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I media e la memoria

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I media e la memoria

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Viviamo in un'epoca assetata di ricordi, terrorizzata dall'oblio e dotata di formidabili strumenti di memorizzazione. Eppure la memoria continua a costituire l'oggetto di un dibattito complesso che coinvolge in forma transdisciplinare storici, antropologi, filosofi, semiologi e altre categorie di studiosi. Questo libro costituisce la prima introduzione in italiano ai Memory Studies. A partire dalla riflessione del mondo antico sulla memoria individuale e collettiva, e attraverso un'analisi del dibattito moderno, il volume disegna una mappa aggiornatissima della riflessione contemporanea legata sempre di più ai media e alle forme di esternalizzazione della memoria.

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Informazioni

Editore
La Scuola
Anno
2016
ISBN
9788835046004

Capitolo primo - Memoria e media: i fondamenti teorici

1. Mnemotropismi
La memoria possiede un proprio linguaggio. È un linguaggio speciale, molto affine a quello poetico perché ricorre a un insieme di metafore, al fine di spiegare in modo figurativo le sue diverse proprietà. Le parole e i racconti della memoria trovano una prima formulazione nell’antichità, per quanto la loro potenza evocativa risuoni ancora oggi nei nostri discorsi e pensieri. Ad esempio, la nozione di traccia o impronta è sempre una metafora assai efficace per concepire il ricordo come un segno in cui il passato resta inciso, proprio come le età dell’albero rimangono iscritte nei cerchi concentrici del tronco. Assimilata a una prospettiva di tipo indessicale, la categoria di traccia designa in questo modo l’idea di segno della propria causa, sigillo di un’azione precedente4. Nel momento in cui la nozione di traccia rinvia al segno prodotto da una qualche azione più o meno esterna (es. le rughe per l’invecchiamento), occorre allora individuare un’ulteriore categoria capace di descrivere il processo di produzione delle tracce. Per questo motivo, diventano oggetto di osservazione tutte le cosiddette pratiche di iscrizione, tra cui anche la scrittura. Emerge così chiaramente come sia la relazione tra la nozione di traccia e quella di iscrizione a circoscrivere l’ambito di pertinenza per uno studio dei processi memoriali in chiave mediale. Se si pensa infatti a un medium antico come la scrittura, non possiamo fare a meno di leggere ogni lettera o parola come l’espressione di un pensiero o informazione tradotta graficamente, allo scopo di conservarne nel tempo il senso. Poiché in questo caso i segni che incontriamo sono lasciati su un supporto materiale, possiamo pervenire a una nuova estensione del concetto di traccia: dalla traccia psichica (quella trattenuta nella mente di chi ricorda) alla traccia culturale. Quest’ultima, veicolata da un supporto esteriore al nostro cervello, trae origine in prima battuta dai fenomeni grafici, passando poi per le decorazioni corporee, le vestigia delle diverse civiltà, l’urbanistica, ecc. Tra questi oggetti della memoria, quantificabili, empirici, non necessariamente lasciati in modo volontario, ci sono anche pitture, sculture o qualsiasi altra forma di produzione culturale fino ad arrivare ai media più noti come fotografie, film, prodotti televisivi, pagine web e così via. Entra qui in gioco un duplice aspetto delle procedure di mediatizzazione della memoria: da un lato, si configura un’idea di memoria fondata sull’oggettivazione, l’estrinsecazione e l’attualizzazione dei ricordi; dall’altra affiora la possibilità dei diversi strumenti mediali di costituirsi come mediatori del ricordo, ovvero supporti materiali, capaci di diventare archivi esterni atti a conservare la memoria culturale nelle sue molteplici forme5.
Sin dall’antichità la riflessione filosofica intreccia la problematica della memoria con quella della rappresentazione presente di una cosa assente6. Nel Teeteto7, attraverso la celebre metafora del blocco di cera su cui, come nell’anima, sarebbero incisi i nostri ricordi, Platone discute la natura essenzialmente ambigua dei ricordi e, se vogliamo, di tutte le tracce culturali. Tale ambiguità è determinata, per un verso, dalla duplice valenza indicale e iconica del ricordo; per l’altro, dall’idea di traccia come presenza in se stessa e, contemporaneamente, segno dell’assente, dell’anteriore. Per dirla in modo più semplice si pensi al caso di un ritratto o di una fotografia su cui è fissato il volto di una persona cara. L’immagine che ci appare prima di tutto rinvia al momento in cui nel passato il soggetto ritratto si è messo in posa, poi si configura come un oggetto in sé, capace di riattivare la nostra memoria nel presente. Inoltre, lo stesso ritratto o fotografia si offre come un insieme di tracce o segni indicali, ma allo stesso tempo possiede una forma visiva, grazie alla quale siamo in grado di riconoscere i tratti del volto della persona che amiamo. In De memoria et reminiscentia, Aristotele individua tuttavia una possibile soluzione a queste aporie ricorrendo alla categoria di “alterità”8. La nozione di iscrizione comporterebbe infatti una referenza all’altro: come appunto si diceva, una figura dipinta può essere considerata in sé e, al contempo, come rappresentazione dell’oggetto a cui si riferisce. Tuttavia è il concetto di impronta a portare un nuovo movimento dialettico tra icona e indice, cercando di superare la loro opposizione: l’orma, infatti, rinvia sia a una causa esterna (chi o cosa ha impresso l’impronta) sia a una significanza interna della marca, appartenente all’ordine della somiglianza (la corrispondenza figurativa tra il referente e il segno prodotto). A tutto ciò bisogna però anche associare la questione delle modalità con cui si manifesta la dimensione temporale all’interno di un’opera o di un testo. Se oggetto della memoria è senza alcun dubbio il passato, i modi attraverso i quali le tracce si riallacciano a esso sono diversi: la chiusura e la distanza di ciò che è accaduto rispetto al presente e la persistenza di qualcosa che è terminato, ma che continua a durare nel tempo. Tempo e alterità saranno pertanto categorie sempre presenti nelle nostre indagini sulla memoria e sugli oggetti del ricordo.
Un altro contributo dell’antichità alla comprensione dei processi mnestici è dato dalla retorica antica, interessata a studiare le tecniche e i procedimenti di memorizzazione. Se finora è sembrato che la memoria si reggesse esclusivamente sulla produzione di segni-oggetti cui si attribuisce il valore di ricordo, allo stesso modo però è necessario riconoscerle una dimensione processuale, connessa agli atti di rammemorazione, riconoscimento e rilettura delle tracce. Nei principi della mnemotecnica, così come sono stati enunciati da Cicerone, Quintiliano e dall’anonimo autore dello scritto Ad Herennium9, si sviluppa infatti un vero e proprio modello di consolidamento memoriale, fondato sull’ancoraggio mentale dei ricordi (imagines) a luoghi (loci) rigorosamente organizzati. I luoghi corrispondono a un sistema mnemonico di tipo architettonico, in base al quale si pianificano i contenuti della memoria seguendo una disposizione di ordine spaziale. Case, edifici, angoli, archi possono essere utilizzati come contenitori virtuali nei quali inserire gli oggetti del ricordo, anch’essi mentalmente tradotti in immagini. Fissati una volta per tutte e reimpiegati a seconda dei ricordi che su di essi si vuole imprimere, i luoghi sono una specie di supporto su cui si possono iscrivere, come lettere dell’alfabeto, le immagini. In questo modo, da una parte si elabora un procedimento utile a preparare la mente nel corso della rammemorazione, dall’altra si introduce un paradigma teorico che gioca sulla disposizione spaziale delle rappresentazioni, prodotte dalla memoria stessa. È interessante notare come, secondo Quintiliano, questa dialettica tra loci e imagines non sia arbitraria, ma assolutamente naturale. Il passaggio cruciale sta, infatti, nel riappropriarsi dei processi naturali della nostra memoria, le cosiddette associazioni mentali, per stabilire le strategie del suo potenziamento. Solo così si può costruire un nesso di continuità tra l’e­sperienza della memoria e l’arte retorica, e di seguito tra tutti i procedimenti culturali di recupero della memoria, come la già citata scrittura e ogni altro mezzo che funga da appoggio esterno alla mente.
Alla luce di queste riflessioni sulla natura della memoria nel corso dell’antichità, possiamo fissare i cardini per leggere l’evoluzione della storia del pensiero intorno a questo tema. Con il passare del tempo, infatti, si è assistito a una vera e propria esplosione di interesse verso la memoria e i suoi processi, tanto da indurre a parlare di un vero e proprio mnemotropismo. A causa della crescente ansia della perdita e della dissoluzione dei ricordi, diffusasi prima nella società moderna e poi in quella contemporanea, più che una fascinazione, nei confronti della memoria sembra essere nata un’ossessione. Tuttavia, è bene ricordare che la memoria, intesa come oggetto di studio e di ricerca, è una materia che ha impegnato filosofi e storici, da Platone e Aristotele, la cui eredità è stata colta da sant’Agostino, fino a giungere alla modernità con Nietzsche, Locke e Husserl, solo per citare le figure di spicco. Pur riconoscendo che questo lungo arco di evoluzione ritragga quella che potremmo chiamare una storia della memoria, in questa sede non è possibile ricostruire in modo esaustivo l’intera gamma delle declinazioni che hanno connotato la memoria nell’ambito della storia del pensiero e della cultura.
La memoria in effetti, come nota Susannah Radstone, ha significato cose diverse in tempi diversi10; per questa ragione può esserci utile introdurre una periodizzazione che organizzi le svolte più significative di questo percorso di sviluppo. In particolare, l’obiettivo sarà quello di individuare gli approcci disciplinari che hanno contribuito a modellare gli strumenti di analisi dei processi mnestici contemporanei. In questa prospettiva, nelle prossime pagine si ripercorreranno le tappe fondamentali di questo percorso storico, al fine di disegnare l’attuale mappa concettuale degli studi sulla memoria. Dunque, a partire da una stretta focalizzazione sulla relazione tra media e memoria, si inizierà con l’individuazione delle figure e delle idee costitutive elaborate nei primi decenni del Novecento con Marcel Proust (memoria involonataria), Sigmund Freud (memoria inconscia), Maurice Halbwachs (memoria collettiva) e Aby Warburg (memoria iconografica), per proseguire con i nuovi contributi alla fondazione epistemologica della disciplina dei Memory Studies nella seconda metà del secolo scorso, con l’approfondimento del rapporto tra cultura e memoria.
1.1. La memoria involontaria
À la Recherche du temps perdu (Alla ricerca del tempo perduto), romanzo pubblicato in sette volumi tra il 1913 e il 192711, è considerato il più grande monumento letterario, eretto nella modernità, alla memoria e all’esperienza soggettiva di essa.
Opera citata e studiata in diversi ambiti del sapere, dalla storia della letteratura alla filosofia, possiamo oggi affermare che se da un lato il suo autore, Marcel Proust (1871-1922), si è nutrito del pensiero filosofico del suo tempo (in primis degli scritti di Henri Bergson12), dall’altro lato la Recherche stessa ha influenzato numerosi contributi e riflessioni sulla soggettività e la rappresentazione del tempo e della storia. In questa prospettiva, appare essenziale comprendere come quest’opera immensa abbia occupato e continui a occupare un posto di preminenza nella memoria collettiva sia francese sia mondiale. Il fatto che attualmente il nome del suo creatore sia percepito come una sorta di “marchio depositato” per firmare luoghi turistici, T-shirt e gadget vari oppure per ispirare la scrittura di romanzi, film e pubblicità, ci obbliga a riflettere sulle ragioni per le quali il libro di Proust continui a essere così prossimo alla sensibilità dell’uomo contemporaneo. Senza dubbio, i tentativi per definire un libro come la Recherche sono stati molteplici e non sempre univoci: per alcuni si tratta di un libro-enciclopedia, per altri di un meta-libro. Tuttavia, il principio che accomuna queste posizioni risiede nell’idea di un’opera totale i cui confini si estendono a tale dismisura da includere gli andamenti di tutta la nostra memoria culturale. Alla luce di ciò, vediamo dunque di esaminare alcuni elementi che hanno portato a riconoscere alla Recherche il valore di vero e proprio luogo della memoria13, veicolo cioè per la costruzione di un’identità sempre più transculturale.
È pressoché impossibile scrivere la sintesi di un’opera il cui protagonista e narratore si lascia di volta in volta scivolare dentro i fortuiti spiragli della memoria. Dalla rievocazione della sua infanzia a Combray fino all’età adulta, la narrazione è costellata dal riemergere di figure del passato, come la madre, la nonna, la zia Léonie. Nel suo insieme, Proust elabora un raffinato ordito intorno alla società aristocratica e altoborghese della Francia di fin siècle la cui vita mondana è erosa dal fluire del tempo nella duplice tensione tra perdita e ritrovamento del passato. Il romanzo si conclude rivelando al lettore che quanto fino a quel momento raccontato si appresterà a diventare oggetto di scrittura da parte dell’io narrante. Da narratore di esperienze vissute ad autore del romanzo che le conterrà, questa imponente realizzazione più che semplice autobiografia con derive nel romanzo di formazione appare essere in senso stretto l’«opera di tutta una vita» (Lebenswerk), la pura espressione del ricordo, lo scavo negli abissi dell’oblio per sconfiggere il tempo. Secondo Walter Benjamin che a Proust ha dedicato un intenso ritratto, è stata la stessa legge della memoria a definire l’ampiezza dell’opera dal momento che l’evento ricordato è in grado di trascendere i confini dell’evento vissuto e, in quanto tale, conchiuso14.
Poiché in questa sede non ci è dato rendere conto della complessa e stratificata esegesi dell’opera proustiana, ai fini della nostra ricostruzione sui fondamenti epistemologici della relazione tra memoria e media, ci limiteremo a enuclearne due aspetti di massima importanza: in primo luogo il concetto di memoria involontaria; in secondo luogo, la riflessione sui processi della memoria e la fotografia.
Rispetto all’idea di memoria involontaria (mémoire involontaire), è opportuno ricordare che Proust introduce nel suo romanzo una concezione originale del tempo e una diversa modalità di esprimerne le ricadute sulla prassi di scrittura. Per gli scrittori che lo hanno preceduto, il tempo del racconto era per lo più privo di dilatazioni e subordinato a un rigido ordine cronologico. Ciò significa che non era immaginabile uno sviluppo narrativo estraneo a una dimensione lineare. Proust invece inventa il tempo interiore, cioè qualcosa di qualitativamente diverso dal “tempo storico” e dal “tempo sociale”. Prescindendo dalle figure esteriori che l’uomo costruisce per condividere con altri i fatti dell’esistenza, il tempo interiore appartiene alla coscienza del singolo individuo, il quale può solo entro questa dimensione entrare in contatto con i contenuti della propria memoria. L’autore però distingue due diversi tipi di memoria. La memoria volontaria, ovvero la memoria dell’intelligenza, è un processo condotto razionalmente, ma privo di qualsiasi efficacia sul piano di un accesso autentico al tempo ritrovato. Diretta dall’intelletto e dalla volontà, la memoria intenzionale lavora infatti a vuoto, fa compiere azioni vane perché in essa nulla di reale è stato trattenuto. Al contrario, la memoria involontaria può disvelare la verità del ricordo dal momento che in essa il tempo passato è letteralmente riportato in vita. Come leggiamo dal celebre, ormai paradigmatico, episodio della madeleine, i ricordi emergono spontaneamente, in modo repentino, poiché essi dipendono dalla percezione sensibile che si appiglia in modo del tutto casuale a un oggetto materiale latore di ricordi.

E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, agendo allo stesso modo dell’amore, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza15.

È chiaro come questo passaggio, tanto sedimentato nella memoria collettiva da essere utilizzato come metonimia per l’intero romanzo, sia stato posto dall’autore all’inizio della sua opera allo scopo di mettere in moto l’operazione narrativa, insieme a quello di chiarirne il senso riposto. Dalla reminiscenza involontaria scaturisce pertanto il processo creativo che dà luogo al romanzo stesso: essa permette all’io narrante per prima cosa di accedere ai ricordi cristallini dell’infanzia (la zia Léonie a Combray), poi – in termini più dilatati – di ricostruire i pezzi sepolti del passato, a loro volta corrispondenti alle diverse parti del romanzo. Insomma, il tempo morto e passato può essere risvegliato («È chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Gli strumenti del ricordo
  3. Indice dei contenuti
  4. Introduzione
  5. Ringraziamenti
  6. Capitolo primo - Memoria e media: i fondamenti teorici
  7. Capitolo secondo - Dalla memoria mediatica alle memorie digitali
  8. Capitolo terzo - Studi di caso
  9. Conclusioni
  10. Bibliografia
  11. Indice dei nomi
  12. Nella stessa collana
  13. Note