Nota al titolo [1]
[4.1 Scienza e sapienza, arti meccaniche e ricerca umanistica. 4.2 La poesia da arte pratica a disciplina etico-teoretica: da Giovanni di Salisbury a Petrarca. 4.3 Poesia e interiorità. 4.4 Dalle Invective all’ Ignorantia : poesia e spiritualità. 4.5 Equilibri difficili: affetti e moralità. 4.6 L’utile e il dolce: poesia come humanitas . 4.7 Sapienza ed eloquenza per Cicerone. 4.8 La parola civilizzatrice: il mito di Orfeo. 4.9 Isidoro e l’origine religiosa della poesia: poesia contro barbarie. 4.10 Il mito di Omero: poesia e verità. 4.11 Il valore conoscitivo della poesia. 4.12 La solitudine come strategia contemplativa. 4.13. Dal sensibile all’intelligibile: oltre l’edonismo]
[4.1] In una delle sue lettere più complesse, e in cui in apparenza non faceva che rifarsi a un’abitudine che era stata cara agli scrittori del medioevo, il Petrarca, col pretesto di disegnare sinteticamente un quadro degli studia e degli affectus degli uomini, tentava di esporre al fratello un nuovo criterio di classificazione delle scienze e delle arti. Così egli veniva caratterizzando l’uno dopo l’altro i «voluptatibus deditos», gli «actuose vite studiis intentos» – con quel senso pregnante da lui sempre attribuito all’aggettivo actuosus quando lo contrapponeva a ingeniosus [2] – e finalmente i «sapientie et contemplationi deditos» [3] . Dei primi si occupava appena, limitandosi a definirli spregevolmente turba, nei confronti degli altri non nascondeva la propria avversione, quando li diceva opes honores potentiamque sectantes, degli ultimi deplorava la scarsità.
Per entro questo schema, che costituisce una costante della mentalità del Petrarca e che fornisce in maniera tipica la misura del suo mondo morale, s’inserisce un complesso quanto energico sforzo di classificazione delle artes, in cui lo scrittore, pur restando debitore alla terminologia e anche alla mentalità del medioevo, finisce in ultima analisi per proporre dei valori nuovi.
Il problema di fondo è quello della distinzione tra scientia e sapientia: da un lato stanno le «artes mechanicae, corporeis necessitatibus servientes» che occupano il campo della scientia, dall’altro sta la sapientia, un’attività tutta spirituale che confina con la pietas [4] , la docta pietas degli umanisti, e che è sostanzialmente medicina degli animi, guida della parte spirituale di noi, ricerca filosofica tutta umana e tutta robustamente impegnata d’una significazione etico-prammatica. L’etica, l’economia, la politica, attività tutte essenzialmente spirituali e humanae, sono il dominio dei sapienti:
Horum sane qui animis medentur, quidam unius hominis, quidam familie, quidam reipublice curam gerunt: primum quidem etice opus est, yconomice secundum, tertio politice magistri et legum latores invigilant. Inque his omnibus vie tertie tramitibus sunt qui palam, sunt qui clam pergant et velut apertum evitantes umbris gaudeant, neque se profanari et nimia familiaritate contemni, sed videri a paucis et studio queri velint. Hi sunt poete, nostra presertim etate rarum genus [5] .
Dopo aver tanto vagato alla ricerca di una sistemazione nei trattati medievali sulle artes, la poesia, come attività tutta contemplativa e spirituale, essenzialmente morale e humana, ha trovato finalmente il suo posto legittimo nel gran cielo della sapientia. Essa sta accanto alle attività superiori, quelle che «animis medentur» e se ne distingue soltanto per un suo carattere più umbratile e aristocratico e, diciamo pure, più propriamente contemplativo: è insomma sulla vetta della scala dei valori ed è senz’altro l’espressione suprema dell’ humanitas.
[4.2] Con questo semplice fatto il Petrarca operava senz’altro un rovesciamento delle prospettive tradizionali. La poesia si svincolava dalle artes liberales («que vulgo sapientia dicitur, quam rectius scientiam dixerim») [6] e si poneva come problema a sé stante, all’apice d’una nuova scala di valori. Il fatto caratteristico è appunto la centralità degli interessi del Petrarca per la poesia, il suo sforzo di collocarla al centro d’un sistema d’idee, il suo stesso esclusivismo. Egli non esita a staccarla dalla grammatica e dalla retorica, con le quali pure non aveva cessato di confondersi alla vana ricerca di un suo posto, come rifiuta addirittura di considerarla un’ ars per innalzarla direttamente al rango di attività morale.
È l’inizio di una nuova era del problema della poesia. Per rendercene meglio conto, richiamiamoci per un attimo a Giovanni di Salisbury, che pure va considerato il massimo esponente di quello che si suole definire l’umanesimo del XII secolo, e forse, tra gli uomini del medioevo, il più vicino al Petrarca [7] . Certe affinità di fondo autorizzano il paragone. La distinzione tra scientia e sapientia, tra attività attive e contemplative, è altrettanto netta e si connette ancora, anche lì, saldamente alla patristica: «Patres scientiam referunt ad activam, ad contemplativam vero, sapientiam» [8] . Pure, tra sapientia e poesia Giovanni di Salisbury non intravede alcun nesso: anzi, pur impacciandosi nel dubbio che essa sia frutto di natura più che di ars, non esita a farla dipendere dalla grammatica:
Adeo quidem assidet poetica rebus naturalibus, ut eam plerique negaverint grammaticae speciem esse, asserentes eam esse artem per se, nec magis ad grammaticam, quam ad rhetoricam pertinere: affinem tamen utrique, eo quod cum his habeat praecepta communia. Ringantur super hoc, qui voluerint (non enim hanc potendo litem), sed omnium pace, opinor ut sit haec ad grammaticam referenda, tamquam ad matrem et altricem studii sui. Licet autem neutra illarum omnino naturalis sit, et ex maxima parte substantiae suae hominem, qui eas invenit, utraque laudet auctorem, natura tamen aliquid juris sibi vindicat. In utraque profecto, aut poeticam grammatica obtinebit, aut poetica a numero liberalium disciplinarum eliminabitur [9] .
Il punto di vista in cui il Petrarca ci ha collocato non manca tuttavia di suggerirci dei dubbi e delle domande ulteriori, soprattutto in ordine all’affinità tra la poesia da un lato e le scienze morali e civili (l’etica, l’economia e la politica, come lo stesso Petrarca dice), dall’altro. È certo che son qui i fondamenti del prammatismo umanistico, di quel prammatismo che consisteva nel considerare la poesia un’attività a valore preminentemente sociale e pratico [10] , ed è interessante anche notare, come, insensibilmente, il Petrarca finisca per appropriarsi, deformandole e arricchendole, certe istanze della scolastica, del Gondissalvi, ad esempio, che finiva per collegare la poesia alle scienze civili e si mostrava particolarmente interessato al carattere sociale di essa [11] .
A ben intendere il senso di questo prammatismo, occorre pensare al valore polemico delle affermazioni del Petrarca. Ciò che più lo interessava, avesse o no notizia delle polemiche del Mussato [12] , era di difendere la poesia dall’accusa di inutilità, di giustificarla come strumento operante ai fini del bene e della verità, e quindi essenzialmente come sapientia. E se l’accusa principale che i suoi contraddittori, ipotetici o reali potevano muovere alla poesia, era quella della sua vanità e della sua inutilità, e se ancora attuali erano le parole di S. Tommaso, che la definiva «infima doctrina» [13] e ne metteva in rilievo il «defectus veritatis» [14] , tutto lo sforzo del Petrarca consisterà nel cercare le prove della sua utilità e della sua funzione morale, l’affinità di essa, insomma, con la filosofia e con quella che egli indicava come teologia [15] .
[4.3] L’ammettere che essa non ha validità come scientia, né affinità con le artes, e che il campo del sapere fisico e sperimentale le è precluso, non comporta altro, per il Petrarca, che una più integrale umanizzazione e spiritualizzazione della poesia, che è sapientia, scienza dell’uomo e sapere spirituale, cui è dischiuso l’intero mondo dei fenomeni morali e che opera in un senso in cui la scientia non può operare, ai fini cioè del bene e della virtù: «Studiorum nostrorum […] veritatis effectum ac virtutis […] terminum statuamus» [16] diceva in una lettera. E qualcosa di simile ripeteva un po’ dappertutto e un po’ sempre, fino agli ultimi anni [17] .
Un simile prammatismo finiva di necessità per articolarsi in varie direzioni. Da un lato esso si risolveva, in sede di poetica vera e propria, nell’istanza di una più schietta e integrale interiorizzazione della poesia. In una delle epistole al Cardinal Bernardo, che lo invitava a comporre un poema astronomico [18] , egli esprimeva nettamente il suo fastidio per i componimenti a ispirazione scientifica ed esponeva un ideale di poesia tutta intima, intrinsecamente morale e umana e alla lontana filosofico-sapienziale, dietro il quale è facile riconoscere il volto del Petrarca poeta:
Invenies aliquos astrorum arcana professos,
metirique ausos coelum, terrasque fretumque,
ignaros quo nostra tamen corpuscula limo
subsistant, seu quis clausus sit spiritus umbris.
Heu furor, heu funesta lues, heu flebilis error!
Omnia malle hominem, quam se, discernere; sic ne
ultima cura sui est, quam par fuit esse priorem?
Non peregrina quidem, sed me mihi noscere tantum
i...