Il trattamento del neonato terminale dal punto di vista bioetico
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Il trattamento del neonato terminale dal punto di vista bioetico

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Il trattamento del neonato terminale dal punto di vista bioetico

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Questo libro studia le questioni etiche che insorgono nel trattamento di esseri umani malati, nell'immediata "vicinanza" alla nascita, cioè nella fase prenatale e immediatamente postnatale. Il titolo potrebbe dare l'impressione che tutta l'attenzione si concentri su ciò che è eticamente corretto fare con il neonato al quale rimangono poche ore di vita. Questa, però, è solo la parte più appariscente del problema che, in realtà, riguarda anche la tendenza, abbastanza comune, a disfarsi del feto portatore di malattie o disfunzioni, vere o supposte tali. Altri temi cruciali del dibattito bioetico vengono analizzati in relazione a questo problema e conducono a condividere il giudizio espresso nella Presentazione: «La Bioetica, che orienta al rispetto della vita, è garanzia per la scienza nella misura in cui è garanzia per il rispetto della piena dignità dell'essere umano e del rispetto del primo dei suoi diritti, il diritto alla vita. Dobbiamo essere grati a chi conforta con la ricerca presente anche la retta formazione della coscienza dei professionisti della medicina e dei familiari coinvolti» (Cardinale Elio Sgreccia).

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788838247453

1. Antecedenti del problema

I dibattiti in materia di bioetica si sono concentrati molto su due “segmenti” della vita umana: quello dell’inizio e quello della fine della vita, con la tendenza a restringere sempre più l’ampiezza di questi segmenti. Così, l’intervallo temporale dell’inizio si è concentrato in sostanza sui problemi che riguardano la “procreazione assistita”. Al polo opposto, relativamente alla morte del paziente, si concentrano problemi come quello dell’eutanasia, dell’accanimento terapeutico, delle cure palliative, del “testamento biologico”, tra gli altri.
Tuttavia, da qualche tempo, si è manifestato nella bioetica un interesse relativo ai problemi concernenti l’essere umano, che si trova nelle fasi che potremmo considerare come “di poco antecedente” o “di poco successiva” alla nascita, fasi che possiamo anche chiamare della “vita fetale” e della “vita neonatale”.
Nel primo di questi settori, c’erano, da tempo, controversie relative, in particolare, alla diagnosi prenatale e all’aborto, però, in tempi più recenti, si sono sviluppati studi e dibattiti sui bambini tradizionalmente chiamati “prematuri” e che adesso sono definiti come “di peso eccessivamente basso”. I progressi della neonatologia hanno permesso di garantire la sopravvivenza di bambini nati con peso inferiore ai 500 grammi [1] .
Tuttavia, questo successo ha suscitato problemi etici che riguardano quella che impropriamente viene chiamata “rianimazione” di questi neonati. Secondo una certa posizione etica, questi avrebbero un rischio molto elevato di presentare disfunzioni e patologie molto gravi per il resto della loro vita, quindi è moralmente corretto lasciarli morire, invece di condannarli a una vita infelice. Secondo un’altra posizione etica, però, poiché non c’è nessuna possibilità di diagnosticare con sicurezza, al momento della nascita, se un bambino avrà o no le gravi malattie menzionate, è moralmente obbligatorio “rianimarli” tutti per non lasciare morire quelli che in realtà non presentano tali patologie (sebbene la loro percentuale sia bassa). In tempi ancora più recenti si sta sviluppando una terza prospettiva che, da un lato, è incoraggiata dai progressi molto importanti raggiunti nel campo delle terapie prenatali e neonatali e d’altra parte, riflette un modo molto diverso di considerare le anomalie e le disfunzioni e l’evento stesso della morte.
Il primo punto di vista mette in risalto che, persino nel caso di un feto al quale siano state diagnosticate malformazioni e disfunzioni serie, sono possibili oggi, e lo saranno ancora di più domani, interventi terapeutici e chirurgici capaci di curare o alleviare le patologie, che potrebbero essere ridotte a proporzioni più tollerabili, ricorrendo a trattamenti adeguati dopo la nascita. Tutto questo porta a razionalizzare, almeno in parte, la paura della disfunzione o dell’invalidità, quando la situazione realmente presenta tali rischi, senza trascurare certe possibilità di limitarli.
Un’altra cosa è la paura dell’invalidità o della malformazione che spinge a rifuggire a tutti i costi questo rischio, per quanto piccolo possa essere. Questa paura affonda le sue radici in un atteggiamento esistenziale che rifiuta qualsiasi forma e ampiezza di dolore e di limite, soprattutto fisica e che si è tradotta nella nozione molto vaga di “qualità di vita”; per questo, molti accettano la massima per cui la morte è meglio di una vita di qualità scadente. L’atteggiamento esistenziale opposto riconosce che la vita è una mescolanza di gioie e dolori, di salute e malattie, che ogni essere umano ha le sue qualità e i suoi limiti, che niente, né nessuno è perfetto, sotto tutti i punti di vista; la vita è buona per se stessa e si può essere felici a dispetto di molte sofferenze e limitazioni. In quest’ottica (che potrebbe essere condivisa anche da chi non accetta il principio assoluto della “sacralità della vita”) si riconosce che ogni essere umano ha il diritto morale di vivere e morire con il corredo di qualità e di limiti concreti che gli sono toccati, senza che nessuno possa decretare che lui “non merita di vivere” in certe condizioni. Questo tipo di impostazione sta trovando oggi una valorizzazione crescente e si è tradotta in una specie di nuovo principio etico, denominato “principio di vulnerabilità”, in virtù del quale i limiti di vario tipo che colpiscono ogni essere umano, lungi dal costituire ragioni per discriminarlo negativamente (e persino negargli il diritto di vivere), si trasformano in un diritto di protezione di fronte agli altri esseri umani, i quali, di conseguenza hanno il dovere morale di offrire questa protezione.
Tutto ciò spiega come le persone che si occupano dei feti e dei neonati colpiti da gravi malformazioni, considerino un impegno morale il cercare di curare o alleviare queste imperfezioni e, al tempo stesso, accettare e custodire l’esistenza di questi esseri umani feriti. E accettare significa accogliere il limite più grande: la morte. È la prospettiva etica che troviamo in un discorso e in una pratica, recenti, che per brevità chiameremo “trattamento del neonato terminale”. Riassunta in poche parole, questa prospettiva si può esprimere dicendo che un feto, che sia colpito da anomalie o patologie tanto gravi da permettere di prevederne la morte, pochissimo tempo dopo la nascita, merita di essere accompagnato fino alla fine del suo tragitto di vita e, dopo la sua nascita, di essere “accompagnato” come un “paziente terminale” nel corso delle poche ore di vita neonatale. A prima vista un atteggiamento di questo tipo sembra assurdo. Tuttavia, approfondendo il significato e i differenti aspetti della questione, è possibile vedere il problema sotto una luce differente e comprendere come le persone (medici, personale sanitario e coppie) che hanno vissuto concretamente questa opzione, abbiano potuto trovarvi un significato positivo.


[1] Cfr. http://www.bebesymas.com/noticias/sobrevive-bebe-de-475-gramos ; http://noticias.terra.com.mx/mexico/estados/bebe-logra-sobrevivir-pesando-600-gramos-al-nacer-en-jalisco,327045d2b6873410VgnVCM10000098cceb0aRCRD.html ; http://www.bebesymas.com/otros/un-bebe-prematuro-de-300- gramos-ha-sobrevivido-sin-complicacione

2. Alcuni aspetti paradossali dell’argomento e la loro soluzione

È necessario eliminare alcuni ostacoli di tipo concettuale dovuti al fatto che le discussioni abituali sul trattamento del paziente terminale riguardino pazienti adulti e anziani. Pazienti che sono arrivati al “termine” della loro vita e sono sul punto di incontrare la “morte”.
Sembra, pertanto, paradossale, mettere in relazione il concetto di “inizio” della vita (che si applica al neonato) con il concetto di “termine” della vita, così come il concetto di “morte” con il concetto di “nascita”. Tuttavia, le contraddizioni tra i concetti spariscono di fronte a situazioni reali. In particolare, il concetto di morte non implica un riferimento al tempo (cioè all’età di colui che muore), dato che qualunque essere vivente può morire in qualunque momento della sua esistenza e a poco serve la distinzione tra morte “naturale” e un altro tipo di morte (che potremmo chiamare “accidentale”) dato che non esistono criteri precisi per distinguere tra le due.
Per fortuna, non dobbiamo risolvere questo genere di problemi, dato che la nozione di paziente terminale si applica per l’appunto al caso di malati, cioè di persone che sono colpite da una malattia molto seria e la cui conclusione, a breve termine, sarà la morte. A questo riguardo appare evidente che molte malattie possono colpire il feto prima della sua nascita ed essere individuate, con la previsione che, se arriva a vedere la luce, sarà destinato a morire in poco tempo. Questo significa che sarà un paziente terminale sin dal mero inizio della sua vita. Di conseguenza, non sembra strano che si possano applicare, a questo neonato, molte, se non tutte, le problematiche bioetiche che si applicano al caso generale del paziente terminale.
Tutto ciò potrebbe essere usato come argomento per dire che, alla fine dei conti, il caso del neonato terminale non costituisce un problema nuovo e che non si vede il motivo per cui meriti, dal punto di vista bioetico, un trattamento speciale.
Questa considerazione intuitiva si scontra, però, con due fatti: uno concreto e uno teorico. Quello concreto è il seguente: molte persone stanno lavorando e si stanno preoccupando, da qualche tempo, di questo dilemma; hanno fondato associazioni specializzate e promuovono attività pratiche destinate a dare una soluzione “corretta” a questo problema specifico, e tutto questo risulterebbe incomprensibile se si trattasse di un problema generico [1] . Il fatto teorico consiste in questo: nel problema si trovano in relazione tra loro diverse questioni bioetiche, che non si presentano nel caso “generale” del paziente terminale. Sono appunto le questioni che, in modo implicito, motivano gli sforzi e l’impegno delle persone e delle associazioni che si occupano di questo problema ed è importante renderle esplicite, cioè, analizzarle nelle loro dimensioni specificamente bioetiche e non solo pratiche. Questo è ciò che si propone, dal punto di vista teorico, questo volume.



[1] Si tratta, in particolare, di iniziative come quella de “La Quercia Millenaria” della quale ci occuperemo nella seconda parte di questo libro.

II. QUESTIONI BIOETICHE LEGATE AL TEMA

Come abbiamo già evidenziato nell’introduzione, il tema del neonato terminale è legato, in modo più o meno diretto, ad altri temi della e bioetica. Alcuni di essi sono di natura tanto generale e preliminare che non avrebbe alcun senso discuterli ampiamente in quest’opera. Pertanto, sarà sufficiente dedicare loro una breve menzione.

1. Il tema dell’aborto

È evidente che il problema del neonato terminale si presenta nel caso di feti nei quali sono state individuate malformazioni gravi e che, tuttavia, non sono stati abortiti. Pertanto, la soluzione del “problema dell’aborto” in un determinato senso (cioè, nel senso di non praticarlo) è preliminare a qualunque discussione sul tema del neonato terminale. Tuttavia, sarebbe ugualmente superficiale trascurare certi effetti indiretti che una corretta percezione del problema del neonato terminale può avere, sulla decisione di abortire o non abortire. Cioè, se una donna percepisce il feto come il proprio figlio e all’improvviso le si palesa la certezza di una malattia incurabile che, al massimo, gli consentirà poche ore di vita dopo la nascita, è ovvio che si sentirà combattuta tra il desiderio di non uccidere suo figlio e l’incubo di portare avanti una gravidanza fastidiosa e “inutile”, il che vuol dire una tremenda angoscia psicologica. Però, se questa donna riesce a percepire il feto come suo figlio, malato e debole, al quale si possono offrire solo poche cure, potrà riuscire ad amarlo e accoglierlo, per accompagnarlo fino alla morte e in tal modo potrà decidere di non abortire. Mi si potrebbe obiettare che questo discorso non ha validità dal punto di vista “strettamente etico”, dato che, eticamente parlando, l’aborto si deve evitare “a ogni costo”; è vero, però, che questo imperativo si basa sul fatto che il feto è un essere umano a pieno titolo e il cambiamento di atteggiamento della madre corrisponde proprio a una presa di coscienza profonda di questo fatto, senza la quale l’imperativo etico risulta semplicemente un’imposizione. Si noti che non si tratta di un aspetto secondario, date le sue conseguenze su certe “distinzioni”, che spesso si fanno, in merito alla liceità morale dell’aborto.
Di fatto, la motivazione di coloro che hanno promosso le riflessioni e le iniziative nel settore del neonato terminale è stata quella di presentare un’opzione alternativa a un tipo di aborto che trova accettazione da parte di molte persone che sono contrarie all’aborto “in generale”. Queste persone ammettono che “eccezionalmente” sia moralmente lecito abortire un feto colpito da una malattia molto grave, soprattutto nel caso di una malattia incompatibile con la vita. Si tratta di quello che a volte chiamano “aborto terapeutico”. Queste persone pensano che sia “inutile” e senza senso portare avanti una gravidanza, il cui frutto sarà (nel migliore dei casi) un bambino destinato a soffrire e a morire in pochi giorni o in poche ore. Però, applicando al caso di questo feto-bambino lo stesso tipo di considerazione che si applica al malato terminale (che è destinato a morire in breve tempo), si stabilisce un’identità di dignità tra i due, che implica lo stesso atteggiamento etico. È questo il punto bioeticamente rilevante che, com’è chiaro, è indipendente dal problema dell’aborto e merita di essere distinto ed esaminato per se stesso [1] .




[1] La letteratura sull’aborto è vastissima e, non essendo questo un tema che tratteremo esplicitamente, ci limitiamo a indicare solo alcuni titoli. La condanna morale dell’aborto è stata costante nella dottrina morale della Chiesa Cattolica (sebbene non soltanto in essa) e un recente testo di facile comprensione in merito può essere quello della Conferenza Episcopale Spagnola - Comitato Episcopale per la difesa della vita (1991). Questa posizione si basa sul principio della sacralità della vita e della sua indisponibilità da parte degli uomini. Gli autori favorevoli all’aborto si collocano in un contesto concettuale differente che, in particolare, afferma la disponibilità della vita da parte dell’uomo. Un libro tradotto in spagnolo nel quale si presenta questo contesto è Dworkin (1994). Lo stesso tipo di prospettiva si trova in Pérez Tamayo (2002), mentre un libro che comprende alcune “controversie” sull’aborto è quello coordinato da Valdés (2001a), nel quale si pubblicano contributi più articolati a favore dell’aborto, della stessa Valdés (2001b) e di Wertheimer (2001).

2. Le diagnosi prenatali

Ogni coppia desidera avere un figlio sano e risulta difficile anche il solo pensi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. IL TRATTAMENTO DEL NEONATO TERMINALE DAL PUNTO DI VISTA BIOETICO
  3. Indice dei contenuti
  4. Presentazione
  5. Introduzione
  6. Prima parte: LA CORNICE TEORICA
  7. I. DELIMITAZIONE DEL PROBLEMA
  8. 1. Antecedenti del problema
  9. 2. Alcuni aspetti paradossali dell’argomento e la loro soluzione
  10. II. QUESTIONI BIOETICHE LEGATE AL TEMA
  11. 1. Il tema dell’aborto
  12. 2. Le diagnosi prenatali
  13. 3. L’eutanasia
  14. 4. Le cure palliative
  15. 5. Il trattamento dei neonati con peso estremamente basso
  16. III. ALCUNE PRECISAZIONI SULL’EUTANASIA
  17. IV. LE CURE PALLIATIVE
  18. 1. I trattamenti medici palliativi
  19. 2. Le cure palliative
  20. 3. Un cambio di paradigma nella medicina?
  21. V. L’EUTANASIA PEDIATRICA
  22. 1. Il capitolo perinatale della bioetica
  23. 2. Il problema dell’invalidità
  24. 3. Il protocollo di Groningen
  25. 4. Una discussione generale
  26. VI. LA CURA DEL NEONATO ESTREMAMENTE PREMATURO
  27. 1. Le tappe della neonatologia
  28. 2. La nascita pretermine
  29. 3. Rianimare o non rianimare?*
  30. 4. Alcune conseguenze ragionevoli
  31. 5. Alcuni criteri adottati nel mondo
  32. 6. Chi prende le decisioni?
  33. 7. La paura della disabilità
  34. VII. IL TRATTAMENTO DEL NEONATO TERMINALE
  35. 1. Una nuova prospettiva
  36. 2. Il principio di vulnerabilità
  37. 2.1. I Principi di Barcellona
  38. 2.2. L’ingresso graduale del principio di vulnerabilità in Bioetica
  39. 3. Il nuovo atteggiamento verso la diagnosi prenatale
  40. Seconda parte: ANALISI E DISCUSSIONE DI SITUAZIONI CONCRETE
  41. VIII. INIZIATIVE CONCRETE REALIZZATE IN QUESTO CAMPO: L’ESPERIENZA DE “LA QUERCIA MILLENARIA”*
  42. 1. Presentazione
  43. 2. La storia de “La Quercia Millenaria”
  44. 3. La storia di Gregorio*
  45. 4. Il caso di Alice
  46. IX. IL FETO COME PAZIENTE
  47. 1. Introduzione
  48. 2. La terapia fetale
  49. 3. Terapia peri e post-natale
  50. 4. Conclusioni
  51. CONCLUSIONI GENERALI
  52. Riferimenti bibliografici