Stare con il Signore, andare verso i fratelli
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Stare con il Signore, andare verso i fratelli

Scritti sulla presenza pubblica della Chiesa e dei cattolici

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Stare con il Signore, andare verso i fratelli

Scritti sulla presenza pubblica della Chiesa e dei cattolici

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«Sono passati ormai quasi due anni dalla morte del Card. Nicora, ma la sua memoria rimane viva in tutti coloro che hanno avuto la grazia di conoscerlo e, direi, anche solo di incontrarlo [...]. La sua fu una personalità capace di intrecciare dimensioni tra loro distinte, come una vita interiore schiva e riservata ed un'elevata sensibilità pastorale, una ricca umanità ed una formazione giuridica di altissimo livello. [...] Tanti erano i suoi interessi e tanti i risultati ottenuti, sebbene, come traspare dalle pagine di questo prezioso volume, il ruolo per il quale
verrà sempre ricordato è l'impegno profuso nel suo incarico di Co-Presidente per la Parte ecclesiastica della Commissione Paritetica italo-vaticana incaricata di predisporre, nel quadro della Revisione del Concordato Lateranense, la riforma della disciplina relativa ai beni e agli enti ecclesiastici, e alla sua successiva – e forse ancora più difficile – fase attuativa. In quegli anni il Card. Nicora ha speso ogni energia, senza alcuna riserva, per affrontare e risolvere, con spirito di innovazione, gli snodi essenziali della nuova amministrazione
ecclesiastica che si andava configurando in quel periodo.» (dalla Prefazione del Card. Parolin)

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Informazioni

1. CARITÀ E POLITICA. PER UN SERVIZIO DEI CRISTIANI ALLA COMUNITÀ CIVILE*

*Carità e Politica. Per un servizio dei cristiani alla comunità civile, Tipse stampa, Vittorio Veneto 1991.


La fede ispira e sostiene scelte e comportamenti diversi non solo nella vita personale ma anche nelle relazioni con le persone e nella vita sociale.
Dalla Lettera di san Paolo apostolo a Tito (2,11-3,8).

«È apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo; il quale ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone. Questo devi insegnare, raccomandare e rimproverare con tutta autorità. Nessuno osi disprezzarti! Ricorda loro di essere sottomessi ai magistrati e alle autorità, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona; di non parlar male di nessuno, di evitare le contese, di esser mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini.
Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda. Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna.
Questa parola è degna di fede e perciò voglio che tu insista in queste cose, perché coloro che credono in Dio si sforzino di essere i primi nelle opere buone. Ciò è bello e utile per gli uomini».

Teniamo come punto di riferimento per la nostra riflessione spirituale il testo della lettera dell’apostolo Paolo al discepolo Tito, che vi è stato appena proclamato.
È opportuno darne un breve ambientamento e poi riprendere, passo passo, le diverse affermazioni dell’Apostolo, soffermandoci in maniera particolare sul punto centrale che, come vedremo, riguarda direttamente il problema del rapporto fra i cristiani e le istituzioni civili e politiche.

1. Siamo nell’anno 63 o 66 dopo Cristo, così ci dicono gli studiosi. Tito, giovane collaboratore dell’apostolo Paolo, è stato lasciato da Paolo stesso nell’isola di Creta, perché, soggiornando nell’isola, porti, a poco a poco, a completamento l’organizzazione delle comunità cristiane che erano nate dal primo annuncio del Vangelo che nell’isola era già risonato. Qua e là, nelle diverse cittadine, erano nati piccoli gruppi di cristiani. Si tratta adesso di aiutarli a riprendere sistematicamente la Parola ascoltata e a costruire, a poco a poco, il loro vivere insieme da credenti, da cristiani secondo tracce sicure. Tito è stato mandato per questo.
Ma l’Apostolo, che si sente come il padre, il generatore di queste comunità, non è tranquillo; vorrebbe andare di persona a riprendere il rapporto con essi. Non potendolo fare, sente il bisogno almeno di scrivere al suo collaboratore e inviato, indicandogli, attraverso una serie di raccomandazioni, ciò che egli deve fare perché queste comunità cristiane possano camminare con sicurezza e con slancio, attuando il messaggio evangelico nella vita.
Questa lettera di Paolo a Tito è solitamente connessa con la prima e la seconda lettera a Timoteo – un altro giovane collaboratore di Paolo – e le tre lettere insieme sono chiamate “Lettere pastorali”, proprio perché il tema fondamentale che le percorre è questo complesso di raccomandazioni date dall’Apostolo per la edificazione pastorale delle prime comunità cristiane.

2. Queste raccomandazioni apostoliche sono in gran parte dedicate a illuminare alla luce del Vangelo, i rapporti interni alla comunità cristiana. Ma non stupisce che, sia pur con una intensità minore, compaia anche il profilo che esamina il rapporto di queste prime comunità cristiane con la società pagana circostante. Questi cristiani non vivono fuori dal mondo; il mondo in cui vivono è una società pagana, è la società greco-romana dell’epoca imperiale del primo secolo dopo Cristo. È evidente che nascono problemi di atteggiamenti, di corretti rapporti tra il vivere la fede e il relazionarsi con la società circostante.
L’Apostolo cerca di proiettare il fascio della luce del Vangelo anche su questi aspetti e non ci deve stupire che, nell’ambito di tutto questo, appaia ad un certo momento anche il problema del come il cristiano deve rapportarsi nei confronti di quella forma organizzata della società civile che è l’istituzione civile e politica che la regola e la disciplina.

3. L’annuncio fondamentale da cui tutto è nato è quello che apre il brano che abbiamo ascoltato: «È apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (2,11). Questo è “l’evangelo”, questa è la buona, la lieta notizia. È apparsa. Il testo greco dice epephane: sentite la radice di “epifania”, la festa che abbiamo da non molto tempo celebrato. Nella pienezza dei tempi, finalmente, all’attesa di una umanità fatta schiava dal peccato e votata alla morte, ha risposto l’iniziativa di Dio e si è manifestata come grazia benevola e misericordiosa che ha assunto le fattezze e il volto umano del Figlio stesso di Dio fatto uomo per noi. È lui la grazia del Dio vivente, che si è incarnata per la nostra salvezza e apporta salvezza a tutti gli uomini.
Questo annuncio sta a fondamento di tutto l’impegno cristiano e da questa verità fondamentale si sprigionano alcuni dinamismi, che sono caratteristici e segnano l’esperienza della fede cristiana. Questa grazia ci insegna, “ci educa a” (il testo greco infatti dice paideuousa, del verbo paideuein). Due sono le linee a cui ci impegna: da un lato «rinnegare l’empietà e i desideri mondani» (2,12), dall’altro «vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (2,12-14).

4. Sono le due tensioni fondamentali di ogni esperienza cristiana: la “conversione”, intesa come rinnegamento di una vita empia, cioè di una vita vissuta nella pretesa di eliminare Dio dal proprio orizzonte e di mettere se stesso al centro del mondo, piegando ogni altra realtà al proprio uso e consumo e facendo degli altri uomini lo sgabello del proprio orgoglio superbo, pronti a strumentalizzarli ai propri fini. Questo modo di vivere empio finisce poi per farci schiavi dei desideri mondani. Si tratta di rinnegare tutto questo con nettezza, con chiarezza, con coraggio.
E la seconda linea dinamica è quella di imparare a vivere in questo mondo – questo mondo che è tutto preso da questa mentalità empia e soggetta ai desideri mondani – in “una maniera nuova”, cioè «con sobrietà, con giustizia e con pietà nell’attesa della beata speranza».
Come si vede, la novità cristiana è destinata a investire tutte le forme di relazioni che l’uomo vive. La relazione con se stesso: la sobrietà: questa capacità di non essere dominato dalle cose, dai desideri mondani, ma di vivere con una interiore profonda libertà che ci fa veramente padroni di noi stessi e delle cose e ci aiuta a disporre la nostra vita secondo ciò che è giusto e buono; la giustizia che deve regolare le relazioni con gli altri sul modello che Dio ci propone; la pietà intesa come capacità di unificazione profonda della vita che deriva dal riferire tutto a Dio, come a centro supremo della nostra esistenza, colui che dà senso e sapore ad ogni cosa.

5. Così bisogna vivere dentro a questo mondo: in maniera nuova, densa, cristiana. E lo possiamo fare nella misura in cui teniamo alta «l’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (2,13). C’è stata una prima manifestazione, quella nella carne; noi attendiamo la seconda manifestazione del Figlio di Dio salvatore del mondo nella gloria, quando Egli, a compimento della storia del mondo, ritornerà e porterà a pienezza l’azione salvatrice iniziata da Dio, facendo sì che tutto sia finalmente e definitivamente riportato a Dio come al centro e al cuore di tutta la realtà e l’esistenza eterna degli uomini consista finalmente in una perfetta e beatificante comunione di vita con il Dio salvatore.

6. «Questo devi insegnare, raccomandare, e rimproverare con tutta autorità. Nessuno osi disprezzarti» (2,15). Tito è un giovane collaboratore di Paolo e la sua giovane età, e forse una sua parziale inesperienza pastorale, non può essere motivo di disprezzo, perché ciò che conta nella testimonianza di Tito, nella sua azione pastorale, è la fedeltà alla parola apostolica. Questa parola apostolica deve essere da tutti accolta e rispettata, se vogliono essere autenticamente cristiani ed edificare insieme delle vere comunità di chiesa.

7. A questo punto l’apostolo prende in esame ciò che particolarmente ci interessa. Tra le cose che Tito deve ricordare ai cristiani dell’isola di Creta ci sono anche queste: «Ricorda loro di esser sottomessi ai magistrati e alle autorità, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona; di non parlar male di nessuno, di evitare le contese, di essere mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini» (3,1-2).
Proviamo a riprendere con un poco più di precisione questo punto, perché è il cuore della nostra riflessione.
Nel mondo, in questo mondo nel quale il cristiano è chiamato a vivere in maniera nuova, c’è anche “la politica”, ci sono anche i magistrati e le autorità; e allora occorre che anche questa dimensione dell’esistenza umana sia investita dalla forza di novità che viene dall’annuncio dell’evento cristiano: «è apparsa la grazia di Dio salvatrice» (2,11). Come? Qual è l’atteggiamento che i cristiani autentici sono chiamati a tenere di fronte alla realtà dell’istituzione sociale e politica dentro la quale essi vivono?
Ci sono tre affermazioni, in questo brano, che meritano di essere riprese con attenzione e sono collocate in una sorta di progressione dal meno al più.
C’è innanzitutto però da notare un particolare.
Il verbo che regge questa frase è “ricorda loro”. Nel testo greco è hupomimneske che vuol dire più esattamente: “richiama alla loro memoria”; quello che si dice di una cosa che non è ascoltata per la prima volta, che già è stata annunciata, che però ha bisogno di essere rinverdita nella memoria perché è importante, è significativa e non può rischiare di essere consumata dal passare del tempo. Ciò che Tito deve fare è risuscitare nella memoria dei cristiani di Creta delle verità che non adesso, ma fin dall’inizio furono a loro annunciate. Dunque vuol dire che un insegnamento cristiano sul rapporto del cristiano con la politica apparteneva già al primo insegnamento della dottrina della fede. Adesso si tratta di rinverdirlo, di riproporlo con convinzione e con autorità.

8. Che cosa allora deve richiamare alla memoria dei cristiani il discepolo di Paolo? La prima cosa è di «essere sottomessi ai magistrati e alle autorità» (3,1). Quindi, il primo atteggiamento che il cristiano deve tenere di fronte all’istituzione è la sottomissione. Il verbo greco è hupotassesthai, che vuol dire: “disporsi sotto”, “ordinarsi sotto”. Il primo atteggiamento, dunque, dei credenti di fronte all’istituzione sociale e politica non è la ribellione, ma la sottomissione. La cosa potrebbe crearci un qualche sconcerto, abituati come noi siamo piuttosto ad una cultura critica verso le istituzioni. Però è un dato che dobbiamo rilevare. Certo, dobbiamo rilevarlo con finezza: siamo in un’epoca in cui non esistevano né potevano esistere quelle condizioni politiche complessive che sono tipiche della nostra epoca e che riflettono, come tutti sappiamo, l’idea di una sovranità popolare, che, vissuta in pienezza, diventa partecipazione democratica e capacità e impegno di tutti i cittadini a determinare, per libero consenso, l’organizzazione della vita sociale. Allora eravamo in una situazione che potremmo definire autocratica. La struttura imperiale dell’epoca prevedeva che la partecipazione al governo effettivo della cosa pubblica fosse riservata a un ristretto ceto di persone, mentre la gran massa del popolo non aveva accesso a strumenti di democrazia politica.
Dunque, allora la “sottomissione all’autorità e ai magistrati” era la forma più semplice e nello stesso tempo più esemplare di lealismo politico; era il modo di riconoscersi dentro alla società politica dell’epoca in termini corretti, soggetti all’autorità dei magistrati e alle autorità, che erano poi gli imperatori di Roma e i diversi nuclei di autorità amministrative, variamente organizzati secondo la complessa strutturazione del potere imperiale, che arrivava fino ai territori lontani delle province.
Però, pur dovendo sottolineare questa situazione caratteristica, resta pur sempre un valore dentro questa affermazione, che deve essere eloquente anche per noi. Noi possiamo, dobbiamo legittimamente sostituire ai “magistrati” e all’“autorità” in primo luogo la legge. Noi viviamo in una situazione caratterizzata dalla struttura del cosiddetto stato di diritto, dove i magistrati e le autorità non sono, non dovrebbero essere, arbitri incontrollati dalle determinazioni che vengono date per l’ordinamento della società, ma organi che esprimono, secondo precise responsabilità reciprocamente controllate, il potere superiore della legge che vale per tutti.
Allora, almeno alla legge intesa così, noi dobbiamo essere sottomessi, perché, se riflettiamo bene, nella legge si esprime una esigenza di ordine che dovrebbe provvedere al bene di tutti e di ciascuno. Infatti, il compito dell’istituzione politica è quello di organizzare la società in modo tale che, per quanto umanamente possibile in un determinato contesto storico, le relazioni tra gli uomini siano disciplinate secondo linee che creino le condizioni per cui ciascuno, e tutti insieme, possano esprimere al meglio la pienezza delle proprie umane possibilità.
Il senso della legge è questo, e i provvedimenti amministrativi, che poi via via la attuano, dovrebbero mirare a creare quelle condizioni comuni di organizzazione sociale che traducono e presidiano in concreto quello che la dottrina sociale della Chiesa ama chiamare il “bene comune”. Se intendiamo così il significato della legge e dell’apparato amministrativo della cosa pubblica, allora l’esigenza di essere sottomessi, come primo, radicale, costitutivo atteggiamento del cristiano, prende tutto il suo significato pregnante e profondo.
In fondo, nel sottomettermi alla legge, mi sottometto agli altri, riconosco gli altri nella loro dignità personale, riconosco il valore di questo nostro vivere e crescere insieme e adeguo la mia volontà a quelle esigenze essenziali e fondamentali che servono a garantire le condizioni del bene di tutti e di ciascuno. Se la sottomissione è vissuta in questa prospettiva, non è qualcosa che vada contro la dignità del cristiano e la libertà a cui l’ha chiamato la fede in Gesù Cristo, ma, all’opposto, è una forma altissima di manifestazione di quella libertà paradossale del cristiano che è libertà di mettersi reciprocamente a servizio gli uni degli altri nella logica della giustizia e della carità. Allora il cristiano, di fronte all’istituzione civile e politica, riconosciuta secondo quest’ordinamento fondamentale che risponde all’originario disegno di Dio creatore e provvidente, liberamente accetta di mettersi in atteggiamento di sottomissione, cioè riconosce che l’esigenza espressa dalla legge trascende, supera, il suo ambito limitato, che rischia di diventare personalistico e privilegiato, ed esige un adeguamento, una partecipazione che concorre a creare e a garantire le condizioni per il bene di tutti.
Dunque il cristiano non è un ribelle per natura e l’obbedienza civile è una virtù. Qualche anno fa andò di moda un libretto che affermava esattamente il contrario, scritto peraltro da un cristiano di altissima levatura, Don Milani. Qui è questione di intenderci. Di intenderci però su un parametro oggettivo che è la parola di Dio.
La Parola che stiamo meditando ci chiede di essere sottomessi ai magistrati e alle autorità. Ovviamente, sempre che i magistrati e le autorità, a loro volta, vivano la loro funzione in coerenza con la struttura essenziale che, secondo il disegno creatore di Dio, caratterizza la funzione medesima; ed è quello che ho cercato poc’anzi di sottolineare. Quando l’istituzione svolge il suo compito correttamente – sia pur con gli inesorabili limiti legati alla nostra umana condizione, che impediscono la perfezione assoluta in questo mondo – quando c’è una sincera ricerca del bene comune e quando questa ricerca si traduce nella norma e nei provvedimenti che la attuano, il cristiano deve obbedienza.

9. Qui nascerebbe già una serie di spunti che non posso percorrere, altrimenti non finiamo più. Ma segnalo, almeno, due direzioni di possibile riflessione: da un lato nasce tutto il problema della educazione di una coscienza civile, che sappia presentare alla coscienza dei cristiani la legge secondo questo valore originario e profondo, espressione della esigenza del bene di tutti e dunque condizione di giustizia e di fraternità in concreto; e dall’altro si pone la questione di come coloro che sono portatori dell’autorità legislativa e amministrativa sanno rendere vera questa esigenza intrinseca della legge e tradurla e articolarla in una linea di autentica garanzia del bene comune.
Sono temi sui quali occorrerebbe esercitarsi meglio anche tra di noi cristiani. È troppo facile lasciarci andare al lamento desolato o alla critica rabbiosa, atteggiamenti ambedue troppo istintivi e superficiali. Il vero problema è un altro: chiederci quali sono le condizioni per far sì che nei cittadini cresca una coscienza che li abiliti progressivamente a cogliere il valore e il senso della norma, come presidio del bene di tutti; e fare in modo che chi è depositario democraticamente del potere legislativo e amministrativo traduca in atto veramente le esigenze di bene comune che stanno al fondo di tutto, e che sole danno alla legge e a coloro che ne ricevono potere – i magistrati e le autorità – titolo a piena legittimità e quindi anche a una cordiale disponibilità da parte dei cittadini.
C’è un enorme lavoro educativo da fare, da questo punto di vista, che deve non soltanto far leva sugli stessi meccanismi istituzionali che una società evoluta cerca di darsi, ma soprattutto radicarsi in una formazione delle coscienze che siano sempre più chiaramente illuminate dalla parola evangelica, ripresa e sviluppata dalla dottrina sociale della Chiesa.
Comunque, il primo atteggiamento che raccogliamo è questo: essere sottomessi, hupotassesthai, disporsi sotto. E notate (lo accenno soltanto): tutte le volte che nel Nuovo Testamento si parla di una relazione interpersonale dei cristiani, il verbo ricorrente è questo hupotassesthai: sottomettersi, fino al vertice della Lettera agli Efesini che dice «sottomettetevi gli uni agli altri nel timore di Cristo» (5,21). La preoccupazione degli autori del Nuovo Testamento infatti è questa: la chiamata alla fede non può essere un motivo per mettere in crisi e per far saltare le relazioni sociali nelle quali il cristiano è inserito. La chiamata alla fede non è chiamata all’anarchia, nel nostro caso – così come per il marito e per la moglie non è chiamata a mettere in crisi la struttura della vita familiare –; la chiamata alla fede esprime la sua novità non contro, ma al di dentro delle relazioni in cui il cristiano è inserito, facendole nuove dal di dentro e portandole a esprimere in pienezza quella verità originaria che Dio ha inscritto dentro di esse. Questo, che vale per tutte le relazioni umane, vale anche per le relazioni sociali. Contro il pericolo che i cristiani venissero considerati una setta anti-statale, che invitava alla rivolta contro l’autorità politica, gli apostoli sottolineano con forza il discorso della sottomissione, non per impedire alla novità cristiana di esprimersi, ma per incanalarla nella sua prospettiva giusta.
La novità cristiana non va nella linea dell’anarchia, ma sta nel vivere in maniera corretta, pienamente rispondente al disegno di Dio, quella relazione costitutiva della polit...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Stare con il Signore, andare verso i fratelli
  3. Indice dei contenuti
  4. PREFAZIONE
  5. PRESENTAZIONE
  6. NOTE BIOGRAFICHE DEL CARD. ATTILIO NICORA
  7. INTRODUZIONE
  8. PARTE I. L’impegno nella vita sociale
  9. 1. CARITÀ E POLITICA. PER UN SERVIZIO DEI CRISTIANI ALLA COMUNITÀ CIVILE*
  10. 2. IL GIUBILEO: PEDAGOGIA DELLA CHIESA E RISVOLTI SOCIALI*
  11. 3. L’IMPEGNO DEI CRISTIANI NELLA VITA POLITICA E CIVILE*
  12. 4. L’ENCICLICA SOCIALE DI PAPA WOJTYLA E L’IMPEGNO SOCIALE DI OGGI*
  13. 5. LA LAICITÀ E LE LAICITÀ. NUOVI TEMI E NUOVI PROBLEMI*
  14. 6. PER UNA EFFETTIVA LIBERTÀ RELIGIOSA ALLA LUCE DELLE RADICI CRISTIANE DELL’EUROPA*
  15. 7. LA POVERTÀ: PROFILI DI TEOLOGIA CRISTIANA*
  16. 8. LA RIFORMA DELLE ISTITUZIONI COMUNITARIE TRA ALLARGAMENTO E COSTITUZIONE*
  17. 9. IL MONDO CATTOLICO DI FRONTE ALLA “142”*
  18. 10. LA TESTIMONIANZA DELL’ANIMAZIONE SOCIALE*
  19. 11. POLITICA, GIOVINEZZA, VANGELO*
  20. PARTE II. Gli accordi concordatari e la loro attuazione
  21. 1. IL CONCORDATO NELLA COSCIENZA E NELLA PRASSI ATTUALI DELLA CHIESA*
  22. 2. PATTI LATERANENSI: LO STATO DELLA QUESTIONE*
  23. 3. REVISIONE DEI PATTI LATERANENSI: PROSPETTIVE DE IURE CONDENDO*
  24. 4. IL CONCORDATO TRA SANTA SEDE E LO STATO ITALIANO A SETTANTACINQUE ANNI DALLA STIPULA E A VENT’ANNI DALLA REVISIONE (1929-1984-2004)*
  25. 5. SANTA SEDE E VESCOVI ITALIANI ALLA PROVA DEL CAMBIAMENTO DELLE REGOLE*
  26. 6. LA CHIESA CATTOLICA E L’ATTUAZIONE DELL’ACCORDO DEL 1984*
  27. 7. I BENI CULTURALI ECCLESIASTICI E IL NUOVO CONCORDATO*
  28. 8. IL MATRIMONIO CONCORDATARIO IN ITALIA*
  29. 9. IL FINANZIAMENTO DELLA CHIESA IN ITALIA: LE RAGIONI DI UNA RIFORMA
  30. 10. CHIESA, SOLIDARIETÀ E DIRITTO. UN CASO EMBLEMATICO: IL SOSTENTAMENTO DEL CLERO ITALIANO DOPO LA REVISIONE DEL CONCORDATO*
  31. 11. SOSTENTAMENTO DEL CLERO: CIÒ CHE È STATO FATTO E CIÒ CHE SI DEVE FARE*
  32. 12. SOSTENTAMENTO CLERO: LA PREPARAZIONE ALLA FASE DEFINITIVA (DAL 1989/1990 IN POI)*
  33. 13. TRATTI CARATTERISTICI E MOTIVI ISPIRATORI DEL NUOVO SISTEMA DI SOSTENTAMENTO DEL CLERO. QUALCHE ANNOTAZIONE A PARTENZA AVVENUTA*
  34. 14. AGLI INCARICATI DIOCESANI PER IL SOSTEGNO ECONOMICO ALLA CHIESA CATTOLICA*
  35. 15. IL RUOLO DELLA COMECE NEL QUADRO DEI RAPPORTI TRA CHIESA CATTOLICA E UNIONE EUROPEA*
  36. CONCLUSIONE
  37. PUBBLICAZIONI DEL CARD. NICORA