L'arte di educare
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L'arte di educare

Pavel A. Florenskij

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L'arte di educare

Pavel A. Florenskij

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Definito dai suoi contemporanei il "Leonardo da Vinci della Russia", Pavel Aleksandrovic? Florenskij è uno dei pensatori più geniali e poliedrici del XX secolo: filosofo della scienza, fisico, matematico, ingegnere elettrotecnico, epistemologo, ma anche filosofo della religione e teologo, teorico dell'arte e di filosofia del linguaggio, studioso di estetica, di simbologia e semiotica. Presbitero nella Chiesa ortodossa russa e padre di cinque figli, riesce a conciliare un'intensa attività di ricerca scientifica e di insegnamento con le diverse esigenze familiari e pastorali. Con l'accusa di attività controrivoluzionaria, viene fucilato nel 1937, dopo cinque anni di gulag. Questa raccolta presenta le dimensioni del pensiero educativo di Florenskij: mistero, cultura, bellezza, persuasione e perfezione, amicizia. Nuclei originari e vitali che nascono da una rivisitazione del mondo simbolico dell'infanzia e dall'esplorazione delle potenzialità del mondo interiore del bambino.

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Informazioni

Editore
La Scuola
Anno
2015
ISBN
9788835042495

Pavel A. Florenskij

L’arte di educare

L’infanzia e il mistero

Un giorno che ero in sala da pranzo – era ancora chiaro – ebbi nostalgia della zia Julja o della mamma, che per un qualche motivo non erano ancora venute dalla dépendance, e volli correre da loro. Ricordo quel che accadde come fosse ieri. Aprii la porta e, scesi un paio di scalini, mi ritrovai sotto la tettoia scura della casa. Ricordo che poggiava su dei pali di legno grezzo scortecciati e ingrigiti dalla pioggia… Probabilmente era verso sera, o forse non c’era il sole: mi è rimasta una sensazione come di crepuscolo. Fu allora che, sul marciapiede di pietra coi ciuffi d’erba, erba d’autunno forse – ce l’ho davanti agli occhi come fosse ieri, quel marciapiede – vidi qualcosa. O meglio, qualcosa sentii: uno strano suono che non avevo mai udito prima. E mi spaventai. Ma la curiosità e l’audacia ebbero la meglio. Decisi di farmi più vicino e di raggiungere la meta. Correvo avanti con gli occhi strizzati, poi, di colpo, mi immobilizzai. Di fronte a me c’era un aggeggio mai visto. Al suo interno c’era qualcosa che girava velocemente, che fischiava, strideva e sprizzava faville vivide da una ruota. E, quel che è peggio, accanto all’aggeggio c’era un uomo, una sagoma scura contro il cielo della sera, imperturbabile, impavido e intrepido, che imbracciava qualcosa
Io me ne stavo lì, come incantato dallo sguardo di quel mostro. Di fronte a me si schiudevano i misteri tremendi della natura. Davanti agli occhi avevo ciò che a un mortale non era dato di vedere. La ruota di Ezechiele?1 I vortici di fuoco di Anassimandro? L’eterno ruotare, il fuoco noumenale… Ero impietrito, terrorizzato, preso da una curiosità tra l’audace e l’impertinente, conscio che non avrei dovuto né vedere né sentire quel che, invece, stavo vedendo e sentendo. Ma davanti a me si schiudeva la viva realtà delle forze misteriose della natura, l’Urgrund di Böhme2, le madri di Goethe3. E colui che stava accanto a quell’aggeggio che sprizzava faville, quella sagoma scura, non era certo un uomo, né un qualsivoglia essere terreno; era lo spirito della terra, un essere gigantesco, se paragonato a me. Probabilmente non mi aveva neanche notato…
Non so quanto durarono la scoperta e lo stupore. Forse un secondo, forse più d’uno; molto poco, questo è certo. E non appena quell’attimo inebriante e terribile di fusione con una manifestazione infuocata della natura passò, non appena tornai in me, fui subito preso dal panico. Un dettaglio tipico: l’autocontrollo che non mi ha mai tradito in momenti di terrore estremo si fece vivo anche allora, in quello che è stato il primo dei misteriosi sconvolgimenti dell’anima che io ricordi4. Non mi persi d’animo. D’un balzo mi ritrovai nella sala da pranzo da cui ero scappato, e solo lì, come mi è capitato anche in seguito in occasioni analoghe, ormai in un asilo sicuro, sulle ginocchia di uno dei grandi, diedi sfogo al terrore che mi aveva preso. Ebbi una sorta di attacco di nervi. Mi fecero bere dell’acqua e zucchero, mi tranquillizzarono. «È solo l’arrotino che arrota i coltelli, Pavlik5» mi dicevano gli adulti. «Andiamo da lui, vuoi?». Io non sentivo ragioni, ma nemmeno discutevo con i grandi. Sapevo che non potevano capire il mistero che mi si era svelato e che tanto mi aveva impaurito. Mi proposero di accompagnarmi attraverso il cortile. Ma non accondiscesi. Difficile dire se fosse solo per lo spavento di fronte a quel flusso di faville noumenali o per un altro timore: quello di non riprovare quel che avevo appena provato e di vedere, invece, ciò di cui mi parlavano gli adulti: qualcosa di consueto che, di fatto, non incuteva alcuna soggezione… Per molto tempo, però, ebbi paura di attraversare il cortile da solo.
La sensazione della rivelazione dei misteri della natura e dello spavento a essa correlato, dell’Abisso di Tjutčev6 e del sentirvisi attirati era ed è, ritengo, una delle pieghe più recondite della mia spiritualità.
Guardando più attentamente dentro me stesso, trovo ancora qualcosa che ho appreso da quel nostro vivere in due appartamenti collegati da un cortile. Ed è la convinzione ferma, organica, nell’“essere” mistico contrapposto all’empirico “apparire” […].
In relazione al caso con l’arrotino, però, spuntò anche un’altra convinzione non meno definita, e cioè che per esperire tale misteriosa unità bisognasse addentrarsi nella zona irta di paure in cui hanno luogo i misteri della natura, in cui sei attirato da una curiosità irresistibile, ma dove sono in agguato gli spaventi inumani che tale zona misteriosa sorvegliano. L’occhio umano non è ammesso a osservare i misteri della natura, sebbene essi gli svelino il mondo da un’altra angolazione, quella della loro unità interiore. Tale unità, però, può rivelarsi anche in modo non immediato, tramite una percezione più acuta; non solo con l’esperienza diretta, dunque, e ciò basti. Questo fu quel che apprese la mia anima da quanto accaduto; non così chiaramente, è ovvio, ma certo in modo indubbio. Una lezione che mi rimase per tutta la vita, sebbene, per la mia irresistibile voglia di ricerca, non sempre obbedii al comandamento della non-conoscenza.
[P.A. Florenskij, Ai miei figli. Memorie di giorni passati, a cura di N. Valentini e L. Žák, tr. it. di C. Zonghetti, Mondadori, Milano 2003; ora negli “Oscar” Mondadori, Milano 2013, pp. 63-66]
Mi pareva tutto misterioso ed enigmatico. Ma non ne feci parola con gli adulti, è ovvio. Non solo perché i bambini non rivelano mai agli adulti le proprie percezioni più profonde, ma ancor più perché le mie percezioni mi parevano tanto naturali, comuni a tutti, usuali, che non valeva certo la pena di parlarne. Per non dire della difficoltà di trovare, allora, le parole per esprimere sentimenti e pensieri che prendevano tutto l’ambito della vita interiore e che perciò, pur con la loro marcata specificità e forza, erano indistinti, impercettibili, inesprimibili. Da bambino il senso del mistero era in me dominante, era lo sfondo della mia vita interiore contro il quale si stagliavano la tenerezza e l’affetto per i genitori. Tutto quel che mi circondava, quel che solitamente non pare e non viene riconosciuto essere misterioso, oggetti e fenomeni abituali e quotidiani, avevano per me una certa qual profondità di ombre, una sorta di quarta dimensione7, e mi si presentavano immersi nelle tenebre profetiche di un quadro di Rembrandt […].
Non di rado ad attirare la mia attenzione in forza di certe particolari circostanze era qualcosa di apparentemente usuale e semplice, banale nel suo essere frequente. Di colpo, però, si scopriva che la tal cosa non era affatto semplice. In quel fenomeno semplice e usuale per la mente affiorava qualcosa che svelava dell’altro, qualcosa di noumenale, che di quel mondo stava più in alto o, per meglio dire, più nel profondo. Suppongo che si tratti della stessa sensazione e percezione creata da un feticcio: una pietra, una tegola, una scheggia di legno come tante che si rivelano essere tutt’altro che banali e aprono finestre verso un altro mondo. Da piccolo mi è capitato diverse volte. Ma mentre alcuni fenomeni attiravano la mia anima senza mai darle modo di saziarsi, altri, al contrario, aprivano un varco in quelle profondità misteriose solo di rado, occasionalmente, se non un’unica volta. Come le faville.
[Ai miei figli, cit., pp. 74-75]
Era attraverso il mare che da piccolo mi imbevevo dei toni prossimi al verde, azzurrognoli, giallastri. Gli anni della mia infanzia e della mia adolescenza li ho trascorsi in una continua, insaziabile e mai paga contemplazione del mare […].
Scavavamo nella ghiaia bassa, lambita dall’acqua, in cerca di pietre colorate e trasparenti: calcedoni opalescenti d’azzurro e viola che rilucevano di misteriosi riflessi interni per tutta la loro massa, quasi fossero ricolmi di luce. Agate a nastro, corniole a strati sottili di arancio e rosso venate di bianco, più di rado ametiste, quarziti gialle e verdi, topazi trasparenti come le caramelle che portavamo con noi, e molto altro ancora: era raro che tornassimo a casa senza un bel bottino. Quelle pietre somigliavano alle perle – irregolari perché fatte a mano – sparpagliatesi da una collana sottomarina; nella mia mente erano imparentate con le perle veneziane che mio padre ci aveva comperato nella bottega sul molo, e vi trapassavano senza sosta. Le misteriose stratificazioni di corniole e agate, la loro sottilissima struttura stratificata pungolavano la mente; vi percepivo un qualche recondito significato della natura che, così mi pareva, mi si sarebbe rivelato chiarendo il mistero […].
Percepivo la realtà vischiosa del passato e crescevo con la sensazione che, in effetti, stavo toccando qualcosa che era accaduta molti secoli prima, e che in essa entravo con la mia anima. La storia che davvero mi interessava – l’Egitto, la Grecia – non era separata da me tramite il tempo, ma da una sorta di parete attraverso la quale, però, sentivo con tutto me stesso che essa era lì con me anche in quel momento. Le pietre stratificate erano una dimostrazione diretta dell’eternità del passato: eccoli, gli strati del tempo, addormentati uno sull’altro, stretti stretti in una quiete muta. Ma bastava che mi concentrassi e avrebbero parlato con me, ne ero sicuro, e avrebbero ripreso a scorrere al ritmo del tempo, a rumoreggiare come la risacca dei secoli. In seguito, magari proprio per questo sentimento soave e fanciullesco nei confronti della stratificazione, mi appassionai alla geologia in generale e alle formazioni stratiformi in particolare; provavo un brivido di entusiasmo alla vista di stratificazioni geologiche ben delineate. Erano come un libro, d’altronde, e non era un libro anche il tempo sedimentato?
I sassolini di calcare ovali e lisci di cui ci riempivamo le tasche mi incuriosivano. Ogni tanto ci imbattevamo in sassi con un foro naturale: allora infilavamo quella strana pietra su un bastone e la ammiravamo, inchinandoci scaramanticamente a essa. Quell’apertura misteriosa dagli orli liscissimi, leccati quasi, allettava lo spirito e lo catturava. Quei fori parevano le misteriose dimore dell’Ignoto e rimandavano alle caverne, ai sotterranei, alle cantine e ai solai bui, alle fosse, ai tunnel e ai lunghi corridoi che tanto amavo; in essi intuivo le forze delle tenebre originarie in cui era nato ogni essere, e quel che desideravo era penetrarvi e stabilirmici in eterno. E mentre altri spazi vuoti erano troppo pericolosi per consentire che a essi ci si avvicinasse impunemente, quei fori nelle pietre, chiari chiari, puliti puliti, lisci lisci, scaldati dal sole, erano decisamente abbordabili. E io ci infilavo un dito e li osservavo migliaia di volte, sempre con lo stesso senso di mistero che non poteva essere dissipato né dalla loro accessibilità, né dalle spiegazioni di mio padre o della zia […].
Il mare viveva la sua vita sotto i nostri occhi, cambiando colore di ora in ora, coprendosi di increspature o aggrottandosi, o, al contrario, placandosi languido, pigro, diguazzando appena contro la riva. Altrove le nostre scoperte non sarebbero valse nulla, ma lì, sulla riva del mare, erano qualcosa di particolare. Verde-blu in lontananza e verde-giallo più vicino, i colori del mare – che davano senso e bellezza a tutto quanto – attiravano la mia anima, e tutto il mio io ne fu affascinato sin dalle prime impressioni dell’infanzia. I doni del mare erano come un archetto che passava sull’anima suscitando un senso di trepidazione; o piuttosto era un suono che si staccava dal petto, un presagio di meandri profondi, misteriosi e natii, notizia del grembo di crisoberillo e acquamarina dell’essere. Quelle profondità verdi e opprimenti pur nella loro familiarità erano la soluzione enigmatica alle tenebre delle caverne, alle tenebre visibili. E anche i pezzetti di legno levigati dal mare, lisci e caldi come calde e lisce erano le pietre, erano salati e mandavano un odore saturo di iodio, e tutti mi erano cari. Lo sapevo: quei bastoni, quei sassi, quelle alghe erano un’affettuosa notizia e un affettuoso regalo della mia penombra verde e materna. Io guardavo e ricordavo, annusavo e ricordavo, leccavo e di nuovo ricordavo, ricordavo qualcosa di lontano e di sempre vicino, quanto di più agognato, essenziale e caro ci potesse essere.
Quell’odore di iodio che ti chiama e sempre ti chiamerà, come chiama e chiamerà sempre quel rumore di onde che vanno e vengono, che si fondono in un tutt’uno dall’infinita quantità di singoli rumori secchi e singoli suoni, di sussurri e sciabordii sibilanti e di colpi netti; un rumore infinitamente ricco nella sua monotona uniformità, sempre nuovo e sempre importante, che chiama e con il suo richiamo chiama ancora e ancora, sempre più forte, sempre più potente. È il rumore della risacca, tutto composto di linee verticali, spezzato come una cattedrale gotica, mai monotono, mai noioso, mai untuoso, mai umido anche se dall’umido nasce, senza suoni di petto o di gola; è il verde dell’acqua marina, che chiamava alle sue profondità, né dolce né vischioso, fluorescente e rischiarato da bagliori interni, da una luce anch’essa spezzata e anch’essa quanto mai lieve che lo percorre in tutto il suo essere; un verde sempre nuovo, sempre eloquente; tutto ciò, ciò che chiama e che ci è caro, si è fuso per sempre in un tutt’uno, nell’immagine della profondità misteriosa e creatrice, e da allora l’anima, e con essa il corpo, ha nostalgia di lui, lo cerca e non lo trova, senza scorgere l’incognito nemmeno in quel mare che vede di nuovo, anche se ora in modo diverso e più esteriore.
Quel mare, il mare beato della mia infanzia beata, non potrò più vederlo se non dentro di me. Se n’è andato dove se ne va il tempo, probabilmente, tra i noumeni. Ma un tempo quel noumeno io l’ho visto, l’ho annusato e ascoltato. E so, più di ogni altra cosa che appresi in seguito che, sebbene non sia più qui con me, quella mia conoscenza era più vera e più profonda che mai: ora se n’è andata, ma resta comunque dentro di me.
Singoli fenomeni, però, talvolta scuotono quella conoscenza sopita, ed essa torna ad affiorare e a far trepidare. E allora torno vagamente a vederlo, il mare della mia infanzia, nelle sostanze fluorescenti – soprattutto nella luminescenza color mela verde del tubo di Crookes –, o nell’odore delle alghe; annuso quel mare metafisico persino in una boccetta di tintura di iodio, e sento la sua risacca nei ritmi altalenanti delle fughe e dei preludi di Bach e nel rumore secco e sonoro della brace rivoltata. Ricordo le mie impressioni di bambino e non mi sbaglio: sulla riva del mare mi sentivo faccia a faccia con l’Eternità amata, solitaria, misteriosa e infinita dalla quale tutto scorre e alla quale tutto ritorna. L’Eternità mi chiamava, e io ero con lei […].
Io amavo il mare per il suo mistero; il mistero del colore che ne riempiva la massa, il mistero dell’odore e del rumore che mi attiravano, il mistero dell’acqua amaro-salata che tanto somigliava alle lacrime, il mistero degli strani esseri che in esso abitavano. Tra di noi c’era un’affinità interiore. La sua abbondanza non mi opprimeva. Quel mondo oltre il mare e oltre ogni limite pareva quasi ultraterreno. Ma nel mare che avevo di fronte, lì sulla riva, tale facoltà procreatrice mancava e, anzi, la si sarebbe potuta dire, con Omero, “sterile”. Qualitativamente pieno, nel mare tale quantità non div...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Sommario
  5. Natalino Valentini
  6. Pavel Florenskij: L’arte di educare