Immagini della Modernità
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Il cinema europeo nell'epoca della secolarizzazione (1943-1975)

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Il cinema europeo nell'epoca della secolarizzazione (1943-1975)

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Questo studio si apre con l'analisi di un film italiano, Ossessione (1943) di Luchino Visconti, e si conclude con l'analisi di una altro film italiano, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini. In mezzo c'è la storia del cinema europeo sviluppatasi nell'arco di tempo compreso tra la fine del secondo conflitto mondiale e i primi anni Sessanta del Novecento (nella vicinanza di un passaggio epocale per la cultura occidentale, il sessantotto). Il confronto con alcuni film «esemplari» - essendo le opere cinematografiche un prezioso «documento» per interpretare la storia – consente un avvicinamento alle questioni di maggior rilievo dell'epoca della secolarizzazione. Il neorealismo rappresenta la rivoluzione estetica dalla quale prende avvio il cinema moderno. La politica degli autori a livello teorico, la successiva nouvelle vague e soprattutto il nuovo cinema d'autore affermatosi negli anni Sessanta, non rappresentano solo una «forma» nuova. La «forma» naturalmente ha una rilevanza non trascurabile. Ma dietro le questioni meramente formali, se si amplia il campo di osservazione, si scorgono le profonde mutazioni antropologiche. Il neorealismo è animato dal desiderio di guardare in faccia le tragedie umane, per mettere a fuoco l'identità stessa dell'uomo. Il passo successivo compiuto dal cinema d'autore dell'autodeterminazione, tratto peculiare della modernità, le cui conseguenze sono intimamente connesse alla «trasvalutazione dei valori» in atto nella società europea. Alla conclusione dello straordinario decennio – gli anni Sessanta – di effervescenza, originalità, profondità e creatività incarnate dal cinema d'autore europeo, proprio nel ribollente crogiolo culturale del Sessantotto, alla disumanizzazione estetica finisce per legarsi una virulenta ideologia politica. Il risultato finale, oltre a favorire il progressivo torpore (determinandone la scarsa rilevanza a livello internazionale) del cinema europeo (torpore dal quale ancora non si è ripreso), è la tragica fine delle illusioni, così ben rappresentata nell'ultimo film di un geniale e tormentato protagonista del tempo moderno, Pier Paolo Pasolini, che rivolge lo sguardo al Marchese de Sade per addentrarsi nell'inarrestabile processo di dissoluzione dell'umanità.

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II. Una risposta ai dilemmi della modernità: l’etica neorealista

Una rivoluzione cinematografica

Ancora oggi, quando si vuole indicare la più grande scuola, si nomina quasi sempre il neorealismo. Registi e maestri di paesi e di cinematografie profondamente differenti, dall’Oriente all’Occidente, si appellano continuamente, e magari anche per ragioni molto diverse, al neorealismo italiano. Negli Stati Uniti due autori diversi come Martin Scorsese e Steven Spielberg indicano come maestri il primo Rossellini, il secondo Zavattini [...]. Tuttavia, si ha una certa difficoltà a definire il neorealismo; tutti concordano sulla sua importanza, ma le interpretazioni sono spesso molto divergenti, addirittura contrastanti. C’è chi indica la narrazione di problemi sociali, della vita autentica della povera gente; chi parla di riprese in esterni reali, di attori non professionisti. Tutte queste cose sono vere, ma solamente in parte, perché quelle valide per un autore non lo sono per un altro[1].

Con queste parole Sandro Bernardi introduce l’esperienza del neorealismo in una trattazione dedicata alla storia del cinema. Ecco invece il giudizio di Gian Piero Brunetta:

Per quasi cinquant’anni, ieri come oggi, tutti i maggiori registi delle generazioni successive a quelle che esordiscono negli anni quaranta, da Godard e Truffaut a Glauber Rocha e Wim Wenders, dai fratelli Taviani a Bertolucci, da Nelson Pereira Dos Santos a Wajda a Coppola a Scorsese, hanno riconosciuto il loro debito nei confronti di Rossellini e Zavattini-De Sica, Visconti, ma anche verso De Santis, Lattuada, Germi, Zampa[2].

E sempre Brunetta aggiunge:

C’è stato un periodo in cui il tempo del cinema mondiale si è fermato e sintonizzato con quello del meridiano che passava per Roma città aperta, Paisà e Sciuscià e altri film che, al di là dei loro meriti espressivi, hanno contribuito a ridare visibilità a dignità all’Italia agli occhi del mondo. Giustamente è stato osservato che per lo spettatore del dopoguerra i film di Rossellini hanno avuto l’effetto di una rivelazione, sono stati come una stella cometa che ha portato l’annuncio di una nuova era cinematografica [...] il cinema italiano è diventato di colpo, da una parte, una potenza espressiva e una forza trainante capace di modificare tutti i modelli e i sintomi di riferimento, i paradigmi culturali, la prosodia, la sintassi e le poetiche del cinema internazionale, dall’altra il più autorevole rappresentante politico e diplomatico della nuova Italia repubblicana[3].

Sono due autorevoli pareri di studiosi. La regista tedesca Margarethe von Trotta ricorda di aver visto in un cinema di Düsseldorf I bambini ci guardano (1942) di Vittorio De Sica, film che le ha cambiato la vita[4]. Ecco invece cosa dice di amare del cinema Papa Francesco nell’intervista concessa al direttore di «Civiltà cattolica»: «La strada di Fellini è il film che forse ho amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a san Francesco [...]. Un altro film che ho molto amato è Roma città aperta»[5]. Il film col quale si inaugura la storia del neorealismo (Roma città aperta del 1945) e il film col quale chiude (La strada del 1954). Il Pontefice si rivela – certo involontariamente – oltreché appassionato, corretto storiografo nel fissare l’arco temporale di una esperienza non solo cinematografica, ma etica e filosofica, che ha segnato un periodo irripetibile della creatività registica italiana, la manifestazione di una estetica innovativa e un ricchissimo «catalogo di icone, di oggetti, di fisionomie, di paesaggi»[6]. Il neorealismo è una vera e propria rivoluzione estetica[7]. Domènec Font gli conferisce lo statuto di matrice della modernità cinematografica[8]. Un passaggio germinale del moderno[9], per Lino Micciché la prima e la più precoce delle nouvelles vagues[10]. Un faro potentissimo capace di rischiarare il cammino delle più innovative esperienze estetiche europee, nell’arco di tempo racchiuso tra la conclusione della seconda guerra mondiale e la fine degli anni Sessanta. Il neorealismo è stato una scuola, si domanda Fernaldo Di Giammatteo,

come vuole la critica francese? O un movimento, come vogliono altri, soprattutto in Italia? O una convergenza casuale di alcuni cineasti intorno a un generico progetto di rinnovamento, come parecchi pretendono? O un vero e proprio programma estetico-ideologico, come la parte più agguerrita dei protagonisti (autori e critici) afferma?[11].

Se n’è discusso. Se ne discute e se ne discuterà, poiché il neorealismo è «un fiume carsico. Non solo in quanto movimento cinematografico, ma anche in quanto oggetto di studio, esso riappare periodicamente, quasi stesse per cominciare una nuova vita»[12]. «Il neorealismo ha prodotto un tremendo impatto nel cinema mondiale»: la scuola italiana ha esercitato per la storia del cinema la stessa funzione di Picasso per la storia della pittura. Dopo di lui non è più stato possibile dipingere come prima[13]. Il produttore de I protagonisti (The Player, 1992) di Robert Altman, interpretato da Tim Robbins, si reca in un piccolo cinema di Pasadena, il Rialto, dove stanno programmando il capolavoro neorealista Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica. Il produttore ha urgenza di parlare con uno sceneggiatore. Entra nella sala con notevole ritardo, quando il film sta per concludersi. Sullo schermo scorrono le indimenticabili immagini del volto spaventato del figlio del disoccupato al quale hanno rubato la bicicletta, e che a sua volta ne sta rubando una. Un grande protagonista del cinema contemporaneo come Altman intende così, in maniera evidente, rendere omaggio alla scuola italiana del realismo.
Per comprendere la nascita del neorealismo si deve risalire alla funzione di primaria importanza assegnata dalla politica culturale fascista alla cinematografia. Con il fascismo le immagini – prima documentaristiche e successivamente, in maniera crescente, con l’universo della finzione – diventano di fatto l’ingranaggio principale della macchina propagandistica, messa al servizio del consenso di massa[14]. Non a caso l’apice del «consenso» per il regime fascista[15] venne raggiunto negli stessi anni della creazione e dell’espansione dell’industria cinematografica, richiamando una intensa partecipazione degli artisti alla edificazione della «civiltà fascista». Come ha notato la studiosa americana Ruth Ben-Ghiat

il fascismo attrasse molti intellettuali quale nuovo modello di modernità che avrebbe risolto la crisi europea contemporanea e gli antichi problemi di integrazione nazionale[16].

I dubbi su «eclettismo», «complessità» e «modernità» della cultura fascista (ancora più evidenti nelle varie manifestazioni della propaganda popolare)[17] nel corso del tempo sono progressivamente scemati. L’interpretazione di Norberto Bobbio di un fascismo privo di cultura e di ideologia[18], e di un fascismo privo di «consenso» popolare e intellettuale (tesi trasportata di sana pianta in alcune interpretazioni cinematografiche)[19], sono state superate. Come è stata superata la tesi della cultura (e degli intellettuali) sedotta e poi abbandonata[20], o peggio corrotta dal fascismo. Ridurre la partecipazione degli intellettuali (in buona o cattiva fede) al mero aspetto della corruzione non ha facilitato la comprensione del funzionamento della propaganda e del consenso al fascismo. Interpretazioni obsolete, pur se mai completamente sopite e perennemente ricorrenti, utili a chi le richiama in vita per «defascistizzare il fascismo», negando «per esempio, che vi sia stata un’ideologia fascista, una cultura fascista, una classe dirigente fascista, un’adesione di massa al fascismo, un totalitarismo fascista e perfino un regime fascista»[21]. La cultura fascista va considerata un tentativo vitalistico, una risposta alla decadenza nella quale è sprofondata la cultura europea. Il filosofo Giovanni Gentile riteneva il fascismo una «rivoluzione spirituale», necessaria per risollevare la cultura italiana[22]. La politica cinematografica fascista a livello di massa è chiamata a diffondere gli ideali della rigenerazione nazionale, ideali che si incarnano nel mito dell’«uomo nuovo» fascista[23]. È «la via italiana al totalitarismo»[24], marcata dalla «secolarizzazi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. IMMAGINI DELLA MODERNITÀ
  3. Indice dei contenuti
  4. Avvertenza
  5. I. Prolegomeni alla modernità del cinema
  6. II. Una risposta ai dilemmi della modernità: l’etica neorealista
  7. III. Una risposta ai dilemmi della modernità: l'estetica della nouvelle vague
  8. IV. Il cinema europeo nell'epoca della secolarizzazione
  9. V. I «moderni»
  10. VI. L’ultima ondata. Sulla distruzione del cinema europeo
  11. VII. La tragica fine delle illusioni
  12. Filmografia