«La questione è di predicare il Vangelo e la dottrina della Chiesa; difficoltà possono sorgere dai Governi atei che si oppongono al Vangelo, o anche da parte di uomini di Chiesa che si esprimono male e inopportunamente» [1] .
Con queste parole, il 6 giugno 1974, mons. Agostino Casaroli invitava il governo spagnolo, nella persona del ministro degli Esteri Pedro Cortina Mauri, a rifondare le relazioni Stato-Chiesa improntandole ai principi della Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II Gaudium et Spes.
Il segretario della Congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari, impegnato a Est nella difficile realizzazione dell’Ostpolitik vaticana, stava infatti incontrando nella cattolicissima Spagna non minori difficoltà e resistenze nell’attuazione della diplomazia di Paolo VI, volta a informare il sistema delle relazioni internazionali ai principi del rinnovamento conciliare [2] .
La caustica battuta di Casaroli, che di fatto equiparava in negativo il materialismo ateo dei regimi dell’Europa orientale con il nazionalcattolicesimo delle dittature mediterranee, sintetizza perfettamente l’orientamento della politica estera della Santa Sede che, durante gli anni Sessanta e la prima metà del decennio successivo, nel segno delle acquisizioni del Concilio sul tema del rapporto Chiesa-mondo e su quello dei diritti umani, tenta d’imprimere un nuovo slancio al mondo cattolico per l’affermazione della democrazia sugli scenari europei ancora sotto il giogo delle dittature, comunista a Est e di estrema destra nel Mediterraneo.
Alla luce di questa considerazione, il presente volume prende in esame quei casi paradigmatici in cui è più evidente il nesso di causa-effetto fra la svolta del Vaticano II e il rinnovamento del sistema politico in linea con la ricezione conciliare, in particolare sotto il profilo concettuale dei binomi religione-democrazia e Chiesa-nazione.
Non si tratta dunque di proporre una nuova storia diplomatica della strategia vaticana della Distensione, circoscritta alla sfera delle dinamiche elitarie e verticistiche delle cancellerie, quanto piuttosto di tentare una ricostruzione multi-prospettica e transnazionale, quasi una Transfergeschichte, dei processi religiosi, culturali e politici innescati dall’ Evento conciliare nella direzione di una promozione su scala europea della democrazia e dei diritti umani.
Partendo dall’analisi del dibattito conciliare, e precisamente dall’angolo visuale degli Episcopati appartenenti ai paesi qui esaminati, la ricerca mira quindi ad approfondire, sulla base della documentazione archivistica, il tema della trasformazione del contesto socio-politico di provenienza per effetto del mutamento delle relazioni fra la Santa Sede e i governi in questione.
Con riferimento al rapporto fra religione e democrazia, il punto di avvio è certamente la discussione conciliare sulla libertà religiosa, che prende le mosse all’interno del dibattito sulla difesa delle prerogative della Chiesa rispetto all’ingerenza dell’ordinamento civile per poi diventare un’affermazione di più ampia portata sul diritto dell’uomo alla salvaguardia della propria libertà interiore [3] .
Come spiegava infatti l’esperto conciliare padre Georges M. Cottier [4] , in una nota del 15 maggio 1963 per il Segretariato generale dell’Episcopato francese, il problema dei Rapporti fra la Chiesa e lo Stato era stato inizialmente preso in considerazione in un capitolo dello schema De Ecclesia dalla Commissione preparatoria, nella prospettiva del giusto riconoscimento dei diritti della Chiesa da parte della società politica; tale questione, però, successivamente scomparsa dal programma indicato dalla Commissione di coordinamento, sarebbe ritornata da un altro punto di vista nello schema XVII (in seguito schema XIII), nel capitolo II dedicato appunto alla libertà religiosa [5] .
Prende dunque spazio il tema del pluralismo religioso come «valore integrante del bene comune che si impone come tale all’autorità politica» [6] , nella consapevolezza che gli Stati moderni, non più “tutori” del cristianesimo come nella società dell’Ancien Régime, non possano che regolare la convivenza civile secondo il parametro del rispetto delle diverse identità religiose e soprattutto sulla base del riconoscimento della dignità umana e del conseguente diritto della persona a rivendicare l’esercizio della propria responsabile libertà, principalmente sotto il profilo dei valori spirituali e religiosi, nei confronti di ogni possibile limitazione coercitiva da parte del pubblico potere [7] .
La Declaratio de libertate religiosa. De iure personae et communitatum ad libertatem socialem et civilem in re religiosa, promulgata da Paolo VI il 7 dicembre 1965, pur essendo tra i testi più combattuti per l’opposizione della minoranza conciliare [8] , rappresenta dunque uno dei grandi traguardi del Concilio sotto il profilo della relazione fra religione e politica e fra Chiesa e democrazia.
L’affermazione del principio della libertà religiosa nei paesi europei ancora segnati dalla dittatura costituisce infatti un fattore decisivo nella generazione di nuovi processi democratici. Come si vedrà nei capitoli successivi, a Est la Dignitatis Humanae apre una breccia nel muro divisorio fra i Blocchi, orientando i cattolici, laddove sono maggioranza, nella battaglia per la difesa dei diritti della Chiesa del silenzio (Polonia) o contribuendo, dove sono invece minoranza, a restituire dignità a una Chiesa invisibile, perché legalmente abolita, e perseguitata dal regime perché considerata straniera (Romania).
Nel Mediterraneo, con la stessa dichiarazione conciliare viene inferto il colpo di grazia ai regimi di Franco e di Salazar, spingendo il cattolicesimo iberico a rinunciare agli antichi privilegi della religione di Stato per scindere il legame deleterio fra fede e potere politico.
In entrambi i contesti appare decisiva la valorizzazione da parte di Paolo VI della funzione degli Episcopati nazionali, così come emerge con forza il ruolo risolutivo del primate della Chiesa polacca Stefan Wyszyn ´ski e del primate di quella spagnola Vicente Enrique y Tarancón.
Non è solo però il rapporto fra religione e democrazia a essere segnato dalla svolta conciliare, ma anche quello più antico e altrettanto problematico fra Chiesa e Nazione.
Come si cercherà di evidenziare nei capitoli che seguono, il forte legame emotivo e simbolico fra fede e autocoscienza della nazione nei paesi a maggioranza cattolica, o autocoscienza di gruppo nel caso di una presenza minoritaria (come in Romania), si declina, al tempo dell’ Aggiornamento, in forme ambivalenti e contraddittorie: di volta in volta esso agisce o come un fattore propulsivo di emancipazione dalla dittatura (a Est), o si traduce in una pastorale di conservazione dell’ordine politico esistente, come in Spagna e in Portogallo, dove la retorica identitaria diventa il campo di tensione fra spinte gerarchico-istituzionali e struttura sociale, caratterizzata dalle esigenze di una società sempre più pluralistica e secolarizzata.
Una rappresentazione emblematica di queste dinamiche è offerta dall’iconografia mariana. In Polonia l’immagine della Madonna Nera di Czestochowa, simbolo di libertà della Chiesa del silenzio, è letteralmente “pedinata” dalla polizia politica per impedirne l’ostensione nelle processioni di massa, come ricorda – in un telegramma del 6 luglio 1966 – l’ambasciatore d’Italia a Varsavia Enrico Aillaud, secondo il quale «la vicenda dell’immagine si presterebbe a considerazioni umoristiche – tanto ridicola appare la caccia ripetutamente datale dalle Autorità, scottate da una “evasione” notturna dell’immagine stessa da Czestochowa, alcune settimane fa, se non coprissero uno stato di tensione che si è manifestata anche in forme più gravi» [9] . In Portogallo, invece, sono frequenti le liturgie politiche, celebrate dal Patriarca di Lisbona attorno all’icona di Nostra Signora di Fatima, con cui il regime di Salazar celebra se stesso come depositario di una missione mondiale di civilizzazione cristiana contro l’eresia comunista [10] .
Come si vedrà, tuttavia, l’apertura della Chiesa del Concilio alle istanze di progresso e di libertà dei paesi in via di sviluppo e dunque la simpatia nei confronti degli indipendentisti delle colonie lusitane dell’Angola e del Mozambico determinerà in Portogallo una precisa presa di posizione del mondo cattolico su una serie di questioni fondamentali strettamente legate fra loro: la fine della presunta legittimazione cristiana dell’imperialismo dell’ Estado novo salazariano fondato sul rapporto fra religione e identità nazionale; il rifiuto dei legami atlantici delle dittature mediterranee cementati dall’anticomunismo e dalla presenza transnazionale di gruppi eversivi di estrema destra; la coscienza dell’inconciliabilità fra colonialismo e apertura all’Europa comunitaria.
In situazioni nazionali del tutto differenti, in cui la posizione della Gerarchia ecclesiastica appare specularmente ribaltata (a Est debole e perseguitata, a Sud onnipotente e complice), i principi teologici stabiliti dal Vaticano II concorrono quindi in eguale misura a infrangere assetti politico-religiosi apparentemente cristallizzati e immodificabili.
Sarebbe in definitiva riduttivo circoscrivere la politica estera della Santa Sede fra la metà degli anni sessanta e la metà degli anni settanta nel semplice schema dell’attività diplomatica svolta dalla Curia a sostegno degli episcopati locali dell’Europa orientale, poiché da sola non esaurisce la complessità insieme teologica e geopolitica della Renovatio ecclesiae del Concilio.