Galvano entrò, abbassandosi un poco (ché l’ingresso era tutt’altro che maestoso), nel luogo che Parsifal gli aveva indicato, un suo riparo assai amato, non lontano dal luogo dove Artù, nella sua ricerca del cavaliere rosso, aveva trasferito la Tavola Rotonda.
Era questa una sorta di locanda, nel senso che ci si trovava da mangiare, bere e dormire, ma non aveva, della locanda, quella obbligata socialità, quell’occuparsi gli uni degli altri e il locandiere di tutti, che ancora oggi caratterizza questi luoghi, e allora forse di più.
Mandata avanti da un barbarossa sorridente ma così silenzioso da sembrar quasi muto, frequentata da misantropi della regione, pescatori e cacciatori avvezzi a lunghi appostamenti senza rumori né parole, da cavalieri che (come Parsifal) preferivano il crepitare del fuoco in fondo a un camino ai conversari sottili delle corti, era forse più simile a un convento senza preti né crocifissi, che a un’osteria. L’atmosfera che ci si respirava era quella, di calda intensità, di uomini che nelle pause del lavoro e della guerra silenziosamente meditavano sull’esistenza propria e altrui, scambiando qualche parola e rifocillandosi col vino, un po’ di formaggi e dei tuberi (simili e imparentati con le nostre patate, e così infatti le chiameremo), che facevano cuocere nel camino, manovrandoli con le sue pinze.
Il centro della locanda, il luogo più amato da quei solitari, era infatti un locale accanto alla cucina, completamente occupato da un grandissimo camino in pietra di forma semicircolare. Attorno ad esso si disponevano gli uomini, alcuni guardando il fuoco, altri parlando tra loro mettendo a cuocere sulle braci i tuberi rossicci.
Sulla panca di pietra attorno a quel camino, si disposero dunque i due recenti amici, il nobile Galvano, nipote di Artù e cugino di tanti altri re, tra i quali lo stesso Parsifal, ora pronto ad ascoltare la storia promessa da quell’uomo, che tutto pareva tranne che un chiacchierone. Intanto le patate cuocevano nella brace, per quando, tra poco, avrebbero avuto fame.
Galvano incominciò a parlare. «Non devi temere Cundrie» disse. «È una sibilla, in lei parla il sapere antico della terra madre. Non può accettare la prigionia delle donne e regine nel castello del mago nero Klingsor, e il tuo tenerti alla discrezione del cavaliere, che ti ha impedito di domandare e guarire il Re Pescatore, e tutta la terra. Ma non conosce la mia storia, che è allacciata e parte della tua, né come sia finita, or non è molto. Una storia di devozione dell’uomo alla donna e di suo cambiamento e liberazione, anche del femminile dentro di noi, di te. Non so neppure io com’è accaduto, che i lacci dell’amore mi prendessero così implacabilmente», diceva all’amico attento e già stupito. «Ne sono ancora tutto stordito». Parsifal ascoltava, attento.
Quell’uomo sicuro e sapiente, di solito cauto come un gatto, stordito e preso al laccio… Questa era una storia nuova, così come nuova era la languidezza dell’amico narratore, una sorta di abbandono che lasciava indietro, lontana, la sua felina regalità. «Stavo andando verso Logrois a cercare radici», riprese Galvano, «per curare un tale che avevo trovato ferito per strada, quando la vidi vicino a una fonte, la bella Orgeleuse. Non saprei dirti perché mi sembrò, e ancora oggi mi sembra, la più bella di tutte le donne, e quella senza la quale non avrei più potuto vivere. Ma credo che a conquistarmi fosse proprio la fierezza, quel suo dirmi subito che non aveva nessun bisogno di me, e che se avessi insistito nel mettermi al suo servizio non ne avrei avuto che guai».
L’immagine di Orgeleuse irruppe di colpo nella mente di Parsifal, facendosi strada, lucida di antipatia, tra i fumi della locanda. Anch’egli aveva incrociato la sua strada, ma non voleva parlarne a Galvano, non intendeva farlo soffrire. Una persona che voleva solo prendere, conquistare, possedere, un cattivo capitano assetato di avversari da umiliare: così gli era apparsa, con assoluta chiarezza, Orgeleuse. Galvano invece vi aveva visto dell’altro. Parsifal ascoltava, rigirando le patate nel camino, che non si bruciassero cuocendo sempre dalla stessa parte.
«Poiché insistevo nel mettermi al suo servizio», continuava Galvano, «mi ordinò, tanto per cominciare, di incamminarmi per portarle il suo cavallo, che pascolava nel giardino, sotto il castello di Logrois. Mi sentivo fiero come un ragazzo del primo servizio che le avrei reso. Ma uomini e donne, lì attorno al borgo, mi guardavano come un condannato, un pazzo che va verso morte sicura. E un vecchio dall’aspetto nobile mi chiese di lasciar perdere quella donna, terribile a suo dire, assicurandomi che troppi cavalieri s’erano già persi, per la sua crudeltà e il suo orgoglio.
Le riportai la cavalcatura: non volle però toccare le briglie, dove io le avevo prese. Accettò con malagrazia di accompagnarmi verso il cavaliere ferito che volevo curare, ma solo per farmi bersaglio di lazzi spietati, per avermi creduto un cavaliere mentre adesso mi rivelavo un erborista, un praticone, di quelli che girano per i mercati vendendo le loro specialità». Parsifal versò del vino in un bicchiere di vetro bruno, e lo porse all’amico, che lo prese trasognato, senza bere. Spregevole è chi deride l’altro per la sua condizione, non poté impedirsi di pensare Parsifal, a sentire gli scherni di Orgeleuse. Il nobile, invece, è pietoso, e la donna ha da accogliere, si disse ancora. Ma Galvano, occhio di gatto, aveva forse saputo fare altro, di quel disprezzo, di tanta mascolina durezza in un corpo di donna. Parsifal si rimise dunque in ascolto.
Galvano sospirò: «Il destino non mi aiutò a mettermi in buona luce: quando cominciai a curare lo sciagurato, che poco prima sembrava morente, lui agile balzò sul cavallo che avevo lasciato libero e fuggì via, gridandomi che mi restituiva così la cortesia che un tempo gli avevo fatta. Solo allora, riuscii a ricordare il nome, e la storia di quell’uomo, di quel suo volto molle, con quella stessa richiesta d’aiuto, ambigua oggi come allora. Aveva qualcosa di familiare, ma prima non sapevo in quale angolo della memoria andarlo a ripescare. Amava implorare, quel mascalzone, con bocca cadente e occhi impastati. E io avevo avuto pietà, tempo addietro e anche adesso.
Qualche anno prima, arrivato da Artù, si era tirato in giardino una donna, appena giunta alla Tavola Rotonda con un’ambasciata per il re. Tutti sentimmo le grida disperate di quella poveretta quando lui cercò di forzarla. Urlava terrorizzata, e anche sbalordita che proprio da Artù le si mancasse di rispetto. Fui io a pescarlo, mentre cercava di divertirsi in quel suo modo villano, con le vene della fronte e del collo gonfie da scoppiare, e inciampava nelle braghe correndo dietro all’ambasciatrice, che fuggiva piangendo tra i rovi.
Tutti decisero per la condanna a morte, ma, poiché era a me che si era arreso, riuscii a fargliela commutare in quindici giorni di vita coi cani del re, mangiando nello stesso loro trogolo e dormendo nel canile. Adesso che il destino ci aveva fatto nuovamente incontrare, il mascalzone mi ringraziava di avergli lasciato la vita prendendomi il cavallo e lasciandomi a piedi, tra le beffe della mia dama. La quale tuttavia, quando le raccontai della violenza alla fanciulla, chiamò con un corno un suo orribile servo a cui si rivolse in lingua pagana (seppi poi che era Malcreature, il fratello di Cundrie, la maga), e lo spedì al castello di Logrois con l’ordine di trovare e uccidere a ogni costo il mio beneficato, stupratore e ladro.
“Non lo faccio certo per vendicare il furto da voi subito, razza di papero”, mi spiegò poi con la sua abituale cortesia, “ma per quella donna, che quel tacchino piagnucoloso ha forzato al suo desiderio. Quanto a voi”, e si rivolgeva a me, “siete così sciocco e vanesio che nessuno vi punirà mai abbastanza”. Perché queste parole crudeli mi scendevano nel cuore come carezze, perché invece di andarmene la guardavo con gratitudine e avrei baciato persino gli zoccoli del suo cavallo, se me lo avesse domandato?» Galvano chiedeva ora, a Parsifal, e al fuoco.
L’amico ascoltava rigirando ben bene le patate, stupito, senza giudicare. Così strano è il cuore dell’uomo, e tortuosa la sua mente, che può capitargli qualsiasi cosa, e tutta la vita se ne va nel cercar di imparare cosa bisogna fare, di fronte a queste inesauribili bizzarrie del cuore che fanno a gara a metterti alla prova, e a farti sbagliare.
Questa almeno era l’esperienza di Parsifal. E dunque, anche se la duchessa non lo attirava di sicuro, riusciva a capire la testardaggine dell’amico, nel seguire la sua curiosa passione, e anche lo stupore di oggi, nel rivederne le strane manifestazioni.
Il fuoco danzando accendeva brandelli di luce sul volto degli uomini seduti accanto al camino, illuminando ora un occhio fisso nel vuoto, ora una smorfia di dolore, ora la forza quieta di un altro, che aveva faticato tutta la vita e tranquillamente sapeva che avrebbe continuato così, fino alla morte. Senza spiegazioni dal cielo, senza grazie da parte di nessuno. Tuttavia era proprio quella silenziosa fatica, questo piegarsi lentamente sotto lo sforzo, senza gemiti o recriminazioni (come un uomo doveva fare, e i più infatti facevano), fino al crollo finale, che dava a ognuno di quegli uomini questa tranquilla quiete, la sobria sicurezza di chi sa di aver fatto come meglio poteva.
«Per un bel pezzo continuò quella strana marcia», riprese a raccontare Galvano, «con me a piedi, che la guardavo, adorante, e lei che dall’alto del cavallo mi scherniva, mi gettava addosso i noccioli dei datteri e le bucce de...