Il darsi dell'origine nell'esperienza sociale e religiosa
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Presentazione di Vincenzo Di Marco e introduzione di Rocco Pezzimenti
Le scienze dell'uomo hanno conosciuto nella seconda metà del secoloscorso una rapida fortuna e un altrettanto rapido declino. La sociologia inparticolare ha svolto il ruolo preminente che Comte le aveva assegnato, ossiaquello di indicare nel progresso scientifico il fondamento ultimo dellavita sociale. Nonostante questo primato, essa ha risentito dello strapoteredella tecnica. L'immagine che le scienze cognitive (socio-biologia, linguistica, antropologia) ci hanno restituito dell'uomo è al tempo stesso povera etotalizzante. L'individuo sembra confinato in una solitudine atomistica. Dirimando la vita religiosa, accusata di coltivare un'immagine desueta dell'uomo, si è liberata, nel frattempo, dai vincoli di un passato (a dire dei più)oscurantista. Il darsi dell'Origine nell'esperienza sociale e religiosa è il primo dei cinquevolumi dell'Opera omnia con cui Vincenzo Filippone Thaulero rispondealle questioni capitali del nostro tempo: l'avanzare della secolarizzazione, l'eclissi del sacro, l'uomo come «passione inutile». In questi saggi l'autorepropone una lettura in forte controtendenza, ribadendo il valore di una«sociologia dell'esperienza religiosa» che dia conto della verità ultima, fondativa, dell'uomo e della società. Solo una conoscenza che sia in grado diun'apertura profonda verso il Dio-Origine cristiano, egli dice – vissuta nellaradicalità dell'esperienza religiosa – può garantire quel valore ontologicodella persona che rischia di naufragare se lasciato al nudo resoconto dell'esistenzapratico-sensibile. Vincenzo Filippone-Thaulero raggiunge questo risultatoattraverso la riformulazione della fenomenologia scheleriana, da cuiera partito per approdare al suo «rovesciamento» teoretico. Con largo anticiporispetto alle filosofie dell'alterità e della donazione di Lévinas e Marion.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788838246555
Categoria
Sociology

Presentazione

di Vincenzo Di Marco

L’ Opera omnia di Vincenzo Filippone-Thaulero

Con la prima giornata di studi, Sociologia Filosofia Poesia, tenutasi il 20 maggio 2003 a Roseto degli Abruzzi, comincia la «seconda» vita culturale di Vincenzo Filippone-Thaulero [1] . Per la verità, dopo la morte prematura dello studioso, avvenuta l’11 settembre 1972 a causa di un tragico incidente stradale, vi erano stati alcuni tentativi di mettere mano alle carte personali rimaste nel cassetto. Con cura premurosa Carla Sabine Kowohl, moglie del filosofo, si mette al lavoro fin dal 1973, come racconta lei stessa nella Nota al volume di poesie Non è perduto il segno [2] . La scelta di dare ampio spazio in via prioritaria alla stampa postuma dei testi poetici si è rivelata fortunata, visti gli esiti di questa impresa. Lo stesso Filippone-Thaulero aveva dichiarato ripetutamente di voler pubblicare i suoi sonetti nella convinzione di aver individuato una modalità espressiva di più diretta comunicabilità rispetto ai corposi saggi sociologici e filosofici. Non solo. Nella Premessa ai suoi testi poetici, Filippone-Thaulero confessa la predilezione per la poesia rispetto alla filosofia e alla scienza, convinto di aver trovato nella forza espressiva della «parola» poetica – come nella migliore tradizione romantica – la misura ottimale della sua scrittura. Egli scrive: «Resta che la poesia abbraccia la filosofia. Per la poesia vale la parola» [3] .
Oggi noi sappiamo quanto fosse profonda e articolata questa passione poetico-letteraria. Grazie al lavoro di scavo condotto sui documenti d’archivio conservati dai familiari, negli ultimi anni sono stati rinvenuti numerosi scritti letterari inediti, custoditi gelosamente tra i ricordi più preziosi: dalle poesie giovanili degli anni 1945-1957 ai testi teatrali, dagli abbozzi di etica e metafisica agli schizzi narrativi di argomento autobiografico. Le prove letterarie del nostro Autore sono molto precoci. Fin dai banchi di scuola egli fa mostra del suo talento, meritandosi giudizi lusinghieri dagli insegnanti. Meditare, annotare, scrivere: queste tre parole compendiano uno stile di vita già marcatamente presente negli anni giovanili. Tutto viene concepito per far tesoro di queste attività come se rappresentassero, e lo diremo più avanti, la vocazione di testimone fedele di ogni aspetto saliente dell’esistenza.
La copiosità di questo lascito ha comportato un faticoso lavoro di ricostruzione testuale, sia cronologico che tematico. La fatica ne è valsa la pena. Possiamo dire senza ombra di dubbio che questi scritti ci restituiranno un ritratto più completo sulla figura di Vincenzo Filippone-Thaulero, rispetto agli interventi emersi nei due convegni di studio a lui dedicati più di dieci anni orsono.
Francesco Mercadante ne traccia profeticamente la rotta già nell’intervento introduttivo al Convegno del 2003, collocando Filippone-Thaulero nella ristretta schiera degli «aristocratici, dei cavalieri erranti», che per circa tre decenni, dopo il secondo conflitto mondiale, hanno creato forti imbarazzi, e perturbamenti inattesi, ad una istituzione letteraria pronta a tutto pur di santificare autori che erano ben custoditi sotto l’ala protettrice delle ideologie in voga: «Filippone-Thaulero, poeta postumo – egli dice –, si presenta al pubblico con un tratto non poco significativo di somiglianza all’aristocratico politico, geloso della differenza e della genealogia» [4] . Vengono fatti, non a caso, gli esempi significativi di Tomasi di Lampedusa e Lucio Piccolo. Mario D’Addio, come già detto, testimonia di questa inesausta passione di creazione poetica e esistenza religiosa: «La poesia esprime quella verità di vita che la filosofia arriva a conoscere solamente in parte».
Vincenzo Filippone-Thaulero nasce nel 1930, a Roma, da una famiglia di origini abruzzesi. Frequenta gli studi ginnasiali e liceali nell’Istituto “Massimo” dei Padri Gesuiti, dove consegue la Maturità classica nel 1948. Giovanissimo, dopo la laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, con una tesi in Filosofia del Diritto, «Una metodologia cristiana del diritto», discussa con Giorgio Del Vecchio, ottiene il Diploma di Perfezionamento di Filosofia del Diritto dell’Università di Roma, con la tesi «La fictio juris in Bartolo da Sassoferrato», con il relatore Widar Cesarini Sforza. Nel 1954 è incaricato personalmente da Luigi Sturzo di dirigere il Bollettino di Sociologia, divenendo uno dei maggiori collaboratori dell’Istituto Sturzo. Partecipa a congressi di Sociologia e segue corsi di Filosofia della Scienza, Psicologia e Filosofia all’Università di Zurigo. Ha occasione di ascoltare le lezioni di Karl Barth. Dal 1958 al 1960 è assistente alla Cattedra di Giacomo Perticone di Storia dei partiti politici presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma. Ottiene una borsa di studio dalla Humboldt-Stiftung per approfondire presso l’Università di Münster la problematica filosofica dei valori. Traduce l’ Etica di Nicolai Hartmann e pubblica il primo volume di Società e cultura nel pensiero di Max Scheler (1963). Nel 1961 sposa in Germania Carla Sabine Kowohl, dal matrimonio nasceranno cinque figli: Gabriella, Johannes, Stefano, Elisabeth, Matthias. Nel 1962 tiene un ciclo di lezioni all’Istituto Sturzo, dal titolo «La sociologia tedesca del primo quarto di secolo con riferimento alle teorie di M. Weber e di M. Scheler». Presso l’Università Internazionale degli Studi Sociali Pro Deo (oggi Luiss), svolge corsi su Toynbee, Spengler, Scheler, Mannheim, Marx. Fa parte del Jewish Committee, le cui ricerche confluiranno nel volume Religione e pregiudizio del 1968. Nel 1965 ottiene la libera docenza in Estetica e Filosofia Morale all’Università di Salerno, svolgendo corsi sulla filosofia di Kant, Tommaso d’Aquino, Nietzsche, Weber, Scheler, Hartmann, Gadamer. Nel 1972 vince il concorso a cattedra per Filosofia Morale.
A Salerno, come racconta Gabriele De Rosa, ha modo di condividere, dal 1965 al 1970, la compagnia «di studiosi, storici, letterati, filosofi di prim’ordine: da Carlo Salinari a Edoardo Sanguineti, da Mario Napoli a Lucio Colletti, da Renzo De Felice a Fulvio Tessitore, a Francesco Malgeri per fare qualche nome».

Queste amicizie, questi colloqui a più voci, queste varietà e molteplicità di esperienze culturali, queste storie personali così diverse, insieme al confronto quotidiano con i termini di una realtà sociale frammentata, dura, ma di forte spessore storico, favorivano in Vincenzo una maggiore e più lieta apertura anche sul piano dell’ascolto e della riflessione etica. Egli era per le idee grandi, generose; operando e intervenendo sempre nelle discussioni con la discrezione dell’intellettuale che sa della delicatezza di ogni progettazione culturale e, pertanto, dialoga, si immette nel gioco delle compromissioni, come anche dei dissensi, sempre intento a cogliere ogni parte, piccola che fosse, di verità. […] Lo stesso modo Vincenzo teneva nelle sue lezioni di Filosofia morale; non a caso fu tra i docenti “salernitani” che suscitarono più attenzione fra gli studenti. Non parlava con l’arroganza del cattedratico, che ha fretta di consumare i quarantacinque minuti dell’aula, perché fuori l’attende una montagna di impegni d’altro genere: la sua lezione aveva la struttura e il tono della conversazione, però sempre severa, se non severissima [5] .
In una lettera inviata a Gabriele De Rosa il 19 luglio 1972 da Oberprechtal, nella Foresta Nera, durante un periodo di vacanze trascorso con la famiglia, si leggono parole di umana amicizia che lega i due colleghi d’università. Filippone-Thaulero è «tra i boschi a fare vita trogloditica (senza mezzi di comunicazione di massa)», e, nonostante questa breve lontananza, non può fare a meno di esprimere il debito morale e culturale che ha nei confronti del suo amico e maestro in tante cose: «affannati e solleciti ma – sembra un paradosso – distaccati e sereni». Sono giorni caratterizzati dalla letizia, rallegrati dai buoni propositi di un uomo desideroso di far bene nella vita e nella ricerca culturale. Nulla fa presagire la catastrofe della sua morte prematura.
L’amicizia è talmente diretta tra i due che De Rosa gli scrive pochi giorni dopo, l’8 agosto, per confidargli le fatiche di un duro anno di lavoro, senza nascondere i problemi che ci sono a Salerno con gli studenti. Le ondate di violenze non si placano, come ne è piena la cronaca in quegli anni di grandi speranze, ma anche di situazioni difficili che fanno perdere il lume della ragione: «Siamo stati sfiorati dalle ondate di violenze che si sono scatenate dopo l’assassinio di uno studente missino della nostra università ad opera di un anarchico (si tratta di Carlo Falvella, all’epoca studente di Filosofia all’Università di Salerno e vice-presidente del FUAN di quella città, ucciso il 7 luglio ’72 dall’anarchico Giovanni Marini, n.d.c.)». Gli confida che sta meditando l’idea di abbandonare Salerno, aggiungendo queste parole: «Gli amici di là non vogliono discuterne: temono il diluvio. Ad ogni modo non deciderò nulla senza prima averne discusso a lungo e “spietatamente” con te».
Forse l’inno di ringraziamento più sentito lo pronuncia con cuore straziato proprio Gabriele De Rosa, all’indomani della tragedia dell’11 settembre 1972 [6] . Lo storico cattolico si trova in Francia, a Saint-Paul de Vence, quando apprende la notizia dell’incidente stradale. Il rientro in Italia è faticoso, rocambolesco, tormentato dall’angoscia e dal dolore; la commozione ghiaccia la mente, ogni risorsa vitale è spenta, come si può avvertire dalle sue parole.

Lui se n’è andato portandosi via tutta la nostra speranza: i suoi studi filosofici, che ora stavano assumendo una forma più precisa e organica, il progetto di un’alta scuola di studi sociali e religiosi, l’impegno politico-culturale. [...] Lui, Felice Balbo, De Luca: gli uomini che mi hanno aiutato a camminare! A Salerno fu il mio vero sostegno. Quest’università deve a lui quel tanto o poco di serietà, di vita ripiegata su se stessa, di insegnamento pedagogico, vero e luminoso, che conobbe negli ultimi anni. Era la forza del nostro gruppo, il punto di riferimento, il sale delle nostre discussioni: una indimenticabile presenza spirituale e religiosa. Non conobbi da lui nessuna parola formale, accademica, vana. Dove era lui, tutto cambiava e diventava vita. [...] Sulla macchina da scrivere portatile un foglio della traduzione dell’opera di Max Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik. Vicino una lettera dell’editore Guida, una serie di appunti per il suo lavoro di metafisica, una cartolina a colori con un crocefisso, un piccolo vocabolario tedesco [7] .

Nel 1973 l’Università di Salerno lo ricorda con una plaquette a firma di Vittorio Mathieu. Nel saluto introduttivo di Fulvio Tessitore si legge che Vincenzo Filippone-Thaulero «Lo sentimmo e Lo vedemmo: amico sicuro, docente sensibile, illuminato dal signorile sorriso che quasi si smarriva nell’azzurro intenso dei suoi occhi profondi. In quel sorriso – semplice ed enigmatico – ho sempre letto, raccolti assieme, l’impegno morale rigoroso, severissimo, che Lo animava e un ragionato distacco dalle vicende, tristi e liete, che punteggiano la nostra vita di docenti, di studiosi, di uomini. Quel ragionato distacco era, per paradossale che possa sembrare, la misura del Suo impegno, del Suo modo di concepire la vita dello studioso e del docente» [8] . Vittorio Mathieu, nella stessa occasione commemorativa, ricorda il primo incontro avuto con Filippone-Thaulero ai tempi del suo insegnamento a Trieste, ricevendone a prima vista una sensazione di «straniante» eccezionalità: «Dopo due ore, quando ci alzammo per andare a tavola, avevo capito soltanto di trovarmi di fronte a una personalità d’eccezione, ma non certo che cosa volesse, né in che campo, o in che modo, pensasse di applicarsi. Solo più tardi conobbi i suoi studi, per dir così positivi: le ricerche di sociologia fatte “sul campo”, gli studi sul pregiudizio, il lavoro capace di tradursi in un impegno pratico» [9] .
Si aggiunga a questa serie di ricordi anche un appunto di Gianni Vattimo, che conobbe Filippone-Thaulero, giovanissimo, subito dopo il suo soggiorno in Germania, già acutamente ferrato sulle grandi questioni della fenomenologia e dell’ermeneutica del Novecento: «Mi era stato maestro entusiasta in tante cose, a cominciare da Heidegger, che citava con competenza e passione quando ci siamo incontrati per la prima volta a Padova, nel 1959 o 1960, io appena laureato e lui già reduce da un soggiorno di studio in Germania, dove aveva sviluppato il suo studio su Scheler. Dopo tanti anni dalla sua morte, ciò che è vivo in lui, di là dai libri e dagli scritti, è appunto la sua immediata vitalità, il suo appassionato amore: della vita, del pensiero, della verità potrei dire» [10] .
Un anno più tardi arriva proprio da Gianni Vattimo il placet su alcuni manoscritti inediti di Filippone-Thaulero che aveva potuto visionare. In una lettera inviata da Torino, che porta la data 8 marzo 1974, Vattimo scrive a Carla Sabine Kowohl: «Le mie conclusioni sono queste: c’è un gruppo di scritti, principalmente le pagine testate Diario metafisico e tutte quelle relative all’ Etica, che, sebbene di difficile lettura, ritengo che Vincenzo avrebbe desiderato pubblicare tali e quali e così, anche nelle pagine degli appunti, separate dalle altre, ritengo di aver trovato qualcosa che ha una veste abbastanza “definitiva”, e che...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il darsi dell'origine nell'esperienza sociale e religiosa
  3. Indice dei contenuti
  4. Presentazione
  5. Introduzione
  6. I. La sociologia storicista di Luigi Sturzo
  7. II. Razionalità e storia nella sociologia sturziana
  8. III. Sociologia, religione e politica in Luigi Sturzo
  9. IV. La XXXVII settimana sociale dei cattolici d’Italia
  10. V. L’VIII conferenza di sociologia religiosa
  11. VI. Cristianesimo e storia
  12. VII. Pregiudizio e religione
  13. VIII. Analisi culturale ed ecumenismo
  14. IX. Il problema di un’antropologia filosofica
  15. X. Una ricerca su pregiudizio e religione
  16. XI. Il Terzo Congresso mondiale di Sociologia
  17. XII. Sul concetto di Sociologia generale
  18. XIII. Il problema del risentimento in Max Scheler
  19. XIV. Scienze sociali e sociologia
  20. XV. L’autorità in Max Weber
  21. XVI. Il problema dell’autorità in Max Weber
  22. XVII. Conoscenza e sociologia
  23. XVIII. Metafisica della scienza e sociologia
  24. XIX. Riflessioni sull’università televisiva
  25. XX. L’Etica di Nicolai Hartmann