L’incontro con l’arcidiocesi
«La figura del Vescovo, voi lo sapete, non è semplice. Tanta esteriorità lo circonda, che dirà, sì, la singolarità e la sublimità delle funzioni episcopali; ma può darsi ch’essa oggi più confonda che non chiarisca le idee su ciò che il Vescovo veramente è, e più che offrire un’espressione genuina della sua missione, diventi, all’occhio del popolo, oggi ormai inesperto nel linguaggio simbolico della Chiesa, una figurazione strana e anacronistica, un costume convenzionale puramente decorativo, o un’incomprensibile rappresentazione d’ignote realtà» [1] .
Così si esprime il card. Giovanni Battista Montini, il 22 maggio 1961, a Lugano (Svizzera), dove si è recato per il venticinquesimo anniversario di ordinazione episcopale dell’amministratore apostolico della città, mons. Angelo Giuseppe Jelmini, suo amico
[2] . A fronte di quella confusa e lontana definizione del vescovo, aggiunge il card. Montini, altre invece ne chiariscono il magistero e il governo, ma tutte quelle diverse qualifiche si riassumono in una sola, «la parola più familiare e più densa di significato, il Pastore»
[3] . È lo stesso Montini, dunque, ad offrire la chiave di lettura più adatta del suo episcopato, quella che egli vive nei diversi settori della grande arcidiocesi milanese.
Nelle ultime settimane del 1954, precedenti l’arrivo in diocesi, egli incontra a Roma i principali rappresentanti del mondo ecclesiastico ambrosiano e delle sue associazioni laicali per avere un quadro più chiaro di quanto lo attenda
[4] . Rivelatrice di un’attenzione pastorale che svilupperà nel corso della sua esperienza episcopale è la decisione del neoeletto arcivescovo di esercitarsi nel rito ambrosiano con l’aiuto di mons. Ernesto Camagni, minutante in Segreteria di Stato e suo amico, nativo di Baruccana, vicino a Monza.
A Milano non arriva un intellettuale astratto, ma un sacerdote molto conosciuto e impegnato, anche se vive un momento di sgomento spirituale per le sue nuove responsabilità, come scrive il 7 aprile 1955 all’amico mons. Giuseppe De Luca: «Io sto misurando l’aspetto formidabile del mio ministero, e sperimento fino alla sofferenza l’angustia delle mie capacità, l’inettitudine della mia debolezza. Ho tanto bisogno che Dio mi prenda in mano»
[5] . Qualche mese dopo, il 20 agosto 1955, in una lettera al trappista Thomas Merton, finissimo scrittore convertito, conservata nell’archivio privato di mons. Pasquale Macchi, segretario personale di G.B. Montini-Paolo VI, riflette: «Di solito, nessuno gode della conquista di condizioni conformi ai propri sogni e ai propri piani; circostanze provvidenziali cambiano il programma pratico della nostra vita; e bisogna alla fine amare e servire quella forma di vita che le vicende provvidenziali del nostro pellegrinaggio ci impongono».
La grande diocesi ambrosiana è solidamente sostenuta da istituzioni come l’Università Cattolica del Sacro Cuore, il seminario di Venegono Inferiore (Varese) e le altre quattro sedi vocazionali [6] , molteplici opere assistenziali e culturali, un forte sviluppo dei movimenti giovanili ; vi si stampa il quotidiano cattolico nazionale «L’Italia». Il territorio vanta numeri di tutto rispetto, ma che non devono illudere: circa 3.700 sacerdoti e religiosi, 14.600 suore, 946
parrocchie, che contano da 40.000 fedeli in periferia a soli 92 nella parrocchia del Duomo; una popolazione di tre milioni e mezzo di anime, con ben 200.000 soci dell’Azione Cattolica e 50.000 aclisti, ma al cui interno una percentuale variabile tra il 14 e il 35% frequenta la messa domenicale. Questo il quadro che attende Montini.
Egli arriva in diocesi il 4 gennaio 1955 in treno, da Roma, fermandosi a Lodi per il saluto delle autorità religiose e civili. Da lì prosegue in automobile e, giunto nei pressi di Melegnano, entrando nel territorio della diocesi ambrosiana si prostra a terra, appoggia nel nevischio il suo cappello e, tra lo stupore dei presenti, bacia la strada bagnata e fangosa della diocesi recitando una preghiera: a significare l’umile accettazione di quella terra come sua, una promessa di amore e di servizio. Quindi l’arcivescovo prosegue il suo viaggio fino al Collegio degli oblati missionari di Rho, dove pernotta fino al giorno dell’ingresso ufficiale in Milano, il 6 gennaio.
Mons. Montini è senz’altro un ministro pienamente consapevole del suo nuovo ruolo. Dice, infatti, ai fedeli nel solenne discorso d’ingresso: «Apostolo e Vescovo io sono; Pastore e Padre, maestro e ministro del Vangelo; non altra è la mia funzione fra voi» [7] . Ed espone un progetto pastorale che si sviluppa tra due poli: fedeltà e difesa della tradizione cattolica ambrosiana, e suo rinnovamento per rispondere adeguatamente al tempo attuale, all’«umanesimo buono della vita moderna» [8] . In una temperie storico-ecclesiale caratterizzata perlopiù da atteggiamenti di arroccamento o di contrapposizione nei confronti della modernità, Montini prospetta invece un incontro tra due ricchezze: quella di una Chiesa secolare carica «di santità, di arte, di storia, di letteratura, di carità» e quella «meravigliosa e modernissima di vita – e voglio dire di lavoro, d’industria, di commercio, di arte, di sport, di politica» [9] . Parallelamente i criteri di azione individuati dall’arcivescovo viaggiano su due binari: «Approfondire e allargare» [10] . Approfondire il nucleo vivo della fede per liberarla da tutte le esteriorità e i compromessi che ne appannano la forza evangelizzatrice: « Non nova, sed nove » [11] , dice il presule, e lo ripeterà ancora nel corso del suo episcopato. Ma egli invita anche ad approfondire – in un percorso che promette di seguire per primo – i multiformi atteggiamenti verso la religione degli uomini d’oggi, che vanno dal fervore all’ateismo, passando a volte per formalismi e devozioni che inquinano la purezza del messaggio cristiano.
La seconda fase che egli propone all’arcidiocesi, quella dell’allargare, è più problematica, perché pone il consueto problema dei confini tra sacro e profano; ma Montini, dando per acquisite le distinzioni, si mostra molto fermo sul «diritto sp...