1. Crisi del modello ottocentesco di Stato liberale e crescente complessità della realtà politica e sociale italiana. Tendenze e fermenti culturali della giuspubblicista
Nella storia del pensiero giuridico italiano, il trentennio compreso tra il 1912 e il 1946 trova la sua caratterizzazione più profonda nella presa di coscienza della crisi dello Stato di diritto liberale ottocentesco [1] e dell’indispensabile trasformazione dell’ordine giuridico, da adeguare a una realtà sempre più complessa e plurale [2] .
La semplicità è il «peccato di origine» dello Stato-persona [3] , ispirato a una strutturazione in senso individualistico della società, messa in discussione dalla crescente organizzazione politica dei conflitti economici e sociali. Santi Romano – nel celebre discorso di inaugurazione dell’anno accademico pisano del 1909, significativamente intitolato « Lo Stato moderno e la sua crisi» [4] – ravvisa proprio nell’eccessiva semplicità la causa dell’«eclissi» della forma di Stato, che aveva ricevuto una compiuta e coerente elaborazione dalla giuspubblicistica del tempo [5] .
A quest’ultima – sotto l’influenza determinante dell’opera di Vittorio Emanuele Orlando e, per il suo tramite, della scienza giuridica tedesca – si deve una concezione dello Stato di diritto che considera i partiti politici e i gruppi organizzati di interessi come fattori potenzialmente disgreganti della sovranità statuale [6] . Tuttavia, svanita la società omogenea e a-conflittuale che aveva rappresentato, nei primi decenni di unità nazionale, lo sfondo del sistema politico liberale monoclasse, lo Stato da «unico attore sulla scena del mondo» [7] diviene nell’icastica immagine di Giuseppe Capograssi un «povero gigante scoronato» [8] , sì da dischiudersi alla cultura italiana la riscoperta della complessità dell’esperienza giuridica, irriducibile alla concezione ottocentesca del rapporto tra Stato e società [9] .
L’elaborazione teorica della pluralità degli ordinamenti giuridici, mediante il concetto di istituzione [10] , è uno degli itinerari percorsi, in quel tempo, per recuperare alla giuridicità dimensioni e figure – fino a quel momento confinate, dal positivismo legislativo e dalla dogmatica formalista, nella sfera della fattualità – che, invece, si scoprono intrise di una propria carica di normatività [11] .
Il diritto costituzionale diventa terreno di elezione di una riflessione che, tanto sul versante giuridico-positivo quanto su quello filosofico, supera la tradizionale concezione del diritto come sistema logico fondato sulla legge statuale, nella crescente consapevolezza che la funzione di organizzazione della società è ormai ascrivibile a una pluralità di fonti non più esiliabili dall’universo giuridico [12] . «Tutto il diritto costituzionale» – scrive nel 1922 ancora Capograssi – è «nella sua pratica una continua pertinace immensa contravvenzione alla sua norma scritta» [13] .
È la presa di coscienza, di fronte a una realtà totalmente mutata, dell’inadeguatezza della concezione che riduce il diritto al comando dello Stato sul singolo individuo, rifiutando ogni organizzazione del panorama sociale in comunità intermedie. Come avverte acutamente, nel 1931, Sergio Panunzio, una delle figure più complesse di intellettuale fascista, le teorie pluralistiche «non promanano dai cervelli degli autori che le hanno formulate più o meno felicemente, ma promanano immediatamente dalla realtà delle cose» [14] .
Il trentennio che ci occupa è interamente percorso dai segni dello scollamento tra le vecchie strutture formali dello Stato di diritto liberale, mantenute in piedi parzialmente anche dal regime fascista, e la complessità della moderna realtà politica e sociale [15] . Un dualismo che era deflagrato con l’introduzione del suffragio universale maschile, a opera della legge 30 giugno 1912, n. 665 [16] , e che trova, nel fascismo e nell’ideologia corporativa, un tentativo di sistemazione nuova, in grado di recuperare nell’ordine costituzionale forze fino ad allora sospinte nel metagiuridico [17] .
Già nel secondo decennio del Novecento, nella giuspubblicistica tedesca si avverte, in modo pienamente consapevole, l’incapacità degli schemi del positivismo giuridico ad assolvere una funzione ordinante della trasformazione costituzionale verso lo Stato pluriclasse [18] . Neanche la cultura giuridica italiana si sottrae al confronto con il deperimento delle costruzioni teoriche dello Stato-persona, sia pure con indirizzi di studio e strumenti metodologici profondamente diversi [19] .
Una parte della Scuola amministrativistica prosegue nell’impiego dei tradizionali paradigmi disciplinari [20] , dedicandosi – con Guido Zanobini – a un’opera di sistemazione teorica generale della pubblica amministrazione, indifferente all’intenso rinnovamento delle strutture e delle funzioni dello Stato autoritario e interventista [21] . È quella che è stata definita la «strategia dell’estraneità o dell’indifferenza» verso il fascismo, che vede un filone della giuspubblicistica appartarsi rispetto a un regime concepito come una parentesi nella storia costituzionale, che avrebbe ripreso «il cammino sulla via maestra dello Stato di diritto, quale forma naturale e necessaria dei sistemi politici moderni e contemporanei» [22] .
Dall’altro lato, una corrente di giuristi – impersonata, tra gli altri, da Santi Romano e Oreste Ranelletti – assunta piena consapevolezza della centralità acquisita dall’amministrazione [23] , la pone al centro di un nuovo diritto pubblico, che rappresenta un aggiornamento dello «Stato liberale di diritto, ora inteso come Stato amministrativo» [24] . Il regime fascista, istituzionalizzatosi con la legislazione del periodo 1925-1928 [25] , costituisce una risposta storica alla disarticolazione del vecchio modello liberale, poiché restituisce il «potere esecutivo a quella posizione preminente che la salvezza dello Stato urgentemente reclamava» [26] . L’identificazione dello Stato con la forma della “amministrazione imperativa” permette di collaborare con il regime fascista, allo scopo di custodire i valori di neutralità, continuità e stabilità dell’apparato pubblico, da difendere contro ogni funzionalizzazione all’attuazione dei princìpi politici del partito [27] .
Da ultimo, la più giovane generazione dei pubblicisti – incarnata da Costantino Mortati e Vezio Crisafulli – approfondisce figure quali il partito, il governo e l’indirizzo politico: temi fino a quel momento trascurati da una scienza giuridica ancorata ai paradigmi dello Stato nazionale di tipo ottocentesco, ma che iniziavano ad affacciarsi già nella letteratura weimariana [28] e in alcuni scritti di Panunzio [29] , il quale vede nel fascismo e nell’ideologia corporativa una risposta alla crisi dello Stato moderno, imperniata sulla dimensione dinamica e teleologica dell’indirizzo politico, vera e propria quarta funzione dello Stato [30] .
La nuova “dottrina giuridica della Costituzione” si offre come chiave di lettura privilegiata della trasformazione istituzionale primo-novecentesca. Essa viene elaborata soprattutto da Mortati in una serie di lavori che, muovendo dal saggio del 1931 su L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano [31] , culminano ne La Costituzione in senso materiale del 1940 [32] .
Nella tradizione dominava una concezione positivistica della Costituzione di stampo statualistico [33] , che comprendeva in essa «i princìpi giuridici che designano gli organi supremi dello Stato e stabiliscono il modo della loro creazione, i loro reciproci rapporti, la loro sfera di azione, e inoltre la posizione fondamentale dell’individuo di fronte al potere statale» [34] . Una visione teorica che considerava lo Stato-persona un prius e...