La Dottrina sociale fondamentalmente è una applicazione della teologia morale ai diversi campi sociali. Non è, come potrebbe sembrare, una ideologia né una teoria economica o sociale. Inoltre non la si può considerare, come si è prima accennato, alla stregua di una ideologia e d’una teoria economica, una sorta di terza via tra collettivismo marxista e capitalismo liberista, nemici irriducibili del principio cristiano del primato della persona. La Dottrina sociale, invece, parte dal presupposto della trascendenza della persona, che informa di sé il pensiero relativo al rapporto dell’uomo con il mondo economico, politico, sociale. Tra il marxismo, che nega la proprietà privata, e il capitalismo, che la afferma in modo assoluto ed esclusivo, la Dottrina sociale, coerentemente con la tradizione cristiana, cui preme il principio della destinazione universale dei beni, pone in evidenza la concezione della cosiddetta ipoteca sociale sul diritto della proprietà privata. Come ha chiaramente affermato Giovanni Paolo II nella sua enciclica Sollicitudo rei socialis, 1987, la Dottrina sociale è una «accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale». Lo scopo della Dottrina è quello di interpretare tali realtà e di orientare il comportamento cristiano. Pertanto, essa manifesta chiaramente il suo carattere pratico, oltre che teorico, ed una natura dinamica di processo in costante sviluppo.
Anche la percezione di essa all’esterno è molto cambiata: negli anni ’60-’70 veniva per lo più considerata come una opzione ideologica in antitesi ad altre ideologie, se non addirittura un semplice e inutile compendio di encicliche papali. Il panorama di questi ultimi decenni è notevolmente diverso, grazie al contributo di papi quali Paolo VI e Giovanni Paolo II, i quali hanno portato la Dottrina al centro del dibattito sui grandi temi della pace, dello sviluppo, della giustizia, del lavoro, della libertà, della famiglia. La Dottrina sociale si presenta, dunque, come uno sguardo della Chiesa impegnata nel mondo, dal quale riceve una impronta come riflesso di influenze, di interazioni, di cambiamenti determinati dal progresso delle culture e delle scienze, delle arti e della comunicazione. Tuttavia, a sua volta, anche la Chiesa esercita una certa azione di influenza sulla società, indirizzandone l’etica collettiva, il costume e i comportamenti. Come ci si può orientare all’interno di questa fitta rete di correlazioni e interdipendenze?
A tal fine va subito detto che per comprendere il ruolo della Chiesa è necessario tener presente due punti fondamentali: la coscienza dell’annuncio del Vangelo ai popoli (principio permanente); la necessità di proporre una risposta ai cambiamenti della società (applicazione variabile). Ciò significa che la Chiesa coglie un elemento di continuità nell’insegnamento di Cristo di cui la Dottrina sociale costituisce il prolungamento. D’altra parte, lo sforzo interpretativo consiste nell’adeguamento progressivo ai bisogni e ai cambiamenti sociali, restando fedeli ai dati della Rivelazione. Dal tempo di Leone XIII ad oggi, la Chiesa stessa ha modificato la comprensione del proprio ruolo: si va dall’ideale dello Stato cristiano quale modello di società fondata sui valori cristiani, in grado (secondo Leone XIII) di edificare la civiltà umana, alla nozione di civiltà cristiana di Pio XII (non più intesa come progetto universale, bensì come orizzonte di riferimento),al concetto del Regno di Dio nel periodo conciliare.
Comunque queste diverse prospettive hanno in comune la volontà di entrare nella realtà dei problemi, analizzandone le cause e descrivendone gli effetti: la Rerum novarum indica i mali della rivoluzione industriale e denuncia lo sfruttamento degli operai; Pio XI, valutando l’estendersi del sistema capitalistico, ne denuncia gli abusi, così come critica nel contempo il comunismo; il lavoro di questi papi sarà poi perfezionato da Giovanni XXIII, il quale porterà la Dottrina sociale a comprendere la nuova realtà sociale che ora investe il mondo intero, l’orizzonte della mondialità e del pluralismo, il linguaggio della cooperazione tra i popoli. Sotto la spinta del rinnovamento promosso dal Concilio Vaticano II, 1962-65, la Dottrina sociale si arricchisce anche grazie al contributo delle scienze umane, affermandosi sempre più come una vera e propria scienza sociale cattolica: mai come ora la Dottrina sociale aveva chiarito a se stessa la sua propria natura e il suo rapporto con la storia.
In relatà, la Dottrina sociale della Chiesa si occupa specificamente del rapporto che corre tra la Chiesa e il mondo; la storia della Dottrina sociale non è altro che la storia delle diverse letture del rapporto tra Chiesa e Storia. Nel cristianesimo occidentale le letture di questo rapporto si sono sviluppate generalmente lungo l’asse di due opposte chiavi di lettura: una prima pessimistica (Lutero, Pascal), per cui la differenza che corre tra i valori e la storia è irriducibile e vano è ogni tentativo di santificare la politica e cristianizzare lo Stato, così che ciò che il cristiano può fare è ridurre il più possibile il male con il suo agire moralmente valido. Una seconda chiave di lettura è di tipo ottimistico, la quale, pur non escludendo la realtà del peccato, ritiene l’uomo capace di costruire una realtà sociale finalizzata positivamente al bene di tutti, così da circoscrivere la realtà del male in un ambito marginale tale da non compromettere la stabilità e il progresso della città dell’uomo (la via tomista).
«Nella prima prospettiva, insomma, i cristiani sono coloro che impediscono al demoniaco che è nello Stato di avere la prevalenza e operano per circoscrivere entro limiti accettabili il male presente nella storia; nella seconda, il male può essere relegato ai margini della storia e i cristiani possono diventare i costruttori di una “nuova città” che, se non è propriamente la “Città di Dio”, non è nemmeno la “città del diavolo”» [1] .
Il cattolicesimo sociale si colloca in questa seconda prospettiva e opera la trasformazione in senso cristiano delle strutture della società: non nel senso che trasforma strutture non cristiane in strutture “cristiane”, ma nel senso della moralizzazione delle strutture stesse della società. Tale visione ottimistica consiste, appunto, nella fiducia di poter orientare ai valori le strutture dello Stato e della società, soprattutto se si verificano tre condizioni: il persistere d’una fondamentale fiducia nella ragione, nella sua capacità di fondare un diritto naturale; la ragionevole certezza che la storia avvalori la non utopicità di questo progetto; la speranza, comunque mai del tutto abbandonata anche nelle peggiori delle ipotesi, che il mondo moderno non si allontani dai valori cristiani a tal punto da temere inarrestabile il suo processo degenerativo.
Nel corso della storia bimillenaria della Chiesa, la prospettiva pessimistica ha condizionato spesso lunghi tratti del cristianesimo, fino alla soglia del magistero sociale della Rerum novarum. Se si pensa che il Sillabo di Pio IX è del 1864, si apprezza in tutta la sua portata lo spirito di rinnovamento che introdurrà Leone XIII, fino ad ipotizzare una possibile riconciliazione tra Chiesa e modernità, fino all’apertura nei confronti della democrazia politica. Certo, la proposta di Leone XIII era quella di uno “Stato cristiano” alternativo allo Stato moderno (il che implicava un giudizio negativo su quest’ultimo), ma si era già lontani dalla Chiesa del giudizio, di cui il Sillabo è espressione. Leone XIII diede inizio ad un nuovo corso e il magistero sociale, dopo di lui, avrebbe continuato a leggere i segni dei tempi, discernendo le vie possibili d’una positiva attualizzazione del messaggio sociale evangelico. Così, dall’idea leoniana dello Stato cristiano, si arrivò, attraverso l’idea d’una Civiltà cristiana auspicata da Pio XII, alla post-conciliare proposta per una Società ad ispirazione cristiana, che informa di sé in pieno il magistero sociale di Giovanni Paolo II. L’idealeoniana trovò la sua esplicita affermazione nella Divini Redemptoris (n. 73) di Pio XI, la cui idea di cristianizzazione dello Stato sembrerà trovare attuazione con la firma del Concordato del 1929, considerato come un successo politico della Chiesa cui venivano accordati spazi per la religione e riconosciuti diritti di carattere ecclesiastico.
In definitiva, le tre idee-programma non solo chiariscono il tipo di rapporto che correva tra la Chiesa e la società, ma spiegano anche l’evolversi della comprensione sociale che la Chiesa aveva di sé rispetto al mondo: infatti si inizia con l’idea di uno “Stato cattolico”, che di fatto potrebbe essere realizzato solo nell’ambito particolare di uno Stato nazionale a prevalenza cattolica. Si tratta di un’idea piuttosto antiquata, per nulla di grande respiro, ben lontana dalla vocazione pur attestata da millenni da parte della Chiesa alla cattolicità, alla universalità. Questo limite sarà sempre più superato dalle fasi successive (la visione mondiale del Vaticano II, la visione post-industriale di Giovanni Paolo II nell’era globale).
Va anche detto che la concezione dello Stato cristiano, propria della prima fase, presenta anche un altro limite, che sarà affrontato dal Vaticano II: la Chiesa che si sarebbe dovuta impegnare per la cristianizzazione dello Stato è soprattutto, se non solamente, la Chiesa-Istituzione, con la completa assenza del Laicato, sotto ogni profilo ecclesiologico, g...