini: gli anni dell'attività come assistente della FUCI, l'episcopato milanese, il pontificato di Paolo VI. I temi sono quelli dello studio e dell'insegnamento, della formazione cristiana dei giovani, dell'evangelizzazione intesa come educazione alla fede. «La gioventù avrebbe bisogno di sperare nella giustizia; forse ha un senso eccessivo dell'ingiustizia che ancora è diffusa nel mondo; noi non dobbiamo deludere la sua speranza che l'ingiustizia possa essere se non debellata, almeno gradualmente rimossa. La gioventù ha forse un eccessivo desiderio di dinamismo: non dobbiamo così frenare questo dinamismo da togliergli la spinta verso una perfezione maggiore di quella presente».

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Informazioni

Editore
La Scuola
Anno
2014
ISBN
9788835040026
Giovanni Battista Montini
Scritti
Parte prima
Lo studio e la coscienza credente
L’ispirazione e la regola*
Proposito nostro: concordare e fondere in un giovanile programma di vita l’Ispirazione e la Regola.
Che le cose vive e belle così nascano e così siano, è saputo da tutti: la musica, la poesia, l’arte, l’eroismo, la santità. Che la ragione ce lo possa anche dimostrare e magari anche documentare con intere squadre di citazioni, di riferimenti, di raffronti, nessuno, credo, lo metterà in dubbio.
Ma non tutti forse hanno pensato che questa fusione è stata contraddetta, e lo è tuttora, dall’indirizzo che presiede agli studi, così detti, superiori, i quali, perché tali, dovrebbero esser liberi di modellare la loro ricerca del vero non già secondo esigenze peculiari di menti immature, dove il fantasma, dove la memoria, l’autorità, il manuale tengono i primi posti, ma secondo le uniche e supreme esigenze della professione – la vita reale – e le uniche e supreme esigenze dell’intelligenza. Contradetta perché, osservando l’andamento del pensiero contemporaneo nel suo complesso e nelle sue forme più significative, si vede che ora l’uno, ora l’altro dei termini del binomio – Ispirazione e Regola – è stato separatamente considerato, sviluppato, esaltato; e naturalmente a danno dell’altro. Ieri era la Regola contro l’Ispirazione. Oggi è l’Ispirazione contro la Regola. E il male è questo che la convergenza dell’attività intellettuale verso l’una o l’altra forma di studio, è avvenuta con le più seducenti affermazioni di risolvere, e potremmo dire quindi, di riassumere, di unificare le questioni inerenti alla disciplina del pensiero. Un bisogno di unità ha suggerito la semplificazione della soluzione. Per unificare, sopprimere.
Questa apparente unità è la ragione per cui la disciplina di studio introdotta dal positivismo, e la libertà di creare pensando proclamata dall’idealismo sono, dal loro punto di vista, così seducenti. Perché sembrano organiche, sintetiche, comprensive. Sembrano dare la «Summa» di cui, dal Medio Evo in poi, il pensiero europeo è perennemente avido. Perché hanno un nucleo di verità e perché soddisfano realmente certe tendenze della nostra intelligenza.
Prendete la Regola. Il metodo. La prudenza e la pazienza applicate allo studio. Vi è in questo modo di studio l’intenzione di usufruire della scienza a favore della scienza stessa: ogni scienza avrà un’altra scienza particolare a fianco, che le fa da ancella e da segretaria; la scienza del metodo proprio; la iniziazione; l’abilità di usare di dati secondo la loro particolare natura; la ricerca, la classifica, la disposizione dei materiali; l’indagine prima del giudizio; l’induzione prima della deduzione; l’esperimento prima della conclusione; le fonti, l’analisi filologica, i precedenti storici, le bibliografie, gli schedari; l’orario di studio, l’igiene del pensiero, l’arte di scrivere, di produrre, di pubblicare. La scienza, la verità, la scoperta, la cattedra, il libro, la celebrità non sarebbero effetti che di un’accettazione coraggiosa della Regola. Basta servirla per dominare il campo del sapere. Datemi uno sgobbone e vi darò uno scienziato. La scienza diviene una conquista di pochi, di coraggiosi, di consacrati. La scienza si ritira nei monasteri dei consacrati: le scuole. Il suo venerabile volto è avvolto da un velo di mistero: solo i bonzi che custodiscono i suoi templi, e i suoi codici possono contemplarne le forme divine. E il lavoro ferve, come in un’officina, come in una miniera. La produzione cresce e si organizza: studi e volumi, problemi e scoperte, teorie e fatti escono dalle laboriose soglie degli atenei. La civiltà nuova cresce e ingigantisce da che ha messo radici nella scienza, scientificamente studiata. È il trionfo della Regola.
Ma è superfluo dimostrare come l’unica creatura a non godere perfettamente di tale trionfo fu lo spirito umano. Egli ebbe, a certi momenti, la sensazione non già di guidare il carro vincitore ma di esservi legato, servilmente. Perché quando la Regola dominò da sola, lo spirito s’inaridì e si afflosciò. Ed è chiaro come. La Regola voleva essere semplificazione, incontro rapido e sicuro dell’universale e del necessario, adatta a tutti i casi e propizia a tutte le menti, e tanto si gonfiò de’ meriti suoi che fu dovunque e fu tutto. Divenne complicazione. Divenne difficoltà, preziosità, meccanismo. Doveva facilitare il movimento della mente, utilizzare a suo vantaggio l’esperienza precedente, e cominciò a inceppare le prime e fresche movenze con l’imitazione, poi le serrò con la tecnica; infine le paralizzò con l’uniformità standardizzata, commerciale, banale, esteriore dei suoi scopi scientifici. La sua meta era questa: sopprimere il valore personale dello studio.
Con enormi conseguenze. Conseguenze psicologiche nel prevalere del mondo esteriore sull’interiore, della formula didattica sulla comprensione vitale, della imitazione sulla originalità. Conseguenze spirituali nello spostamento del giudizio sul valore delle cose: l’inezia filologica o la curiosità scientifica o l’esattezza burocratica d’un gabinetto sostituirono nello scienziato le finalità supreme del vivere, e divennero idoli, e divennero tenebre. Perché ciò che era grande veramente ed essenziale, vale a dire morale, sfuggì alla ricerca e fu dimenticato. Parola di Cristo: Vedi che il lume che è in te non divenga tenebra! (cfr. Mt 6, 23; Lc 11, 35) Per tacere delle altre conseguenze: filosofiche: la mania del sistema fu preoccupazione soverchiante la positiva ricerca del vero; e politiche; sì, anche politiche: il criterio prussiano, per esempio, dello stato militarista spense le antiche, paesane, libere e affettuose poesie di quel grande sentimentale che è il popolo tedesco, e che ora di nuovo affiorano alle labbra di esso, come espressioni dimenticate e pure del suo genio nazionale.
Quale meraviglia allora se, sotto il giogo dei filistei di tutte le categorie, l’Oriente, e con esso il Vangelo, potè raccontare ai progrediti occidentali le sue parole semplicissime e profondissime? L’Oriente venne di moda non solo per la ricerca esotica del nuovo, ma per la conoscenza intima ch’esso ha della vita e per l’originalità fine ed intuitiva che ispira la sua sapienza. La Regola, in fondo, parve un surrogato esteriore dell’ordine interiore che ciascuno deve creare da sé e per sé. La Regola era complice della pedanteria e della pigrizia, della prosa e del particolarismo. Era una sopravvivenza convenzionale e provvisoria d’una intuizione, a torto generalizzata, a torto resa marmorea nella formula d’una legge.
E con la critica della scienza positivista, prevalse l’Ispirazione. L’intuizione, l’idea. L’attività personale dello studioso; il soggetto sopra l’oggetto, lo sforzo individuale di formazione della verità; l’idealismo, pieno di afflato romantico e di audacia critica, capace di riportare sul carro vincitore della coltura moderna, enciclopedica, inebetita di erudizione, e pesante di armature metodiche, lo spirito. E con lui l’estro, il genio, la spontaneità, la lirica, la libertà, agile e pronta, come l’antica Minerva. Ci fu chi disse di chiuder le scuole: non si studia che da soli. Ci fu chi giunse a dire di chiudere anche i libri e di licenziare i maestri: non si studia che se stessi.
Noi viviamo tuttora nell’ebbrezza di tale Ispirazione, ed è superfluo indugiarsi a descriverla. Ma noi affermiamo risolutamente che da sola non basta, e che da sola finisce per elidere se stessa. Anche considerato come puro criterio di studio l’idealismo è insufficiente. Perché è unilaterale. Non unitario. Perché esonerando l’alunno dalla Regola (se è coerente deve arrivare a questo) diventa pur esso un fattore di indolenza e di ignoranza: i fanciulli che non vogliono studiar la grammatica e gli studenti che si annoiano ad analizzar documenti, non hanno che da appellarsi alla libertà creativa che loro conferisce l’indirizzo attuale del sapere. E il sapere, privo di finalità estrinseche e sottratto alle censure della vecchia logica e alle pretese della superata causalità, non diventa altro che un raffinato e artificioso godimento intellettuale, il più accademico e declamatorio che sia mai stato, superlativamente vacuo, e in fondo, a detta di idealisti stessi, miseramente triste. La tristezza dell’inutilità e della follia che talora sorprende anche gli allucinati dell’autocoscienza. L’essere è sfuggito! La realtà non è stata carpita! L’ombra mobile da essa proiettata nel pensiero è vuota e impalpabile!
Prima di attendere che la nostra scuola e la nostra generazione giunga a quest’amara constatazione, noi cercheremo di tener altra via; quella dei nostri vecchi, che partendo dalla definizione della verità, come corrispondenza della mente e della cosa ponevano la direzione giusta per il cammino dello studioso, che non deve trascurare nessuno dei due elementi: «mente», cioè contributo soggettivo e personale nello studio, e «cosa», cioè dato estrinseco che determina, misura la nostra osservazione.
Cercheremo insomma di unire l’Ispirazione e la Regola. L’unione di questi due fattori ci sembra il segreto del fascino esercitato dai più distinti nostri educatori: per esempio, che altro significa il bellissimo libro del Sertillanges su «la vita intellettuale»1?
Cercheremo di essere nello studio continuamente attivi e sempre avidi di dare alle cose un nome nostro, che per noi dica qualche cosa, che per noi le rinnovi e le fecondi. Cercheremo che il nostro fenomeno intellettivo non sia mai scompagnato da un altro fenomeno volitivo. Questo significa aver compreso e vivere la propria ispirazione universitaria: essere con tutta l’anima presenti davanti alla verità. Con tutta l’anima che non teme l’ardua conquista della verità; che non teme la strada faticosa, «il lungo studio ed il grande amore»2, e che è docile alle esigenze della scienza, ma che si conserva, appunto perché docile, pia e geniale, coraggiosa ed inesausta.
Bisognerà che noi insistiamo su queste esigenze. Sono esse che vogliono la Regola, che vogliono un metodo, che vogliono un’attesa. Gli ignoranti sono dei frettolosi. E l’indirizzo attuale di studio magnifica i frettolosi: guardiamoci da quel che ne può seguire. Siamo pazienti; sui libri; attorno ai maestri; nelle biblioteche; nei gabinetti scientifici. In patientia vestra possidebitis animas vestras (Lc 21, 19). La verità non è folgorazione d’un lampo; è progressivo, graduale, quasi inavvertito albeggiare di luce. Capire vuol dire digerire, assimilare, rivivere. Essere studenti cattolici, cioè araldi di tutta la Verità, non vuol dire essere studenti pigri o improvvisatori, giocolieri di esami tentati con sfacciata superficialità.
Vuol dire, e ciò meriterebbe lunga meditazione, avere un «senso metafisico», cioè una disposizione instancabile a trovare l’Essere, a venerarlo con amore, a studiarlo con stupore, a contemplarlo con gioia, a riconoscerne i limiti, ad avvertirne le forme, ad ossequiarne i diritti, a rintracciarne la Sorgente suprema.
Vuol dire, e ciò meriterebbe ancor più lunga meditazione, che v’è nel mondo naturale una Regola e una Ispirazione divina che rintracciare e seguire significa esser uomini; e nel mondo soprannaturale nuova Regola e nuova Ispirazione che riconoscere ed adorare significa essere al vertice della potenza e della libertà, in un mondo nuovo e pratico di studio e di intuizione, di sforzo e di facilità, di umiltà e di sapienza, e sempre d’unità, di luce, d’amore: Regola e Ispirazione una cosa sola, che vien dagli abissi della Divinità e vivifica gli abissi dell’Umanità.
Meditazione sullo studio*
Quando ero fanciullo, da fanciullo pensavo: credevo che lo studio fosse una faticosa e vana escursione dello spirito fuori della sua casa consueta; e gli elementi delle cose visibili, delle umili cose, di cui l’occhio, la mano, il corpo hanno bisogno e soddisfazione, erano la sua dimora. Credevo lo studio una perifrasi arbitraria, che poi dovesse ripiegarsi stanca sui modesti principii della vita ordinaria, donde era partita; un artificio; una fatica.
Poi ho creduto che lo studio fosse la conquista d’una casa più grande per 1’anima, e che solo in questa casa luminosa della scienza potesse riposare regina. Difatti era orgogliosa, e credeva di passeggiare dovunque nella luce, e che il regno della luce fosse quello percorso dai suoi occhi studiosi; dai suoi libri da studiare.
Poi ancora m’hanno parlato dello studio come d’una prodigiosa officina spirituale dove tutto insieme si crea: l’occhio che osserva, la luce che rischiara, la cosa che si vede: inconcepibile atto spontaneo, in cui tutto è gratuito, e tutto è mio: questo «mio» mi tentava a sempre studiare: quel «gratuito» a nulla studiare.
Ora il maestro è il Verbo di Dio: in molti modi Egli fu linguaggio per noi: perché ogni cosa ch’esce dal seno di Dio esce per il Verbo: è suono del Verbo. Ogni cosa, una parola di Dio. Questo è l’incantesimo dell’universo. L’alfabeto di Dio è l’ordine, è la bellezza, è la precisione, è la finalità. È l’essere. Sono il lettore del libro scritto dal Verbo Creatore: Egli altro non vi ha scritto che un Nome. Ogni iniziale intelligibilità reclama l’estrema Verità! Il Nome cui non è lecito pronunciare invano: cioè senza che sia colloquio di amore e di preghiera. Dio. Dio mio!
Quando l’accento di questo grido si diffuse nell’ anima, un’eco misteriosa sembrò suscitarsi: Colui che avevo invocato non più fuori, ma dentro rispondeva e parlava. Gioia del pensiero puro, che in ogni esigenza logica, che in ogni forza morale, che in ogni sentimento retto ritrova l’interiore presenza di Lui. Luce, Consiglio, Principio; che non tace mai! Gioia del pensiero pio, che esprime e comprende, in un solo accento, la vita, e sa che Lui è la Vita. Sorgente, Gaudio, Corona!
Poi come fu, non so: ma io Lo imparai a conoscere: forse perché Lui prima conobbe me. Lo conobbi nello specchio visibile della carne; non imagine sola, ma carne vera, e carne sua. Sanctus est nobis in Filio. Gesù. Conobbi l’eco della sua parola, il Vangelo; la storia e la vita che ancora fluisce da Lui, la Chiesa; ed anche, tante volte inconscia, l’intima voce dell’Ispirazione inabitante, la Grazia.
E solo a questo punto ogni cristiano comprende che cosa sia lo studio: io ho trovato; io troverò.
Ricordo Pascal: non cercheresti se già non avessi trovato1. Studio è l’ulteriore ricerca. È lo sviluppo conoscitivo. Una forza, una volontà, un amore: sviluppo. Un’attenzione, una contemplazione, un ragionamento: conoscenza.
Ma dove in ogni studio, che dalla scintilla cristiana non sia acceso, tutto lo sforzo e la conquista prende le misure dello spirito, le vicende ne segue, e con lui s’addormenta e poi si spegne; nello studio cristiano avviene l’introduzione nell’anima d’una forza e d’una conoscenza nuove e viventi; d’un alimento immortale. Lo studio umano modifica, quello cristiano edifica la vita interiore. Quello la mia natura non muta: questo apre la via all’infusione della Natura divina. Questo nuovo straordinario studio vitale, che prepara il contatto vivificante e ultraintenzionale, è la Fede: possesso iniziale e quasi enigmatico di Dio; umile e provvisoria forma prodotta secondo l’imagine di Cristo nel mio spirito, che Dio riempirà di Sé, e sarà Dio in me.
Dio crescente in me studiante: gli anziani della nostra schiera ricorderanno il discorso di Papa Benedetto, nel 1919, dopo Montecassino, a commento dell’ orazione della XIII domenica dopo Pentecoste: da fidei augmentum; non aumento nell’Oggetto; ma nel soggetto cui l’esercizio della fede dilata ed accresce.
Ma chi in questo secolo non ha parlato male della teologia? Forse maldestri cultori l’avevan fatta privilegio di iniziati a reconditi formulari. Era ed è esercizio di fede: traduzione mentale, riproduzione premurosa e personale di fede; preghiera pensante.
Allora qui, dove allo Studio la massima fiducia è conferita per il massimo acquisto, non sia ormai ingrato sostare e cercare: beati quelli che hanno fame e beati quelli che crederanno. Cioè quelli che cercheranno e aderiranno alla prima Verità; a quella che comunica sostanzialmente la Vita. Cercare non basta, bisogna aderire; aderire non basta, bisogna cercare: chi cerca e non aderisce, rifiuta l’ingresso d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Sommario
  5. Premessa
  6. Introduzione (A. Maffeis)
  7. Bibliografia
  8. Scritti di Giovanni Battista Montini