I rifiuti sono quello che rimane quando non rimane nient’altro. Dopo che tutto è andato e tutti se ne sono andati. I rifiuti, più esattamente, sono quello che tutto può diventare dopo . Dopo che cosa? Quale persecuzione o catastrofe ha vaporizzato i corpi che abitavano i vestiti accumulati da Christian Boltanski in Personnes , la gigantesca installazione – allestita anche a Milano nel 2010 presso l’Hangar Bicocca – nella quale il braccio meccanico di una gru sposta in continuazione pantaloni e camicie sempre più simili a stracci? E perché i visitatori stessi sono invitati ad avvicinarsi alla montagna di tessuti, a prelevarne un brandello, a smantellare quell’assenza mediante la loro operosa presenza? Forse Franz Kafka aveva in mente una visione simile quando, nel romanzo incompiuto America , obbligava il “disperso” Karl Rossmann ad avanzare di notte, a tentoni nel buio, tra le stanze della cantante Brunelda, fino a imbattersi in «un gran mucchio di vestiti, coperte, tende, guanciali e tappeti pressati l’uno contro l’altro», «un vagone intero di roba» che ora serve da giaciglio ai carcerieri del ragazzo. Personne , in francese, significa “persona”, ma anche “nessuno”. Il vuoto, la mancanza che rimane.
I rifiuti sono quel che rimane, dopo i rifiuti non c’è altro. Sono la frattura non più componbile, sono l’impossibilità di dare seguito all’ordine assurdo che nel capolavoro dell’ungherese László Krasznahorkai, Melancolia della resistenza (1994), il diabolico personaggio che si fa chiamare “il Principe” impartisce ai suoi seguaci: «Fate l’intero dalle rovine». O ci sono le rovine oppure c’è l’intero, il principio di non contraddizione esclude ogni altra eventualità. Dopo che l’intero è andato in pezzi, restano solo rovine, scorie, macerie.
Non era questo che aveva in mente il povero Scatorchio nel momento in cui sosteneva a gran voce la proposta del sindaco: una discarica in paese in cambio di un ripetitore televisivo. Lo faceva per dispetto, per andare contro a Cicerchio, suo rivale in amore. Guarda che disastro, invece. La prosperosa Sirocchia lo ha abbandonato per sempre e se n’è andata con il detestato Cicerchio. Per sempre se n’è andata, come tutti.
Lu paese iè morto.
L’ommene e li fimmini traslucati.
Lu prete traslucato da lu viscovo.
Lu sindoco traslucato ne lu menestero.
A la fine nissuno abbie suppurtato
lu vento mirdoso,
l’annasare de putro appurcato
e de muffo vumitaro.
Ogne giurno a li campi granari
ce arrivano li carri giganti attrasporti.
Ce iettano ne li campi granari
le mucchie de munnezza putra.
Ne lu paese nun ce rimane nissuno.
Sulo la vidova Capecchia ce remane.
Sulo io ce remango.
Per Groppi d’amore nella scuraglia (2005) Tiziano Scarpa si è inventato questa lingua sgrammaticata e lirica, accidentata come la storia che racconta. L’apocalisse della contrada appestata dai miasmi della discarica potrebbe non essere definitiva, perché oltre alla vedova Capecchia qualcun altro si aggira nella «cattedraglia de munnezza», tra «pepestrelli» e «surci pantecani». È la bella Pruscilla, con la quale si può forse provare a trovare «dimenticanza de lu doglio d’ammure». Per conquistarla Scatorchio sale di nascosto su un camion della spazzatura e cerca di arrivare in città.
Forsanco a Napulo,
forsanco a Binivento
forsanco a l’Aquilo ioppuro Casirta,
forsanco a Campabbasso ioppuro Barlotta.
Nun se sappie.
Adduvo che me ce porta
ce cumpro la gonna florita a Pruscilla,
ce cumpro la cammisa bella.
E domane
ce porto l’ammure a Pruscilla,
l’ammure mio virgogno e pilloso,
domane
addiquà
ce returno.
Finisce così la favola puzzolente di Scatorchio, con la promessa di un inevitabile ritorno. Dalla spazzatura non si scappa mai del tutto, perché qualche scoria rimane sempre addosso, è una traccia che non si riesce a cancellare. Non c’è propriamente un dopo rispetto alla spazzatura, perché la spazzatura stessa è il dopo.
Nel medesimo anno di Groppi d’amore nella scuraglia, lo scrittore francese Joël Egloff pubblica Lo stordimento, breve e surreale romanzo ambientato in un assembramento di case contaminato e sporco, simile sia al villaggio derelitto del povero Scatorchio sia al degradante paesaggio descritto da Béatrix Beck in La Décharge. Eppure anche questo è un luogo a cui tornare. Anzi, al quale la memoria si rivolge già prima che sia avvenuto il distacco. Ascoltiamo la voce del protagonista, che si guadagna da vivere nel pestilenziale centro di macellazione lì vicino:
Ho assorbito tutti i metalli pesanti, ho le vene piene di mercurio, il piombo nel cervello. Al buio risplendo, faccio la pipì blu, ho i polmoni che sembrano sacchetti dell’aspirapolvere, ma il giorno in cui andrò via qualche lacrima la verserò di sicuro. È normale, è qui che sono nato e cresciuto. […]
I miei ricordi assomigliano a uccelli incatramati, ma sono pur sempre ricordi.
Sì, è così, ci si attacca anche ai posti peggiori. Proprio come il grasso si attacca sul fondo della padella.
Lo scrupolo è prematuro. Il narratore di Egloff non se ne andrà mai. La sua vita è compresa tra la discarica e l’aeroporto, e per le vacanze si può sempre fare affidamento sulle piscine dell’impianto di depurazione. Ogni tanto, da sud, sembra arrivare il profumo di margherite della «terra umida a primavera», ma è solo un’allucinazione, un effetto collaterale del costante stordimento collettivo.
In apparenza, invece, Alexandre Surin è libero di muoversi come vuole. Purché si sposti lungo la direttrice segnata dalle sue proprietà, però. Rennes, Deauville, Parigi, Marsiglia, Roanne e Casablanca sono i capisaldi del suo impero, e cioè la spidu, «Società Prelievi Immondizie Domestiche Urbane», come lo stesso Alexandre spiega con sussiegoso dispendio di maiuscole. La morte del fratello Gustave, da cui ha ereditato l’azienda, è avvenuta per lo schianto di una gru che stava spostando tre tonnellate di pattume. Alexandre non è in effetti il protagonista di Le meteore di Michel Tournier (1975), ma è un personaggio di rara, inquietante complessità, al quale l’autore riserva molto spazio in un romanzo altrimenti dedicato alla «comunione gemellare» tra i fratelli Jean e Paul (o Jean-Paul, come se fossero una sola persona), di cui Alexandre è zio paterno.
Il «dandy del pattume» esce di scena a metà libro, ucciso nei bassifondi di Casablanca durante una delle sue «battute di caccia» in cerca di prostituti e amanti. L’omosessualità è l’elemento portante del carattere di Alexandre, al quale si deve la formulazione di una «estetica del pattume» che si compiace di ricorrere a un linguaggio iniziatico («la suprema dignità immondiziale» impone un «dovere di trasfigurazione») e perfino teologico.
Alla metà degli anni Trenta, per celebrare la presa di possesso della spidu, Alexandre si fa cesellare da un gioielliere sei medaglioni da tenere nel panciotto, ciascuno con il nome di una delle sue capitali impure e ciascuno contenente «un concentrato delle immondizie della relativa città». Questo «reliquiario d’immondizie» racchiude in sé la quintessenza della dottrina di Alexandre. «L’idea è più della cosa, e l’idea dell’idea è più dell’idea»: basandosi su questo principio di neoplatonismo estremo, il dandy predilige la copia rispetto all’originale, si circonda di oggetti di «secondo grado» e ambisce al conseguimento del «terzo grado», spostando sempre più in là, sempre dopo qualcos’altro, il proprio obiettivo. La destinazione ultima è, coerentemente, la spazzatura.
Infine, che cos’è il pattume se non il grande conservatorio degli oggetti portati dalla produzione in serie a una potenza infinita? Il gusto del collezionare oggetti originali è assolutamente reazionario, intempestivo. Si oppone al ritmo produzione-consumo che sta accelerandosi sempre più nella nostra società e che approda al pattume.
Il carattere postumo o, per usare un termine più esatto, postremo della spazzatura non è solo teorizzato, ma anche di persona sperimentato da Alexandre. La sua immersione penitenziale, e nondimeno compiaciuta, nelle bassezze della materia giunge a perfezione quando l’uomo si trasferisce per qualche tempo in un vagone ferroviario «adattato a roulotte» nel perimetro della discarica di Miramas, non lontano da Marsiglia, in una «verzura di genere pattumiero» dove a tenergli compagnia c’è solo il cane Sam. È una situazione molto robinsoniana (il primo romanzo di Tournier, Venerdì o il limbo del Pacifico, del 1967, era una riscrittura del capolavoro di Defoe dal punto di vista del servitore indigeno del naufrago), turbata unicamente dagli attacchi di ratti e gabbiani, che razzolano indisturbati nella discarica. Uno degli amanti di Alexandre, Daniel, prova a raggiungerlo durante la notte, ma viene assalito dai topi, che lo divorano vivo. Il dandy del pattume assiste impotente allo scempio, ma neanche in questo caso riesce a rinunciare al suo intellettualismo misticheggiante:
Mi sprofondo nella contemplazione di quel povero manichino disarticolato, al quale non resta, di umano, che l’oscenità dei cadaveri. La mia meditazione non è una riflessione sottile e strutturata, è un inebetito silenzio, un’abbrutita immobilità nella calma strana di quel buco. Il mio povero cervello oppresso non riesce a esprimere che una sola domanda, molto semplice e concreta: la catenina d’oro, la medaglia della Santa Vergine? Dove saranno? Lassù le bordate di vento piallano i bordi del cratere e vi fanno precipitare cumuli di immondizie. Quaggiù c’è la pace delle profondità. La ruah… Il vento carico di spirito… Il vento delle ali della bianca colomba simbolo del sesso e della parola… Perché la Verità non si presenta a me se non sotto un travestimento grottesco e schifoso? Che cosa c’è dunque in me che fa sempre appello alla maschera e alla smorfia?
L’ironia di Alexandre, la sua metodica mistificazione del reale in realtà di secondo grado, sono un disperato tentativo di opporsi al carattere letterale della spazzatura, alla radicalità ontologica e, in un certo senso, escatologica che i rifiuti esprimono. Le “cose ultime” – come le ha definite con bella intuizione il filosofo Gianluca Cuozzo – sollecitano l’interpretazione e nello stesso tempo vi si sottraggono. Sono sfuggenti perché, dopo di esse, non c’è più un posto in cui fuggire. Semplicemente, la spazzatura è vera. Il che non comporta che la verità sia spazzatura.
«Vero?» è l’intercalare che il bambino rivolge spesso al padre in La strada (2006), il romanzo dello statunitense Cormac McCarthy nel quale gli avanzi di un mondo in rovina si trovano ovunque e, insieme, non bastano mai. Il cibo scarseggia, la terra è squassata da terremoti improvvisi, esplosioni e incendi si susseguono senza spiegazione, degli uomini che si incontrano su quel che resta di statali e tangenziali non c’è da fidarsi, perché il cannibalismo è pratica corrente. «Noi non mangeremmo mai nessuno, vero?», domanda il bambino nel suo ostinato bisogno di rassicurazione. «No. Certo che no», dice il padre. «Neanche se stessimo morendo di fame?», insiste il figlio. «Stiamo già morendo di fame», è la risposta.
La spazzatura è onnipresente nella Strada, ma raramente si rivela di qualche utilità. Anche quando raggiungono il mare, che sarebbe la meta del loro viaggio verso meridione, padre e figlio non trovano altro che scempio e desolazione.
Il maltempo aveva coperto il litorale di rifiuti, e [l’uomo, n.d.r.] percorse il bagnasciuga cercando qualcosa che potesse servire. Nelle secche a pochi passi dagli scogli un cadavere vecchio di chissà quanto fluttuava tra i pezzi di legno portati lì dalla corrente. Avrebbe voluto nasconderlo al bambino, ma il bambino aveva ragione. Cosa c’era da nascondere?
Per recuperare qualche provvista il padre deve spingersi a nuoto fino allo scheletro di nave arenato lì davanti, ripetendo così, ma con soddisfazione molto minore, l’impresa di Robinson Crusoe. Torna a riva con «una bottiglia di olio d’oliva e qualche scatoletta di latte in polvere», avanzi di tè e caffè, «qualche lattina di succo di frutta e qualche scatoletta di frutta e di verdura». Abbastanza per tirare avanti ancora un po’, ma nulla di paragonabile alla fornitissima dispensa nella quale i due viaggiatori si erano imbattuti per caso, salvo poi abbandonarla perché, nel mondo di dopo, nessun luogo è sicuro per troppo tempo. Nel romanzo di McCarthy (come in The Road, il film di John Hillcoat che ne è stato tratto nel 2009, con Viggo Mortensen nel ruolo del padre) non viene mai precisata la natura della catastrofe che si è abbattuta sull’umanità. Si sa soltanto che è una decadenza senza ritorno. Tutto, anche la neve appena caduta, si ricopre di «una patina di cenere fresca». Grigia la terra, grigio il cielo, grigio – quando si riesce a raggiungerlo – anche il mare. È un paesaggio che al lettore italiano non può non ricordare il «mondo nuovo, spaccato e senza niente» esplorato da Paolo Volponi nel romanzo Il pianeta irritabile (1978). In questa antifavola di robusta caratura ideologica, sempre in sospeso tra la denuncia ecologista e la farsa politica, animali senzienti e militaristi fanatici si fronteggiano all’indomani di un accavallarsi di sciagure che da un lato hanno messo fuori uso le tecnologie più avanzate e dall’altro hanno favorito il perpetuarsi dei regimi autoritari.
Nella Strada di McCarthy, invece, gli uomini regrediscono allo stato tribale, si adattano alla logica del branco, mentre gli oggetti funzionano a dovere, solo che adesso ganci e mannaie, coltelli e cesoie servono a macellare e scuoiare non animali d’allevamento, ma esseri umani. Poche cose restano fedeli a se stesse. Tra queste, con una trovata di sorprendente efficacia, una lattina di Coca-Cola che il padre scova tra le rovine di un supermercato e che il figlio è quasi costretto ad assaggiare. «Voglio che la bevi tu», dice l’uomo. «È perché non ne potrò bere mai più, vero?», chiede il bambino. «Mai – si sente rispondere – è un sacco di tempo».
Padre e figlio sono i buoni, padre e figlio portano il fuoco. Anche senza il padre, il figlio sarà riconosciuto e accolto dalla «bontà» (mercy, il termine adoperato da McCarthy, ha una spiccata connotazione religiosa, purtroppo assente nella traduzione italiana). L’uomo sta morendo, protetto da una tavola di compensato scovata come al solito tra i rifiuti. Non può dare spiegazione di quella promessa. «È sempre stato così. E lo sarà ancora», si limita ad affermare. Adopera un verbo al futuro, scelta inusuale in questo mondo dove tutto è già successo. Andrà come...