Tre generazioni
Leonardo Baldi varcò l’ingresso del Circolo sportivo Augusta – un impianto fatiscente la cui insegna artigianale, nascosta dalla vegetazione, risultava quasi invisibile – sull’orlo di una crisi di nervi. Aveva seguito nel traffico l’automobile della paracadutista svitata, che nella guida alternava momenti di esasperante lentezza a manovre repentine, costringendolo a sorpassi e brusche accelerazioni che non potevano essere sfuggite ai subdoli autovelox disseminati sul percorso; l’immagine della smorfia di sdegno di Amedeo Sodani, intento nella lettura dei verbali di contravvenzione, gli aveva gelato il sangue.
Nella vettura che lo precedeva le ragazze, che in zona lancio si erano strette in un abbraccio lacrimoso, sembravano su di giri e ridevano in continuazione.
Lui era invece di pessimo umore e ogni sguardo lanciato all’orologio del cruscotto aumentava la sua angoscia. Non riusciva neanche a godersi l’unico colpo di fortuna, la prova che gli dei, dopo tutto, erano ancora dalla sua parte. Poco prima, infatti, sua moglie, gli aveva inviato un sms con l’indicazione del campo dove avrebbe dovuto recuperare Luca, e quando aveva girato l’indirizzo a Giada questa aveva sgranato gli occhi esclamando: «Ma è il circolo di mio padre! Hai un gran culo, amico… stiamo andando proprio lì!»
Che casino! Doveva desumerne, dunque, che Giada e Angelo Carrisi si fossero scambiati le case? E perché mai quella ragazza di classe avrebbe dovuto vivere ai bordi di un campo sportivo? Non valeva la pena di scervellarsi. La cosa importante era che l’uomo della provvidenza e suo figlio quel pomeriggio si trovavano nello stesso posto. Quella bizzarra coincidenza gli regalava la remota speranza di contenere entro i limiti della decenza il ritardo all’appuntamento dal notaio Vacca.
Ma sì: li avrebbero aspettati, cazzo. Non gli risultava avessero grandi alternative, in fondo. Per preparare il terreno, aveva inviato a Giorgio Salimbeni un messaggio ambiguo che alludeva a non precisati contrattempi comunque superati, poi aveva spento il cellulare.
Il vialetto del circolo era un budello fra le macchine parcheggiate su entrambi i lati. L’impianto doveva essere eccezionalmente affollato, per le sue abitudini. Anche lo spiazzo sterrato in fondo alla stradina era un groviglio inestricabile di automobili. Attraverso le maglie di una rete di recinzione, Leo vide che era in corso una partita fra giocatori in miniatura, un effetto tipo Subbuteo – il gioco più amato dal suo fratellastro, in cui lui perdeva sempre – e che la tribuna era piena di gente sovreccitata.
Vide le ragazze infilare il muso della macchina dentro un cespuglio e, in assenza di alternative, fece altrettanto: uno stridio sinistro di rami spezzati e vernice scrostata gli fece accapponare la pelle. Di certo, non avrebbe mai corso il rischio di rigare la carrozzeria della sua adorata Smart se non avesse in cuor suo accettato l’idea di restituirla prima o poi al curatore.
Faticò non poco a uscire dalla vettura avvolta dagli arbusti, e le spine di una pianta gli graffiarono il viso. Ancora dolore, ancora sangue! “È un calvario” pensò, ed era dai tempi della prima comunione che non si sentiva così vicino a Gesù Cristo.
Giada gli indicò una scaletta che portava sugli spalti, mentre la sua amica, la nasona, lo osservava con una sguardo indagatore che l’innervosì all’istante.
La sua barista preferita camminava con passo lievemente claudicante; esitò a seguirla perché in realtà non aveva nessuna voglia di vedere la partita: piuttosto, era giunto il momento di cercare in fretta il suo uomo e ripartire.
«Qual è la squadra di tuo figlio?» gli chiese la paracadutista con una voce insinuante.
Non rispose, si era quasi dimenticato di Luca. L’idea di trascinarselo appresso non gli piaceva e la rimuoveva continuamente; si rassegnò comunque a salire sulla tribuna; uno sguardo dall’alto poteva in fondo tornare utile e, se suo figlio stava davvero giocando, tanto valeva che si facesse vedere.
Vagando sulle gradinate alla ricerca di un posto, lanciò uno sguardo ai ragazzini in campo ma non gli riuscì di individuare Luca: non ricordando né il nome né i colori della sua squadra, la ricerca presentava notevoli difficoltà.
«Qual è tuo figlio?» chiese ancora Terry.
«Non lo vedo».
«E io non vedo mio padre» aggiunse Giada, preoccupata.
«E perché lo cerchi in campo?» chiese Baldi.
«Scemo, lui è l’allenatore».
«Scusate, vi sedete? Non vediamo niente!» disse una voce roca da dietro.
Si accoccolarono sui gradini di collegamento, che erano troppo bassi e quindi scomodi. Leo guardò verso le panchine: in quella di destra un giovanotto calvo dall’aria severa, impeccabile in una tuta blu e gialla, incitava a gran voce i suoi, sottolineando con urla terribili gli errori più marchiani. Dietro di lui, una truppa di riserve seguiva trepidante la partita, evidentemente paralizzata dal desiderio e dalla paura di potervi partecipare.
Sull’altra panca invece, accanto a un vecchio cane mezzo addormentato, c’era un tipetto vestito da cacciatore che osservava la partita in silenzio ma dando l’impressione di partecipare fisicamente alla contesa. Le sue braccia si muovevano buffamente nell’aria, indicando direzioni e disegnando traiettorie misteriose, mentre i suoi piedi percorrevano avanti e indietro, nervosamente, una zolla d’erba non più larga di mezzo metro quadro, come in un ballo di fine ottocento; ogni tanto gli partiva una gamba in avanti, come se il martelletto di un medico gli avesse centrato il ginocchio a tradimento.
«Quello che balla è tuo padre?» chiese Leonardo.
«Quello è Angelo Carrisi, – ammiccò la ragazza – ma come, eravate pappa e ciccia e nemmeno lo riconosci?»
Leonardo strabuzzò gli occhi: gli sembrava incredibile che in pochi anni quel tipo avesse subito una trasformazione così formidabile. Rispetto all’ultima volta che l’aveva visto, era dimagrito di almeno quindici chili e dimostrava dieci anni di meno. Ora esibiva un fisico prestante e giovanile, i suoi movimenti erano fluidi; anche i suoi lineamenti, un tempo appesantiti dal grasso e arrossati dall’alcol, apparivano regolari, quasi belli; soprattutto, s’era scrollato di dosso quella patina di mestizia così tipica del prestanome. Indubbiamente Angelo Carrisi new look, appropriatamente rivestito, era assai più presentabile dell’obeso e maleodorante Paoloni. Avrebbe fatto la sua dignitosa figura dal notaio; anche Giorgio Salimbeni sarebbe stato contento.
«Scusi, quanto manca alla fine?» chiese a un giovane alla sua destra.
«Come?» fece quello togliendosi un auricolare.
«A che punto siamo? Con la partita, dico» ripeté Leonardo.
Il giovane fece spallucce.
«Siamo all’inizio del secondo tempo. Zero a zero» rispose da dietro l’uomo con la voce roca.
«Sì, e se non mette dentro Baldi, così finisce! Anzi, prendiamo pure un gol. Ma perché diamine non lo fa entrare?» fece un altro seduto vicino a lui, che invece parlava in un buffo falsetto.
«Perché è arrivato tardi» spiegò il Roco.
«Che fesseria!» commentò Falsetto.
«Ma perché il nonno non è venuto? Sta sempre qua! Proprio oggi doveva dare buca?» esclamò ancora il roco, in tono sofferente.
Leonardo si voltò a guardare i due tizi con aria sbalordita, chiedendosi se quei due stessero davvero parlando di suo figlio.
«Io vado a cercare mio padre» fece Giada, alzandosi.
«Ti accompagno» disse Terry.
Leonardo si voltò nuovamente in avanti mentre le due ragazze si allontanavano.
…Ma certo che quei due uomini stavano parlando di suo figlio! E dalle loro parole si capiva che erano piuttosto ansiosi di vederlo in azione, dunque Luca doveva essere bravo, quella era l’unica spiegazione plausibile.
Tornò a ispezionare il campo, stavolta con maggiore convinzione, alla ricerca dell’invocato campione, sangue del suo sangue, il giocatore in grado di cambiare le sorti della partita.
C’era ancora molto sole, per essere pomeriggio inoltrato. I raggi obliqui si riflettevano sui fianchi metallici dei mezzi meccanici alle sue spalle e sul suo cranio rasato di fresco. Vittorio Soprani, nascosto a bordo campo fra i prefabbricati degli spogliatoi, pensava che, oltre a quel paio di enormi occhiali da sole che gli pesavano sul naso, avrebbe dovuto acquistare anche un bel cappello, magari a tesa larga; allora sì che sarebbe stato completamente irriconoscibile.
Della fluente chioma castana che lo aveva accompagnato per anni si era privato senza rimpianti; in fondo non gli aveva portato una gran fortuna. Vedere le ciocche accatastarsi sul pavimento del parrucchiere gli aveva anzi dato un senso di liberazione; così come era contento di indossare vestiti anonimi e non le sue solite tute da ginnastica firmate da gente che aveva avuto più successo di lui. Dopo aver lasciato i bagagli al deposito della stazione e aver riconsegnato la macchina alla società di noleggio, si s...