Niccola Nisco
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Niccola Nisco

Una vita per la patria e l'amore coniugale

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Niccola Nisco

Una vita per la patria e l'amore coniugale

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Questo libro racconta la "storia di vita" di un personaggio poco noto del Risorgimento italiano, ma che fu tra i primi a desiderare ardentemente e operare audacemente – anche con Cavour – per l'indipendenza e l'unità della patria. Per affrettarne la libertà e il progresso scrisse di storia e di economia; e, come Settembrini, Poerio, Pironti, divenne settario e subì il carcere. L'amor di patria – con l'amore coniugale e familiare – fu il motivo di fondo della sua fervida vita, nettamente distinta in un prima e un dopo 1848: borbonico e cattolico liberale prima, filosabaudo e anticlericale poi. L'Autore, quindi, nel contesto storico-antropologico del paese natale e, per dirla con Leopardi, sullo sfondo di «un secolo superbo e sciocco», ma anche teso a «magnifiche sorti e progressive», ne svela luci e ombre, finora ignote o ignorate. Provando, così, a chiarire diffuse visioni di una storiografa risorgimentale – e delle carceri borboniche in particolare –, spesso inflazionata o "avvelenata", cui concorse anche Niccola Nisco, "osservatore partecipante", nonché patriota e politico meridionale.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788838247989

1. Lo stato del nuovo Regno da Waterloo a Gaeta

Quando il 29 settembre 1816 a San Giorgio la Montagna – dal 1860 in provincia di Benevento e dal 1929 denominato San Giorgio del Sannio – nasceva Niccola Nisco, da Giacomo e Onorata Corona, nel Sud d’Italia sorgeva una nuova entità statale: il Regno delle Due Sicilie; il cui re, Ferdinando IV di Borbone, prese il nome di Ferdinando I. L’anno innanzi era terminato il Congresso di Vienna, che, segnando la fine dell’impero napoleonico in Europa, dopo la battaglia di Waterloo, aveva sancito il consolidamento della Restaurazione e dei sovrani assoluti anche in Italia. Il nuovo assetto politico, deciso dalle potenze vincitrici: Austria, Russia, Prussia e Inghilterra, si articolava in dieci Stati, il più antico e il più popoloso dei quali era il Regno di Napoli e di Sicilia con 6 milioni e 700 mila abitanti su di un totale di 20 milioni; e comprendeva tutto il Meridione, ad eccezione di Benevento, che fin dal 1077 apparteneva allo Stato pontificio.
In quello stesso anno 1815, erano falliti anche i tentativi di Gioacchino Murat – dal 1808 re di Napoli per volere del cognato Napoleone –, di sollevare le popolazioni italiane contro la dominazione austriaca e creare una nazione unita e indipendente. Per questo, nel Proclama di Rimini, del 30 marzo, egli aveva spronato gli italiani affermando: «L’ora è venuta in cui debbono compiersi gli alti destini d’Italia. La Provvidenza vi chiama ad essere una nazione indipendente [...]. Stringetevi saldamente ad un governo di vostra scelta». Certamente, quel proclama, ritenuto in seguito il punto di partenza del Risorgimento italiano, era l’espressione dei sentimenti di uomini appartenenti ad una aristocrazia colta e geniale, come Pellegrino Rossi, che lo aveva scritto, o come Silvio Pellico, Cesare Balbo e Alessandro Manzoni, che lo evocava nei versi:

O delle imprese alla più degna accinto,
Signor che la parola hai proferita,
che tante etadi indarno Italia attese…


Ma, altrettanto certamente, quel pressante invito non rispecchiava i sentimenti e le idee di tutto un popolo. Il quale, al di là della “mala volontà” dei suoi governanti, si trovava a subire proprio in quei due anni e in tutta Europa anche la carestia, il cui impatto sulla situazione economica suscitava, in diverse parti d’Italia, manifestazioni di malcontento, e perfino tumulti, prontamente repressi. Né mancavano diffuse epidemie, come i molti casi di peste verificatisi soprattutto in Puglia.
Va però ricordato che dalla Restaurazione del 1815 fino all’assedio di Gaeta del 1860 – in quasi mezzo secolo di governo borbonico –, nel regno non si ebbero aumenti di tributi; che anzi spesso diminuirono. C’erano: una sola tassa diretta, la fondiaria, che in gran parte fu messa durante il decennio francese, e quattro indirette: una sulla dogana dei tabacchi, sali, polveri da sparo e carte da gioco, e tre sul registro, la lotteria e le poste. «Provammo co’ fatti – scrive lo storico Giacinto de’ Sivo (1814-1867) – il miglior governare esser quello che costa meno. Calcolate le imposte sulle popolazioni, ogni Napolitano pagava lire 14 di tasse all’anno, dove ogni Piemontese ne pagava 28». Sulla buona tenuta delle finanze napoletane, che al momento dell’unificazione contribuirono più d’ogni altro Stato ad arricchire l’Italia, dà conto anche Francesco Saverio Nitti (1868-1953), notando i 443 milioni di lire oro corrisposti dal Regno delle Due Sicilie a fronte di neppure la metà del resto della Penisola. Il Mezzogiorno, poteva egli dire, «nel 1860, era un paese povero, ma aveva accumulato molti risparmi, avea grandi beni collettivi, possedeva, tranne la educazione pubblica, tutti gli elementi per una trasformazione». E questa non avvenne; anzi fu ostacolata dai nuovi governanti “unitari”.
È vero che c’era il «protezionismo borbonico», di cui parla anche Niccola Nisco, ma quella politica protettiva – scadente talvolta nel “paternalismo” –, almeno inizialmente era l’unica possibile, data la scarsità di materie prime essenziali, per avviare il regno a dotarsi di proprie industrie, formare manodopera specializzata, acquisire tecnologie e rafforzare l’indipendenza e la neutralità. Tuttavia, che si possa parlare di una “tradizione industriale” del Mezzogiorno, lo dimostrano non pochi studi, iniziati a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, i quali evidenziano come il settore più avanzato fosse quello siderurgico e metalmeccanico. L’opificio di Pietrarsa, tra Portici e San Giovanni a Teduccio, dava lavoro a più di 1.000 operai, disponeva di una fonderia, produceva artiglierie navali e terrestri, macchine a vapore, locomotive ecc.; e servì da modello – sei anni dopo – a quello di Sampierdarena, vicino a Genova, ma con soli 480 operai. Lo stesso dicasi per le dimenticate ferriere e fonderie di Mongiana in Calabria; o dei primi pozzi artesiani introdotti in Italia, come riferisce Giuseppe Buttà. All’indomani dell’unificazione, il primo censimento del Regno d’Italia registrava nell’ex territorio borbonico un numero complessivo di occupati nell’industria pari a 1.189.000, a fronte degli operai di Lombardia, Piemonte e Liguria, che raggiungevano appena gli 810.000.
La marina mercantile siculo-napoletana, che nel 1856 contava 11.500 legni, era per tonnellaggio la terza in Europa, e tra le 25 Compagnie di navigazione primeggiava la «Società delle Due Sicilie», anche a detta di Nisco «la più poderosa in Italia». I Cantieri Reali di Castellammare costituivano l’eccellenza mondiale per la fabbricazione di navi da guerra. L’industria molitoria, con oltre 300 impianti e le più grandi fabbriche di paste alimentari; la lavorazione di pelli e cuoio, tanto diffusa da poter fare a meno della importazione; il settore tessile, con l’industria della seta, facevano concorrenza a quelle estere; mentre lo stabilimento di San Leucio, vicino a Caserta, voluto nel 1789 da Ferdinando IV, e in origine direttamente comunicante col parco della reggia, era divenuto famoso anche per l’organizzazione del lavoro e il buon governo di quella comunità.
Last but not least, ancora dal suddetto censimento si apprende che, se al Nord c’erano 7.087 medici per 13 milioni di cittadini, al Sud ce n’erano 9.390 per 9 milioni. E in tempi e luoghi di economia essenzialmente agricola – non solo nel Sud –, di pauperismo “globalizzato” e di situazioni igienico-sanitarie oggi inimmaginabili, accadeva che all’inizio del Novecento i livelli più bassi di mortalità infantile si registravano proprio in Campania, negli Abruzzi e in Sardegna; mentre fino alla fine dell’Ottocento i più alti esistevano in Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna. Che sono le regioni citate esemplarmente da Nisco, per «quelle istituzioni civilizzatrici di cui – a suo dire – erano dotati i loro villaggi». Ma, nonostante quanto fin qui sommariamente esposto, egli, divenuto antiborbonico dopo il 1848, osava “malignare”, parlando di «un paese – il Regno delle Due Sicilie – dai Borboni economicamente sgovernato per poi sbrigliatamente tiranneggiarlo».
Riguardo all’ ordinamento etico-politico, grazie all’opera di alcuni ministri illuminati, come il cardinale Ercole Consalvi a Roma o Luigi de’ Medici a Napoli, in quei primi anni vennero impediti gli eccessi di una restaurazione intransigente; che, anzi, talvolta riusciva a trovare una certa continuità con il riformismo settecentesco. Pertanto, se Pio VII, rientrato a Roma dalla prigionia francese, soppresse la tortura e abolì diritti e privilegi feudali; Ferdinando IV, rientrato a Napoli dalla Sicilia, graziò i 250 compagni dell’ultima impresa di Murat, espellendoli dal regno, che essi volevano riconquistare. Ma a lui il re “dovette” comminare la pena capitale, il 13 ottobre 1815, in forza di quel codice penale dallo stesso Murat precedentemente promulgato, contro chi si fosse macchiato di atti rivoluzionari. Nacque così il detto popolare: «Giacchino facette ’a legge e Giacchino murette acciso», a significare che chi è causa del suo male pianga se stesso. Un monito ben noto pure a Nisco e a molti suoi contemporanei e “compagni di sventura”. Anch’io l’ho ascoltato più volte nella mia infanzia. Ma solo dopo molti anni ho potuto capire chi fosse realmente quel misterioso e ambiguo «Giacchino».
Intanto nel regno, sebbene fosse stata sciolta la setta reazionaria dei Calderari, che, a difesa di una piena restaurazione, raccoglieva baroni dell’aristocrazia meridionale ed anche elementi provenienti dalle bande brigantesche borboniche, negli ambienti liberali i nostalgici dell’età napoleonica, i costituzionalisti e i rivoluzionari non cessavano di riorganizzarsi in società segrete con ascendenze massoniche e diversi gradi di iniziazione. Al riguardo, l’8 agosto 1816, cinquanta giorni prima che Nisco nascesse, fu emanata una legge, che – regolarmente pubblicata anche sul Giornale dell’Intendenza di Principato Ulteriore – si rivelò quasi un presagio o un saggio avvertimento, che un giorno lo avrebbe personalmente riguardato e privato, per alcuni anni, della libertà, perché sarà arrestato e «condannato come settario».
Il re Ferdinando, infatti, su proposta del ministro di grazia e giustizia, il marchese Donato Tommasi, e udito il Consiglio degli altri ministri, vietava «le associazioni segrete che costituiscono qualsivoglia specie di setta, qualunque sia la loro denominazione, l’oggetto ed il numero de’ loro componenti»; e le dichiarava «manifesti attentati alla legge». Puniva i trasgressori con «la pena del bando da’ nostri reali dominj da cinque a venti anni»; e per chi concedeva la propria abitazione per le riunioni, da tre a dieci anni, più una multa da dieci a cinquecento ducati. Anche chi conservava «emblemi, carte, libri o altri distintivi della setta» sarebbe stato punito con la prigione da uno a cinque anni.
Queste rigide norme erano spiegate e motivate dal fatto che «gli sforzi che tali associazioni fanno per circondare di mistero l’oggetto delle loro instituzioni, i simboli religiosi che talune di esse fan servire a materie profane, spargono giustamente la pubblica diffidenza sulle loro operazioni». Sebbene all’inizio è possibile che si propongano finalità innocue, col passar del tempo e «secondo l’impulso delle circostanze, possono facilmente degenerare in unioni criminose». Infine, la loro reciproca opposizione sui princìpi che le regolano, «creano lo spirito di fazione, di turbamento e di discordia civile». Tuttavia, nonostante queste proibizioni, la Carboneria, diffusa particolarmente nel Sud, con le sue «vendite» o sezioni – nel 1820 solo in Irpinia 192 –, e con ramificazioni in altre parti d’Italia, continuava clandestinamente la sua attività. Per cui, cinque anni dopo, anche Pio VII, il 13 settembre 1821, la condannò, in quanto «imitazione, se non emanazione», della Società dei Liberi Muratori o Massoni.
Oggi, senza voler completamente accogliere il poco generoso giudizio di George Bernanos, che, ne I grandi cimiteri sotto la luna (1938), opinava essere l’unificazione d’Italia «la creazione più pura della massoneria universale del diciannovesimo secolo», va quantomeno tenuto presente quel che, il 16 maggio 1925, alla Camera dei deputati, pure Antonio Gramsci faceva notare: «La massoneria in Italia ha rappresentato l’ideologia e l’organizzazione reale della classe borghese capitalistica». E ad essa appartennero sia uomini di Destra che di Sinistra: da Cavour, che fu Gran Maestro, a Garibaldi, Depretis, Crispi, Bixio, De Sanctis, Zanardelli e molti altri.
In campo culturale e artistico, nel Regno borbonico, qui basti ricordare, ed emblematicamente considerare, come proprio nell’anno in cui nacque Nisco, la notte del 16 gennaio un incendio distrusse il San Carlo di Napoli, che aveva come direttore musicale Gioacchino Rossini. Era il più antico e uno dei più bei teatri lirici al mondo, voluto ottant’anni prima da Carlo III, che aveva regnato dal 1735 al 1759. Ricostruito ed inaugurato meno di un anno dopo, sarà il luogo dove – come vedremo –, il 12 gennaio 1848, alcuni estrosi liberali inscenarono una manifestazione patriottica, servendosi proprio del palchetto riservato a Nisco e consorte. In quell’anno e nel precedente, c’erano in cartellone due opere di Giuseppe Verdi: l’ Attila, con la cavatina del prologo Santo di patria indefinito amor; e il Nabucco, col celebre coro del Va’, pensiero. Ancora nel 1816, poco distante da quel teatro, prospiciente il Palazzo reale, Ferdinando I eresse la basilica di S. Francesco di Paola, dalla cupola solo inferiore a quelle di S. Pietro in Roma e di S. Maria del Fiore a Firenze. Là, in quel fatidico 1848, suo nipote Ferdinando II giurò solennemente la promessa Costituzione. E non molto lontano, al rione Pizzofalcone, nei primi anni del suo lungo soggiorno napoletano, dimorava lo studente Niccola Nisco.

2. Dieci secoli di storia e gli uomini con i baffi

La «casa palazziata» della sua famiglia di origine, era ubicata nella provincia di Principato Ulteriore – che dal 1806, dopo Montefusco, ebbe come capoluogo Avellino –, e afferiva al comune di San Giorgio la Montagna, che in una data tra quell’anno e il 1809 comprese anche i limitrofi comuni di Ginestra e di Sant’Agnese, dove abitavano i Nisco, o de Nisco, come spesso si trova registrato quel cognome, fino a Ottocento inoltrato. Posta difronte alla chiesa del villaggio, era a ridosso della strada mulattiera che portava in Puglia, e a pochi passi dalle «case proprie over palazzo» del barone Sellaroli Ventimiglia da un lato, e l’attuale vicolo Freddo dall’altro.
Sui primordi del piccolo comune di Sant’Agnese, allora con qualche centinaio di abitanti, poi divenuto un quartiere di San Giorgio – oggi con circa 2.000 anime su 10.000 –, non si hanno molte notizie né altrettanto sicure. Per San Giorgio, risale al X secolo – 991/92 – la più antica notizia storica, o meglio quella dell’omonima chiesa – divenuta cappella del cimitero dopo il sisma del 1732 – con le sue pertinenze, attorno a cui il lento aggiungersi di casa a casa, digradanti al piano, formò un borgo di «sette piccoli casali». Per Sant’Agnese, invece, la prima certa notizia è di duecento anni dopo. Quando, cioè, il suo nome viene indicato nell’atto di donazione di beni siti in Montefusco, fatta da Maria Bove, vedova di Riccardo Sarletto, al monastero di Montevergine nel 1195.
A proposito delle origini del paese natale di Niccola Nisco, e di altri piccoli centri del circondario di San Giorgio la Montagna, egli vi accenna in uno dei primi scritti: Escursioni nel Principato Ulteriore dal Cubante ad Ariano (1840), non senza aver premesso un romantico incipit. «Nel passato mese di ottobre – tornandovi da Napoli –, come era solito, [io] godeva un viver beato nella mia villa di Principato Ulteriore, ove nelle ore matutine d’ordinario rimembrava una cara idea, che nel sonno mi scuoteva il cuore… e a Dio sorgea / come un inno di lode il mio sospiro». Poi, «drizzato un bacio ed un saluto a que’ piani del Cubante, belli pel vago riso di natura», egli suggestivamente spiegava che i paesi dintorno, «dal loro nome [preso] da’ santi, si conosce essere nati nell’epoca religiosa in cui i popoli oppressi dagli uomini divotamente confidavano in Dio». Ma, altrettanto erroneamente, aggiungeva: «Molti castelli furonvi costruiti da’ Baroni, e quello di Sangiorgio, del quale non evvi alcuno avanzo, è celebrato per la vigorosa resistenza opposta a Ruggiero [II] di Sicilia [1137], per opera principalmente di Rainulfo Conte di Avellino che, con Ruberto Principe di Capua e col doge di Napoli, contrastavane il dominio, quando quel fortunato Normanno, dopo la sconfitta di Tangredi di Conversano e di Grimualdo Principe di Bari, dalle Puglie correva alla conquista di Napoli».
In realtà, assodato che qui «castello» non vuol dire maniero o fortezza, la notizia è infondata, perché frutto della confusione tra San Giorgio (la Molara) e San Giorgio (la Montagna), fatta non solo dal giovane Nisco, ma anche da qualche altro autore prima e dopo di lui; nonostante io l’abbia rilevato ormai quarant’anni fa, e nel 1998 proposi – e venne accettato – che il ricordo di quella certa e più antica data fosse significato nella titolazione dell’attuale Parco del Millenario.
Analogamente ai «casali» di San Giorgio e di Ginestra – questo più piccolo ma forse più antico –, anche Sant’Agnese, infeudato alla baronia di Montefusco, ne seguì per lo più la storia e le vicende. Quindi, sul finire del XVI secolo, il 21 agosto 1589, quando era abitato da 14 famiglie, che, giunte a 30 nel 1630, si dimezzarono dopo la peste del 1656, la sua giurisdizione, con quella del capoluogo e degli altri casali intorno, fu venduta per 45.000 ducati dal barone Pompeo Tomacelli al principe di Venosa Fabrizio II Gesualdo. Lo stesso giorno egli acquistò in burgenzatico – cioè come Terra non proveniente da giurisdizione regia – anche il casale di Calvi, con il giuspatronato della chiesa di San Fortunato – esistente in località Li Mai fin verso il 1840 – e della chiesa di San Giovanni a Marcopio, già donata nel 1135 al suddetto monastero verginiano.
Dai primi decenni del Cinquecento, per quasi tre secoli Sant’Agnese appartenne ai baroni Sellaroli Ventimiglia di Benevento, il cui stemma campeggia ancora all’ingresso di quelle «case proprie over palazzo», che sul finire del Seicento era abitato da Tommaso, sua moglie Margherita de Regina, nata a Napoli, cinque figli e quattro giovani servi: due maschi e due femmine, orfani di uno o ambedue i genitori. Una figlia, Livia Agnese, nata il 28 maggio 1686, fu tenuta a battesimo venti giorni dopo dai marchesi Giovanni Battista IV Spinelli e Lucrezia Longo Minutoli, genitori di Carlo III (1678-1742), che nel 1717 riotterrà il titolo di principe di San Giorgio, perso per liti economico-dinastiche quarantatré anni prima. Morto il cinquantacinquenne Tommaso Sellaroli Ventimiglia, che fu sepolto nella vicina chiesa, il feudo di Sant’Agnese nel 1691 passò al primogenito Carlo, nel 1723 a Cesare, nel 1752 a Carlo II, e da questi nel 1781 alla figlia Livia, che, nata nel 1757, «conseguì nel regio cedolario l’ultima intestazione a’ 19 di gennaio 1795».
Quattro anni dopo, gli effetti della Rivoluzione francese si avvertirono tragicamente anche a San Giorgio la Montagna, che, posto tra Benevento e la via regia delle Puglie, da dove passavano le milizie, era piuttosto un luogo di raccolta anziché un “centro propulsore”. Così come avverrà nei moti del 1848 con Nisco e compagni, intenzionati a «marciare su Napoli». La mattina, dunque, del 3 maggio 1799 i realisti o borbonici, radunati dal comandante Francesco Acquaviva d’Aragona per coprire alle spalle il colonnello Costantino de Filippis che si batteva in Avellino, si scontrarono con i soldati francesi provenienti da Benevento, «a piedi e a cavallo». Nello scontro fu ammazzato «in mezzo allo stradone» il ventenne principe di San Giorgio, Carlo IV Spinelli, che «andava avanti a’ francesi e li scortava e garantiva». A colpirlo con un tiro di schioppo «nel suo proprio feudo, per averlo voluto democratizzare», furono i fratelli Pasquale e Bartolomeo Petrillo di Pietradefusi: l’uno tenente, l’altro aiutante di campo, essendo «persone avvezze alla milizia e atte al regolamento delle masse radunate». Essi e gli altri insorgenti, ritenendo che il giovane principe – ricordato anche da Vincenzo Cuoco e da Giuseppe Maria Galanti – fosse un «traditore» del re, fecero scempio del suo corpo, gli saccheggiarono il palazzo che era nella piazza centrale, a cinquecento metri dalla casa dei Nisco, e assediarono per tre giorni il paese; da dove, però, molti «se n’erano fuggiti».
Nei 144 giorni che durò la Repubblica partenopea, in varie parti del regno vi aderirono, o parteciparono alla «Congiura dei Giacobini», nobili, ecclesiastici, professionisti, popolani e «poco raccomandabili». Tra loro vi fu anche un Domenico Esposito, detto Chiattone, originario di Sant’Agnese, ma dimorante a Napoli. Secondo la descrizione, tratta da uno dei Documenti per la storia dei comuni dell’Irpinia, raccolti da Francesco Scandone, egli era poco più giovane della baronessa Livia Sellaroli Ventimiglia – che dimorava a Benevento –, e prima dell’arrivo dei rivoluzionari era stato arrestato per furto e altri reati. F...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Niccola Nisco
  3. Indice dei contenuti
  4. PRESENTAZIONE
  5. I. IL PAESE NATALE TRA RESTAURAZIONE E SOCIETÀ SEGRETE
  6. 1. Lo stato del nuovo Regno da Waterloo a Gaeta
  7. 2. Dieci secoli di storia e gli uomini con i baffi
  8. 3. Un villaggio nella memoria e la qualità della vita
  9. 4. Dalla mobilità viaria alla mobilità sociale
  10. II. I BENI DEI PRINCIPI SPINELLI E IL VERBO «NISCARE»
  11. 1. L’abate amministratore e proprietario
  12. 2. Versi avversi ma rivelatori
  13. 3. I terreni demaniali di Vico di Pantano
  14. 4. Lui e gli altri per il proprio paese
  15. III. GLI AVI DEVOTI E LA FANCIULLA BELLA
  16. 1. Preti, notai e il protettore san Nicola
  17. 2. In seminario come Mancini, Massari e altri
  18. 3. Studente a Napoli sulle orme di Vico
  19. 4. Cattolico liberale e cavaliere del re
  20. 5. Nella buona e nella cattiva sorte
  21. IV. LE IDEE DI UN NEOGUELFO
  22. 1. Gli scritti giovanili e gli elogi al re
  23. 2. Oltre Gioberti e la modernità dei papi
  24. 3. I «Gesuiti di campagna» e la plebe abbandonata
  25. 4. Fede, patria e le domande di Massimo d’Azeglio
  26. V. E VENNE IL QUARANTOTTO
  27. 1. Il giorno delle barricate e la mutata rotta
  28. 2. Quei ritorni a casa e la marcia interrotta
  29. 3. Il settario-cassiere e il lungo processo
  30. 4. Tra beghe paesane e ideali politici
  31. VI. CARCERE DURO E SORVEGLIANZA SPECIALE?
  32. 1. Case e carceri nell’Ottocento
  33. 2. Le fake news di un lord inglese
  34. 3. Il menù dei carcerati e il mondo attorno
  35. 4. Le frequenti visite e dei servitori personali
  36. 5. Lo Spielberg che non c’era e le grazie del re
  37. VII. L’AMOR DI PATRIA E LA STORIA AVVELENATA
  38. 1. I rapporti con Cavour e le prime delusioni
  39. 2. L’attività parlamentare e il racconto dei tre re
  40. 3. La promessa disattesa e le accuse agli altri storici
  41. 4. Lo storico militante e i giudizi su di lui
  42. VIII. PER TENER DESTI I VIVI
  43. APPENDICE
  44. RICORDANZE DI ADELE DE STEDINGK
  45. I
  46. II
  47. III
  48. IV
  49. V
  50. VI
  51. PUBBLICAZIONI DI NICCOLA NISCO
  52. BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
  53. ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI
  54. INDICE DEI NOMI