Cinema Olimpico
eBook - ePub

Cinema Olimpico

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Cinema Olimpico

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

È il presente storico il tempo di Cinema Olimpico.
Con scanzonato cinismo e delirante lucidità, la percezione della durata temporale viene qui messa da parte per far spazio alla narrazione spontanea della memoria. La Dublino dei nostri giorni appare e scompare come un miraggio per rivelare le avventure vissute dal protagonista in una tipica provincia emiliana negli anni Sessanta e Settanta.
Piccole storie di amicizia, coperte dal cioccolato della musica, dall'amore per la vita, dall'altruismo, dalla stupidità, da percorsi che scorrono come scorre l'esistente. Non importa se sullo schermo del cinema Olimpico o sullo stage dell'Olympia Theatre.
Un romanzo che chiede di essere giuramento, promessa di verità, che lascia alle spalle ogni tristezza e rivela un senso di gratitudine infinito.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Cinema Olimpico di Roberto Porcelli in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Médias et arts de la scène e Narration. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788854870550

Prima parte

I

Mentre lì fuori al Whelan’s, in Wexford Street, Riccardo si rolla una sigaretta, vedo un paio di membri della band che hanno appena svolto il loro lavoro. Stanno caricando gli strumenti su una Nissan scura tutta scassata, sono in due e il bassista somiglia un poco a The Edge degli U2, con un cappellino di pelle da pirla leggermente piccolo per la sua testa. Voglio sapere qualcosa in più sulla loro vita, mi faccio coraggio e gli chiedo se hanno qualche altro ingaggio per questa sera qui in città, se vivono così, ogni notte, quel sogno di rock and roll sul quale avrei messo la firma. Era un tipo rilassato e cordiale, neanche tanto brillo, The Edge mi disse che ora sarebbero rientrati a casa a Galway, a circa due ore da Dublino, sulla costa Ovest. Interviene anche Rick che vuole, pure lui, approfittare di quel momento di real life irlandese, con la sua paglia in bocca malfatta gli spara due cazzate che poi si sarebbe portato a casa assieme a tutta quella vita e passione notturna.
Intirizziti dal freddo, cerchiamo di rientrare dai nostri amici perché di lì a poco inizierà a suonare un nuovo gruppo, sulla locandina c’era scritto Los Putas con la foto del chitarrista, un conterraneo di Rick, siciliano in Irlanda da oltre sette anni. Era un tipo asciutto, con una maglietta a righe orizzontali stracciata sul collo, la barba incolta e la coppola in testa, Manuela si è subito innamorata di lui ma poi mi fa capire con un mezzo sorriso di aver perso la fiducia nei propri mezzi, pronunciando la frase amara: «Io oramai, a trent’anni, so dove posso arrivare…»
Quando cerchiamo di rientrare nel pub, il gorilla all’ingresso ci dice di andare sul retro a pagare il biglietto.
«Biglietto? Ma quale biglietto? Noi eravamo già dentro, cazzo! E abbiamo tutte le nostre giacche lì, proprio lì dietro la vetrata, have a look please».
Allora lui, con un dito premuto sull’apparecchio acustico, si mette in contatto con un collega della security e ci segnala di andare da un’altra parte ma non capiamo un’acca del suo inglese e allora ci agitiamo gesticolando come italiani muovendo il polso su e giù, mostrando il tipico palmo rivolto verso l’alto con le dita raccolte al centro, ripetendo che i nostri giacconi sono lì, lì dentro.
A un certo punto capiamo, ah! Capiamo che, dalle undici, l’ingresso è spostato nel vicoletto all’angolo dove si apre la biglietteria, quella che prima era l’entrata ora è diventata l’uscita. Abbiamo fatto la nostra solita figura di merda ma, infine, raggiungiamo gli altri senza pagare i dieci euro del ticket.
Il concerto è al primo piano del pub, in una saletta piccola e scura circondata da lunghe mensole ad altezza gomito, fatte apposta per appoggiare le pinte di birra, in pratica ci troviamo in un vecchio appartamento con diverse stanze in cui è allestito un secondo bar. I Los Putas sono una cover band, di quelle che ti stravolgono i pezzi, li macinano e poi li sputano fuori in modo completamente diverso. La late gig upstair è appena iniziata e sta facendo vibrare il pavimento, due ragazze sui vent’anni sembrano parte della coreografia, vestite come il cantante, con una maglietta a righe bianche e blu da marinaio, danzano all’unisono come in West Side Story, saltano, e così la gente intorno e io, Isa, Rick, Stefano e Chiara non siamo da meno. Corro assetato a caccia di una Smithwick’s nel bar sul retro, dove fortunatamente non c’è nessuno perché tutti sono davanti allo stage, poi faccio il giro del piano che è come un labirinto e rientro dal lato opposto, scorgo Isabella e subito le porgo la pinta per un assaggio ristoratore. Balliamo come studentelli qualunque e lì non c’è discomusic, né rock elettrico, tutto acustico ragazzi e, suonato da dio, un pezzo con chitarra slide sulle ginocchia per riscaldarci. Poi, ruvido blues sei corde con un contrabbasso pesante alla Stray Cats. Le percussioni muovono tutto quel primo floor sorretto da vecchie travi e iniziamo ad assorbire le positive vibrations che velocemente ci ripuliscono dal gelo, siamo in un film, siamo dentro al movie della nostra vita, è un salto nel buio in cui comincio a pensare al perché sono lì ora e anche a tante altre cose, mi gira inaspettatamente la testa e allora mi fermo in un angolo a guardare.
Appoggiato alla parete, fingendo di bere, in realtà inizio a fantasticare, ricordando che tanti anni prima ero libero e felice, come adesso sotto l’effetto di qualche birra. Il bassista è ora in piedi sul suo strumento a forma di donna e, mentre seguo le mani che strappano le corde, penso alla mia città, Parma, la piccola Parigi, al mio quartiere, e mi rivedo piccolo anch’io. Ogni tanto faccio un cenno a Isa e agli altri ma non sono più lì, perché il mio cuore inizia a parlare di altre persone e a guardarsi da lontano.
Sono in un film muto, fintanto che non sintonizzo la mia voce interiore. Sogno una scena iniziale a effetto e scelgo senza dubbio quella di C’era una volta il West, puntando diritta la camera sulla via Langhirano e tirandola su, su lentamente per vedere il Montanara che si allunga, poi alzo ancora l’obiettivo per mostrare le persone che, su quelle vie, s’incontrano alle otto di mattina prima del lavoro, al bar, dal giornalaio a comprare la “Gazzetta”. Strade che da un lato scivolano come fiumi verso i campi e le colline, e dall’altro corrono verso il senso dell’acqua, che ora non è più il River Liffey di Dublino, ma la Parma smaniosa di arrivare verso la bassa di don Camillo e Peppone. Uomini e cose non come li immagino io ma com’erano realmente. Vedo i negozi, l’edicola Marchesi, il cinema, il bar cogli ombrelloni dell’Algida ancora chiusi, il tetto a punta della chiesa a picco dietro le case e file di bambini che vanno a scuola. Tolgo le cose che oggi sono in più e riporto tutto a casa, indietro le panchine di granito sulle quali prendevamo fiato, indietro i bei campi di grano e i fossati paralleli alle case sulla via Zanguidi, seguendo l’ultimo tratto asfaltato dove poi iniziano le zone inesplorate. Dal ciglio del torrente Cinghio fino ai campi coltivati, risalgo sopra gli argini avvolti di erba selvatica che diventa subito boscaglia e il dj mette sul piatto la musica di Morricone e allora il quadro diventa più completo. Si comincia a parlare di un certo periodo interessante, almeno per quelli come me, una storia come tante, la vicenda che poi tutti desideriamo raccontare a un certo punto della vita, quando ti accorgi che sono più gli anni indietro di quelli che hai davanti. Ciò che sono diventato non c’entra più niente col mio passato, quello che ero da bambino sembra differente, ma se continuo a ragionare bene riconosco che, nella vita, solo una decina d’anni contano veramente e poi tutto il resto è una farsa o la rielaborazione contorta di quel periodo.
Chissà se i nostri genitori hanno mai pensato a queste stesse cose in un altro periodo in un’altra Italia, ne avranno fatte di tutti i colori pure loro, con i loro coetanei, solo che non ce le hanno mai raccontate, per proteggerci o perché trasformati in quelle stesse persone grigie e incapaci di ricordare che invecchiando diventiamo tutti.
Gli anni Cinquanta di De Sica, Monicelli o De Santis avevano come protagonisti le nostre mamme e i nostri papà precipitati come formiche dalle campagne nelle città a fabbricare moplen e cemento e a far nascere noi.
Da piccoli, di mestiere, ricordiamo solo flash di ciò che è Bene o Male, lo yin e lo yang dei rimproveri che ci piovono dall’alto: «Ragazzi, non fate cose di cui vi dovrete pentire!», ma non capiamo poi molto e ubbidiamo, ubbidiamo finché la memoria da criceti ce lo consente. I mille moniti dei genitori entravano da un orecchio e uscivano dall’altro per misurare gli spazi enormi che si concedevano dietro le nostre case di mattoncini arancioni. La periferia era un copertone di bicicletta che ruotava sopra i campi profumati di fieno e letame, la ghiaia delle prime strade la consuma e subito viene sostituita con cerchi sempre più grandi per parare il culo ai raggi che convergono al centro e allora la città diventa di anno in anno più grande.
Ogni cosa è funzionale a una seconda, ogni uomo ha la sua piccola storia che non interessa ai giornali, ma io ora non desidero confrontarmi con nessuno, questo è il mio mondo, questo m’interessa raccontare.
Parma non è certo una megalopoli e noi siamo le palline di un flipper chiuso tra la Bassa e l’Appennino, dentro ci sono molti torrenti e un grande fiume e le piccole città intorno sono così vicine che qualche modenese o reggiano si riconoscerà in quel che sto dicendo. I nostri genitori hanno vissuto assieme, vengono dagli stessi campi coperti di vigna e frumento, a piedi o in corriera varcavano distanze che sembravano lunghissime, ma che non sono più di trenta chilometri. Mio nonno da Castelfranco Emilia andava al mercato di Bologna a piedi, partiva la mattina per tornare a sera fatta, noi invece avevamo la Fiat 500 e scoprivamo i confini misteriosi della via Emilia che ci sembrava attraversare mondi differenti e lontani. C’erano punti cardinali ben specifici con i quali, da bambino, mi ero creato una personale mappa, quando sulla sinistra vedevo la Bruciata sapevo che ero quasi arrivato a destinazione, i nonni, gli zii erano vicini. La giornata la passavo a cacciar lucertole e correr dietro ai gatti, quando il nonno attaccava la mucca al biroccio ci saltavamo tutti sopra per esser trasportati nei campi a raccogliere le bietole e il fieno col forcone. Se il granturco era maturo, giocavamo a nascondino in mezzo agli alti steli, con le orecchie ben aperte ai rumori di frasche che ci giravano intorno, con la paura di esser scoperti. La sera ero distrutto, dall’auto di papà vedevo scorrere campanili uguali e noiosi mentre i neon delle insegne si accendevano a scatti ed erano ben più utili dei cartelli stradali di cui non conoscevo il significato. Gli omini Michelin, le trattorie, i semafori riavvolgevano il tempo al contrario per misurare le mie capacità di orientamento, con la tempia appoggiata al finestrino, non vedevo l’ora che la luce con la scritta grande “Salamini” mi dicesse che ero ormai giunto a casa.
Ficcato nuovamente nel presente, dentro a Dublino, alla fine del concerto ho un tremito di paura mentre scivolo sui vetri rotti di un bicchiere, Rick mi tiene su e usciamo tutti eccitati in strada, anche se perdiamo subito Chiara e Isa che decidono di rientrare assieme per pararsi da eventuali brutti incontri. Lì al Whelan’s avevamo assistito a un memorabile esempio di rock and roll lifestyle che però ora dovevamo subito dimenticare per ricompattare il gruppo, con quell’urgenza di non guardarci mai indietro. L’avidità di non perdere un minuto della nostra vita ci spinge a lasciare la zona periferica tra la Camden e Wexford Street dove la notte sembra giorno, per uscire all’incrocio di Lower Kevin Street in un interregno di nulla e buio fintanto che non raggiungiamo Temple Bar, nostra nuova meta. Mentre camminiamo velocemente sento nuovamente il bisogno di far riposare la mente, ma stavolta è una decisione unanime, ognuno è chiuso nei propri pensieri per ricaricare le batterie e fare i conti con sé stesso. Mi sento un po’ il bimbo che non sa dove andare, non conosco la città e allora seguo gli altri, le persone di cui mi fido, alzo gli occhi ogni tanto a guardare il mondo, e tutto mi appare nuovo cercando dei punti di riferimento, delle luci da seguire. Perdersi è una delle paure principali di un bambino, le luci della via Emilia scorrevano e mi chiedevo come avrei fatto a imparare i percorsi dei grandi se non conoscevo nemmeno le vie del mio quartiere, come avrei fatto a trovare la scuola e a tornare indietro dalla mamma? I bambini riescono a sconfiggere facilmente l’ignoto, per miracolo imparano e tutto diventa semplice, naturale come leggere e fare le aste, vincevo la fifa e saltavo il fosso, ciò che occorreva si doveva toccare spontaneamente mentre il domani era troppo avanti per riuscire a capirlo: «Che se ne occupassero i genitori, le maestre, i maestri o il prete».

II

Mi trovo in Irlanda per imparare l’english, tutti ormai devono imparare l’english, in ditta mi hanno concesso questo privilegio a cinquant’anni suonati e ho colto l’occasione per aprirmi la strada a nuove prospettive. Molti compagni di scuola sono universitari, ragazzi che vogliono aumentare le probabilità di trovare un lavoro o semplicemente divertirsi lontani dalle grinfie dei genitori, altri invece si sono iscritti dopo che la vita li ha bastonati, perdendo chi gli affetti chi il lavoro o entrambi, puntando una quota dei propri risparmi per riaprire i giochi e ripartire da zero. I miei interlocutori sono giovani tra i ventiquattro e i trentacinque anni ma non vedo poi tutta questa differenza, se per loro non è un problema figuriamoci per me e per le nostre insegnanti, Naz ed Evelin, che insieme fanno trent’anni di media. Ogni mattina facciamo giochi stupidi e divertenti che mettono in competizione la classe per farti riattivare il cervello e ripassare le lezioni precedenti. Chiara, Amanda e Virginia sono mie compagne di livello, l’upper-intermadiate, che è un po’ come essere cintura marrone di karate, sai già che il balzo successivo significa farsi il culo. Tutte le spinette per inserirsi seguono il social programme organizzato nel doposcuola e nei weekend da Declan, in questo contesto anche i più timidi riescono a conoscere gli altri formando gruppi di persone affini. La Niña, la Pinta e la Santa Maria sono le tre tipologie primarie di aggregazione, imbarcazioni sulle quali decidono di salpare gli arrapati, gli sbevazzoni e i morigerati. A eccezione dell’ultima categoria, per tutti l’inglese passa in secondo piano anche se poi, alla fine, lo imparano meglio di chi sta ventiquattro ore su ventiquattro sul testo scolastico.
Declan è un artista, il suo nome d’arte è Larry Beau, è eccentrico al punto giusto ma è anche una persona seria. Ci scorta per le strade di Dublino con la sua aria distratta, le borchie ai polsi e i panta scozzesi a tubo attillati, il suo passo è fiero e difficilmente si gira indietro mentre lo seguiamo come pulcini curiosi. Chi rimane al di qua della strada deve arrangiarsi perché la chioccia tira dritto verso il Trinity o un’altra direzione del programma. Larry ha sempre con sé un liuto da passeggio, tipo ukulele ma con la cassa armonica allungata e ogni tanto ci suona qualcosa, tra cui la sua hit, intitolata Save Me From Apathy, una folk-song il cui ritornello triste mi ricorda gli affetti lasciati a Parma, una moglie e un figlio adolescente immersi nella vita normale, attività tipo strisciare il badge every day al lavoro o a scuola e far la spesa il venerdì.
La verde Irlanda parla inglese ma non si sente per niente parte del mondo anglosassone, gli Irish sono simili a noi latini con la loro curiosità e i mezzi pubblici sempre in ritardo. Quando sali sul bus non è escluso che qualcuno ti avvicini per chiederti da dove vieni e cosa cazzo ci stai facendo a Dublino e sui taxi è inevitabile che l’autista attacchi bottone aprendo la p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prima parte
  3. Catalogo