«A tavola, dopo aver recitato le preghiere e letto e cantato un passo della Scrittura, More con il suo inimitabile modo suggeriva un argomento leggero e tutti si divertivano»
(Thomas Stapleton, Vita Thomae Mori )
Ad integrazione di quello che è stato detto nel saggio introduttivo sull’attitudine all’allegria di Thomas More, su quel suo inimitabile spirito ludico del tutto naturale e spontaneo che divertiva tutti e che gli permetteva anche di insegnare divertendo, secondo quanto ebbe modo di descrivere Erasmo osservandolo in azione, vogliamo provare a capire che cosa lo stesso More pensasse della leggerezza e del divertimento, rigettando nella maniera più categorica le tesi secondo cui la sua anima e le manifestazioni di essa non furono che un accostamento di contraddizioni. «L’anima di Thomas More presenta invece un continuo lavoro, sereno e sicuro, per cogliere il significato di strumento di perfezione di qualsiasi passione o tendenza che la natura, vale a dire Dio, gli aveva dato, onde operare quegli strumenti in mezzo alle circostanze più diverse che gli uomini gli venivano creando dintorno, per comporsi in una tranquilla accettazione delle vie della Provvidenza, in una umanissima collaborazione ad esse» [1] .
Probabilmente More stesso dovette domandarsi se, quella sua carica di simpatia e gaiezza, quel suo gusto agli scherzi, quella sua passione per le battute caustiche ed ingegnose con le quali divertiva tutti anche se prendevano di mira lui stesso, fossero il frutto di un’anima goliardica o edonistica, lo sfogo di una vita logorata dalla pesantezza e severità del suo lavoro, la necessità di una leggerezza che gli avrebbe consentito di recuperare energie psichiche e spirituali, o niente di tutto questo.
Ancor più di lui noi oggi abbiamo il dovere di chiederci da dove gli derivasse la sua vena allegra, considerato che la sua vita ha continuato a manifestarsi al mondo anche dopo la sua morte. Quell’uomo che inevitabilmente, per sua scelta, è diventato per tutti un martire, caricato del fardello della santità, eletto patrono della più alta ed eccelsa attività umana, riconosciuto universalmente paladino della libertà di coscienza è sempre lo stesso uomo dell’allegria, il cui ritratto in questa sede stiamo cercando di descrivere e che molto tempo prima altri osservarono e descrissero, sebbene non ebbero la lungimiranza di fornire una chiave di comprensione psicologica della sua festivitas, la ragione del suo essere tale.
Indubbiamente, come si è avuto modo di dimostrare nell’introduzione, per comprendere l’origine di questo spirito tipicamente moreano non si può prescindere dalla famiglia More. L’introduzione del divertimento nella sua casa fu una brillante intuizione generata da una mente in cui la facezia e la festività erano talmente connaturali alla sua personalità che l’accompagnarono dall’adolescenza fino al patibolo. E poiché dalle fonti storiche non si registrano nei confronti di questo regime tracce di malcontento ma di diffusa approvazione da parte dei familiari è lecito pensare che in questo campo aveva colto nel segno.
More era consapevole dell’utilità per i suoi figli, in vista della meta prescritta, di far seguire ai metodi intellettuali uno svago divertente. ‹‹Ciò risultò necessario alla famiglia perché la mantenne ciò che era. Sapeva che i suoi non erano monaci, e non voleva nemmeno che pensassero una tal cosa. Falsa solennità, falsa santità, e tutte le altre forme di falsità, sarebbero seguite senza quella vena; e l’aria d’importanza che ne sarebbe risultata, avrebbe portato litigi su litigi: gelosia e non gioia. La vena di More riduceva tutto nella sua giusta grandezza, persino le lagnanze di sua moglie, alle quali egli rispondeva sempre con uno scherzo» [2] .
In tale contesto esistenziale dalla capacità di provocare semplici piaceri, come tra le altre cose faceva con il suo serraglio, che aveva lo scopo di divertire quanto di istruire [3] , alle rappresentazioni teatrali nei saloni di Backelsbury e Chelsea, fino al servizio che svolgeva il buffone nella sua “piccola corte”, tutto serviva ad implementare il divertimento e la leggerezza nella sua casa. Sebbene nulla di quello che riuscì ad offrire ai suoi in questo campo fu più significativo della presenza del suo caro buffone.
In realtà fu proprio la presenza di Patenson, (da questa lettura del tutto giustificabile il servizio che svolgeva nella sua casa), la cui memoria fu resa per sempre viva dal suo padrone che obbligò il grande Holbein a ritrarlo in mezzo ai suoi cari nel grande dipinto di famiglia, a fornire la chiave di comprensione del suo atteggiamento festoso. Probabilmente l’illustre cittadino londinese vide in lui la possibilità di impiantare all’interno della sua casa la dimensione dello svago, di consolidarla e di rafforzarla, di esercitarla anche, come un supplente eccezionale, nei lunghi periodi di assenza dalla famiglia impegnato nelle missioni diplomatiche.
Ciononostante Henry fu accolto nella casa non perchè More vide in lui la figura di un potenziale buffone. Egli fu apprezzato prima come uomo, con i suoi limiti e le sue fragilità di persona mentalmente debole e poi valorizzato per le sue qualità umoristiche che gli riuscivano spontanee a causa dei suoi evidenti limiti psicologici. Se avesse voluto un buffone per la sua casa l’intera congrega dei fool d’Inghilterra avrebbe fatto a gara per aggiudicarsi un posto così privilegiato, invece in maniera per nulla conforme al pensiero comune accolse nella sua casa un uomo mentalmente disturbato, ma che aveva nel suo bagaglio umano le caratteristiche e le qualità del fool, talenti che il suo padrone sagace com’era, non avrebbe mai permesso che rimanessero inespressi.
Non erano più di semplici bizzarrie, battute di spirito, comportamenti stravaganti, nulla a che vedere con le esibizioni dei fool di mestiere, tuttavia sarebbero serviti a sostenere quell’opportunità di evasione che un uomo fortemente severo nei confronti di se stesso offriva alla sua famiglia. Una delle convenzioni dell’epoca era l’impiego di un buffone domestico per alleviare la tensione senza mettere in discussione il sistema. Lo spiritoso, studioso e legalistico More seguì questa convenzione facendo lavorare a casa sua Henry.
All’interno della famiglia More poteva essere equiparato ad un principe illuminato, e Patenson il folle che canzonava, un sistema ingegnoso e gradevole, attraverso il quale i valori accettati venivano rinforzati. More potrebbe aver visto il suo buffone alla luce di un meccanismo di tensione liberatoria che sarebbe servita a sostenere la struttura disciplinata della sua casa. Quando l’autorità permette un rilassamento delle sue restrizioni, incoraggiando persino l’attuazione di un divertimento, il suo valore, nel nostro caso l’autorità di More, veniva ad essere rafforzata [4] .
Non c’è alcuna indicazione tale da dover interpretare il divertimento fornito da Henry nei termini di una sublimazione dei loro istinti naturali. Se il divertimento in quella casa fosse un riflesso di istinti repressi non può che essere oggetto di congetture. E alla luce di quello che la famiglia More apparve dall’esterno ai contemporanei e, dalle testimonianze sulle relazioni intercorse tra i membri stessi della casa e tra questi e More sarebbe una congettura alquanto malevola.
I documenti suggeriscono invece che la famiglia accettò il contributo di Patenson per il loro tempo libero fondamentalmente come una le...